Parole Visive — Vive e Politiche

Federica Fragapane
16 min readSep 5, 2023

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Nel corso degli anni ho raccolto considerazioni e pensieri legati al linguaggio visivo che utilizzo nel mio lavoro di information designer. In questo testo li ho ripresi, collegati tra loro e ne racconto la storia e l’evoluzione, per parlare di come le parole visive usate nella data visualization possano essere vive e, in alcuni casi, politiche.

Il ruolo delle parole

Amo molto le parole, la cura necessaria dietro alla loro scelta. Scegliere le parole da usare è un processo importante, la cui responsabilità viene spesso minimizzata da chi ignora — o fa finta di ignorare — la capacità del linguaggio di opprimere, impoverire, ferire, scaldare, aiutare, elevare.

Parlando del ruolo del linguaggio e delle conseguenze di una lingua rigida e immutata, Toni Morrison scrive:

Sebbene moribonda, non è priva di effetti, perché ostacola attivamente l’intelletto, blocca la coscienza, sopprime il potenziale umano. Chiusa a ogni domanda, non può formare né tollerare nuove idee, plasmare pensieri diversi, raccontare un’altra storia, riempire silenzi sconcertanti. La lingua ufficiale forgiata per approvare l’ignoranza e conservare il privilegio è un’armatura lucidata fino a farla brillare, un guscio vuoto che il cavaliere ha abbandonato ormai da tempo. Eppure, essa rimane: ottusa, predatoria, sentimentale.

E ancora:

Il linguaggio oppressivo non si limita a rappresentare la violenza, è esso stesso violenza; non si limita a rappresentare i limiti della conoscenza, bensì limita la conoscenza.

Le parole non descrivono solamente i nostri mondi: li rafforzano, li nascondono, li indeboliscono.

Anche nel mio lavoro le parole sono importanti: mi permettono di spiegare i miei grafici, di decodificarli per i lettