Riprenditi il tuo contesto

Francesco Pandini
12 min readApr 11, 2024

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Fugazi, First Demo

A un certo punto, durante le quasi due ore del documentario Instrument, Brendan Canty racconta di come il fidanzato di sua sorella sia convinto che i Fugazi, la band di cui è batterista, vivano in una sorta di comune priva di riscaldamento, mangiando nient’altro che riso. Con quello che pare solo fino a un certo punto sarcasmo, Guy Picciotto — voce torturata, Rickenbacker malmenata, acrobazie spezzaossa — gli fa notare come nell’ultimo periodo, in effetti, non ci sia stato molto altro sulla loro tavola; da qui Steady Diet Of Nothing (Dischord, 1991), anche il titolo di uno dei loro classici. Pare fosse proprio uno degli obiettivi del regista Jem Cohen, far luce su una band che parlava solo attraverso album, concerti e modus operandi. Obiettivo raggiunto attraverso un lavoro di montaggio di materiale ripescato da una dozzina di anni di frequentissimi live e rarissime interviste, senza curarsi dello stretto ordine cronologico ma piuttosto di un senso complessivo che emerge per accumulo di episodi focali, esibizioni di straordinaria fisicità, aneddotica on the road, momenti morti o solo stralunati. Un documento essenziale per chiunque voglia avere un’altra prospettiva sui Fugazi, realizzato giusto qualche anno prima che iniziasse lo iato indefinito che perdura ancora oggi — e che, probabilmente, non sublimerà mai nell’ennesima, triste reunion di rito. Un film che mostra l’unicità di un progetto a quattro teste ugualmente importanti — le altre due: Ian MacKaye (voce, chitarra, ideologia) e Joe Lally (basso, groove, swing) — in cui la politica stava nelle azioni quotidiane in quanto band più che in raccolte di slogan da mandare a memoria senza pensarci troppo. Troppo intricati e aperti all’interpretazione, i loro testi, per farsi breviari da buoni rivoluzionari come quelli di Zack De La Rocha.

Se il pensiero indipendente è stato di tante band del dopo-punk, è pur vero che nessuna di esse ha mantenuto la barra dritta come i Fugazi, riuscendo pure a raggiungere un notevole successo di pubblico attraverso azioni concrete. Una casa discografica, la Dischord, fondata nel 1980 con l’intento di testimoniare quanto accadeva nella scena punk di Washington — formidabile la raccolta 20 Years Of Dischord, che ne celebrava le prime due decadi. Concerti con prezzi bassi o addirittura gratuiti, quando si tenevano in strutture con specifiche funzioni sociali o in occasione di ricorrenze importanti — per esempio, l’anniversario della marcia di Washington del 1963. Niente merchandise — “non vi dobbiamo nulla / non avete controllo”, diceva la canzone su Repeater (1990) — o grandi produzioni con scalette preconfezionate. Un’attitudine DIY tesa a ridurre tutto all’osso, lasciando spazio solo a un’idea di musica collettiva e comunitaria, in cui chiunque volesse era invitato a partecipare a patto che rispettasse gli altri: memorabile la sequenza in cui MacKaye, dopo aver fermato un brano e redarguito uno dei presenti per un comportamento violento, lo trascina sul palco per accompagnarlo infine all’uscita tenendogli un braccio stretto intorno al collo. Parrebbe quasi francescanesimo, anche per via delle abitudini straight edge così apparentemente in contrasto con la ribellione punk; ma un francescanesimo di favoloso pragmatismo, un’ecologia/economia della mente necessaria per fare le cose a modo proprio. A guardare l’epopea Fugazi con un poco di attenzione, è facile identificare quell’etica come l’impalcatura su cui la band ha costruito una reputazione e una discografia inattaccabili — i miei preferiti, oltre a Repeater, In On The Kill Taker (1993) e il gran finale The Argument (2001). Eppure, a ben guardare il documentario di Cohen, si capisce come molti non fossero lì per quello.

In una carrellata di volti di giovani e giovanissimi in attesa di un concerto, ci si sorprende a notare — ingenuamente, in verità — come la stragrande maggioranza di loro sia stata attirata dal semplice sound della band più che da tutto il suo portato sociopolitico. Sono perlopiù maschi bianchi americani della metà dei Novanta, ascoltatori figli dell’esplosione dell’underground post-Nevermind, spolpato fino all’inverosimile dalle major negli anni seguenti. Nota divertente: molti hanno già un look pronto per i Limp Bizkit, di lì a pochi anni; il passo successivo per alcuni, da adulti, sarà probabilmente Donald Trump. Per origini e formazione, dunque, possono percepire dei Fugazi soltanto la carica incendiaria e il volume delle chitarre, perdendosi per strada tutto il contesto di cui dicevo — cui si aggiunga un’attenzione alla parità di genere ancora ben poco diffusa in ambito rock: per Kathleen Hanna, pur tra mille dubbi, Suggestion resta la prima canzone cantata da un uomo che abbia affrontato da una prospettiva femminile l’oggettificazione del corpo della donna. Nel succedersi di parole e pensieri non molto strutturati s’incontrano però delle eccezioni, che hanno le sembianze di due ragazze velate e di un ragazzo di colore. Solo loro, nei Fugazi, sembrano cogliere l’importanza dell’onestà intellettuale e dell’attitudine indipendente che ha consentito al quartetto la piena libertà espressiva oltre a un successo ottenuto alle proprie condizioni. E se sembra elitario e selettivo, laddove il punk voleva essere in fondo musica del popolo, è per una ragione identificata con chiarezza da Picciotto: non è necessario che chiunque ascolti la musica dei Fugazi; è invece importante che quella musica esista in un contesto creato dalla band stessa cui le persone sono invitate — ma non obbligate — ad accedere. L’accesso a quel mondo, insomma, è una scelta individuale.

Nell’introduzione a Territorial Pissings (Minimum Fax, 2024), raccolta di interviste a Kurt Cobain pubblicata nel trentennale della morte, Dana Spiotta richiama alla mente una nota dal booklet di Incesticide (Geffen, 1992), vergata dallo stesso cantante/chitarrista: “se qualcuno tra voi per qualsiasi ragione odia gli omosessuali, le persone con la pelle di colore diverso, o le donne, vi preghiamo di farci un favore: levatevi dal cazzo! Non venite ai nostri concerti e non comprate i nostri dischi”. Di tutte le cose che tormentarono il leader dei Nirvana per tutta la sua esistenza ci fu sicuramente un ideale di purezza e autenticità nativamente irrisolvibile. Impossibile dire quanto di questo c’entri con il suo suicidio — le spiegazioni univoche di gesti estremi sono sempre semplicistiche e di conseguenza sbagliate — ma è certo che Cobain avesse la percezione di un’etica irrimediabilmente compromessa da un successo sì cercato, ma certo inaspettato — quantomeno in quelle proporzioni multimilionarie, nonostante la patina pop di Nevermind (Geffen, 1991) — e del tutto fuori controllo. Un successo che aveva decontestualizzato il suo malessere esistenziale dalla provincia nordamericana catapultandolo davanti a un pubblico perlopiù inconsapevole di quanto dolore fisico e psicologico animasse quei ritornelli facili e perfetti — “he’s the one who likes all our pretty songs / and he likes to sing along and he likes to shoot his gun / but he knows not what it means”, recita letteralmente il chorus di In Bloom. Nella sua prefazione, Spiotta sottolinea più volte quanto Cobain fosse dibattuto tra sarcasmo post-ideologico (“me ne frego”) ed iper-emotività esposta (“me ne frega”). Ma, di nuovo, si trattava di una lacerazione insanabile, a meno di non abbandonare del tutto la parte ironica del proprio spirito punk.

Nel 1993, i Nirvana pubblicano In Utero, sorta di brutale reazione noise alla cantabilità del predecessore, forse tentativo finale di riprendere il controllo del proprio pubblico circoscrivendolo per quanto possibile all’ambito alternative — non funzionerà se non in minima parte, dato che parliamo comunque di un disco di strepitoso impatto commerciale: a oggi, 15 milioni di copie in tutto il mondo. Al di là del suono, un’implosione nucleare cotta e mangiata in studio con Steve Albini come produttore, l’album è intriso di un immaginario lirico disturbante, deformità messe in bella mostra che cozzano in maniera ancora più accentuata con certi passaggi ironici — il “leggendario” divorzio dei genitori, che tanto segnò la crescita di Cobain, viene liquidato già nel primo pezzo, Serve The Servants, come “una noia”. Ma all’ascoltatore medio — cioè la quasi totalità di un mare di ascoltatori — bastano i videoclip di un paio di singoli remixati a dovere da Scott Litt (Heart Shaped Box, All Apologies) per farsi abbagliare dalla superficie scintillante del rock nuovista senza curarsi di ciò che si nasconde sotto quella coltre di rumore. Praticamente in contemporanea, sempre a Seattle, i Pearl Jam pubblicano Vs (Epic, 1993): un’altra aggressione sonora, seppur di una pasta tutta diversa rispetto a In Utero; un’altra raccolta di attacchi all’arrivismo dell’America corporate; un altro mostro fuori scala, concepito per essere rabbioso e invendibile e smerciato invece in un milione di copie nella prima settimana. Perfettamente naturale, in retrospettiva: per quanto Vedder o Cobain potessero urlare e reclamare una propria individualità, non c’era nessuna contestazione o semplice presa di posizione controcorrente che il mercato non potesse volgere a proprio favore. Spiotta ricorda la maglietta “corporate magazine still suck” indossata dal leader dei Nirvana sulla copertina di Rolling Stone: oggi fa l’effetto di un meme, e anche allora m’immagino che ai piani alti della rivista avessero fatto i giusti calcoli, prima di pubblicarla. Vedder non era altrettanto ironico, ma il risultato non cambiava.

Che i Fugazi non fossero ironici per nulla, che non dovessero fingere che a loro le giuste cause non importassero, lo avevano già messo in chiaro i primi lavori. Per In On The Kill Taker — che esce in quello stesso 1993: probabilmente il loro disco più diretto e completo, per la cui produzione viene assoldato inizialmente proprio Steve Albini — scelgono di dirlo esplicitamente già nella prima traccia. Facet Squared è un assalto frontale al distacco portato in dote dall’evo reaganiano, per MacKaye una semplice scusa per non impegnarsi in nulla, non tendere proattivamente al cambiamento, non essere autori della propria storia: una generazione di disillusi cronici e cinici incapaci di agire è sempre quello che il potere vuole per preservarsi, e lui e i suoi compagni di band non hanno proprio l’intenzione di farne parte. Ma ancora una volta: MacKaye, a differenza di Cobain, sceglie di poter continuare a scegliere per sé, di non trovarsi a rincorrere l’agenda di qualcun altro. O forse è solo una questione di desideri, o di un realismo in grado di comprenderne le conseguenze più ovvie.

Un’ultima divagazione funzionale. Quale fosse il brodo primordiale da cui veniva il malessere di Kurt Cobain, può aiutare a comprenderlo un’esperienza stordente e senza filtri come la visione di The Doom Generation (1995), secondo capitolo della Teenage Apocalypse Trilogy di Gregg Araki inaugurata un paio d’anni prima da Totally Fucked Up. Storia di tre dropout in fuga — uno ingenuo, una disgustata, un altro diabolico — il film è un fuoco di fila di orrori inframmezzato da oasi di noia, sessualità esplicita in via di definizione, perfino tenerezza. E pure sarcastico e time specific, fin dai titoli di testa — “a heterosexual movie by Gregg Araki”, dichiara: non andrà proprio così — e dalla scelta dei nomi dei personaggi — Amy Blue, Jordan White, Xavier Red: ognuno già un intero spettro emotivo, raggelato/raggelante. Poi c’è la questione dell’estetizzazione della violenza, girandola di sanguinamenti, decapitazioni e castrazioni da far girare la testa al Quentin Tarantino dell’epoca: qualcosa cui Michael Haneke o Nanni Moretti avrebbero risposto, l’avessero visto. Un cinismo sfacciato e di facciata che un grande critico come Roger Ebert, all’uscita, non gli perdona. La sua valutazione a zero stelle, peraltro divertente come solo certe sue altre stroncature, non è priva di ragioni affilate — c’è sicuramente del distacco intellettuale nel modo divertito in cui Araki decide di mostrare parte di ciò che sta mostrando. Le considerazioni di Ebert sembrano però mancare degli strumenti per decrittare la sofferenza di un mondo sotterraneo di cui, al momento, ancora ignora l’esistenza e le ragioni.

Che ci sia qualcosa di questo acidissimo frullato che gli Stati Uniti mainstream — democratici o repubblicani che siano: il film esce in piena era Clinton — non possono afferrare, lo chiarisce già un’ambientazione da distopia sci-fi, figlia tanto del John Carpenter di Escape From New York quanto degli esordi no-budget di Sam Raimi, solo tradotti nelle tinte da lucidalabbra di MTV. Il mondo in cui si muovono questi ragazzi è oscuro e senza via d’uscita, aggressivo, predatorio, bigotto: la loro risposta è dissennata, uguale e contraria. Tutto è grottesco, va da sé: ma più la trama si dipana, più ci si rende conto di trovarsi davanti non tanto a un futuro prossimo dove tutto è andato storto, ma solo a una possibile versione radicalizzata del presente. Come se non bastassero indizi disseminati qua e là — per esempio: l’insegna “shoplifters will be executed” in un negozio — ci pensa anche un finale particolarmente traumatico, con tanto di neonazisti in parata. E sarà ovviamente il più indifeso tra i personaggi a rimetterci tutto: esattamente come accade oggi, in un’America forse presto di nuovo trumpiana. Nella sua recensione, Ebert mette a confronto The Doom Generation con un altro classico dannato di qualche anno precedente, Henry: Portrait Of A Serial Killer. In McNaughton, nel suo affrontare di petto l’indifferenza terrificante di un assassino, Ebert ritrova una sincerità che non riscontra invece in Araki, cui attribuisce un’antisocialità autocompiaciuta.

Non sono d’accordo. The Doom Generation è il ritratto compiuto di un pezzo sotterraneo di Generazione X statunitense, colta nel momento in cui il mercato comincia ad accorgersi della sua esistenza e si prepara a passare all’incasso offrendone a un pubblico internazionale e inconsapevole una versione ripulita ed eccitante — così com’è, nessuno la comprerebbe: le servirebbe un buon maquillage, come quello di Butch Vig sui pezzi di Nevermind. Invece Araki è sconsiderato, senza calcolo, incompromissorio: un incasso di soli trecentomila dollari e censure di ogni tipo sono lì a testimoniarlo, nonostante rivalutazioni recenti. Il fatto che il suo film non si neghi nulla, nemmeno l’ironia più alienante, rende manifeste l’urgenza e la verità del suo messaggio, magistralmente riassunto nell’inquadratura conclusiva: sguardi annullati che puntano verso il niente mentre in sottofondo suonano gli Slowdive, i sensi ovattati come in un dopo-bomba. Accettate certe premesse, è difficile negare — come invece fa Ebert — che un’opera come questa nasconda allo spettatore l’unico esito possibile di certi estremi emotivi: l’autodistruzione.

Il brano più noto dei Fugazi è il primo del loro EP d’esordio: si chiama Waiting Room e il suo verso più famoso recita “function is the key”, un’esortazione a trovarsi attraverso scelte consapevoli. Bombardati di stimoli e al contempo privati di ogni strumento per pensarsi nel mondo, i personaggi di The Doom Generation, così giovani, sembrano già aver rinunciato alla possibilità stessa di una funzione per sé. Somiglia alla fatica che Cobain si trova a trascinare sul palco ogni sera, sempre più dolorosamente.

Autenticità, etica, indipendenza. Sono passati trent’anni da quando Kurt Cobain si è tolto la vita, e discorsi come questi — che allora servivano a distinguere “noi” e “loro”, a formare identità — sembrano venire da una galassia lontana lontana. Oggi che la musica incisa ha perso ogni valore economico per i nomi medio-piccoli, schiacciata dallo streaming a poco prezzo, ogni artista è costretto a farsi imprenditore di se stesso. E non già nella maniera di Ian MacKaye, bensì adattandosi alle regole di comunicazione imposte dalle piattaforme di social networking, che obbligano a una continua esposizione/promozione di sé — il fatto che funzionare in questi contesti significhi anche limitare la propria espressività in funzione di ciò che genera interazioni è solo un effetto collaterale. Ma se per il mainstream è sempre stato normale occupare tutti i canali comunicativi, ridurre il messaggio al medium, per l’underground il contrasto è certo più stridente. Oggi chiunque può essere un brand e avere un pubblico, anche la proposta più oscura e difficile; ma quel pubblico sarà perlopiù una somma di singoli individui arrivati lì per vie differenti, con ben poche cose in comune — d’altro canto, l’atomizzazione dei consumatori è l’obiettivo manifesto del capitalismo della sorveglianza.

Per esempio: per quel che mi riguarda, Camae Ayewa è una delle voci più autorevoli della musica sperimentale contemporanea; i suoi lavori con gli Irreversible Entanglements e a nome Moor Mother — incroci pericolosi/pericolanti di hip-hop, jazz, noise e avanguardia — sono brucianti, poetici, innovativi. La scorsa settimana, aprendo Instagram, ho trovato una sua nuova Storia: la cantante era stata insignita dello Chanel Next Prize 2024, centomila euro per realizzare nuovi progetti — cito dal sito: “il premio biennale viene assegnato a dieci artiste e artisti contemporanei provenienti da tutto il mondo, che si sono distinti come innovatori e innovatrici nella propria disciplina”. Ho inarcato un sopracciglio. Non tanto per l’idea che un’artista di nicchia cerchi un modo di continuare a produrre arte, quanto piuttosto per la patina di finzione che ammantava l’intero video. Stacchi rapidissimi, pose pensose, slogan motivazionali intercambiabili: un’intensità tutta simulata a uso e consumo del pubblico di un marchio di moda, che può permettersi di comprare l’idea di essere non tanto un’azienda che vende prodotti — quello che fanno tutte le aziende, indipendentemente da ciò che dicono — quanto piuttosto un’istituzione benefica e culturale con una precisa idea di mondo; in questo caso, perfino un soggetto con un’agenda politica radicale e inclusiva con l’adeguata musica di sottofondo.

Non è democratizzazione dell’accesso, questa, contrariamente a quanto sostiene Spiotta: è invece un sistema così pervasivo da essere accettato come inevitabile, capace di fornire non solo gli strumenti per comunicare ma pure i contenuti, opportunamente addomesticati e privati però di ogni contesto — un McLuhan all’ennesima potenza. Di fronte a tutto questo, non ho idea di cosa avrebbe fatto Kurt Cobain per orientarsi, sentirsi meno spossessato. So però cosa avrebbe fatto — e farebbe — Ian MacKaye: la funzione è ancora una chiave, la sola.

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Francesco Pandini

Mi occupo di contenuti e servizi digitali per biblioteche con MLOL. Ho scritto di musica e cinema altrove, e ora ne scrivo qui.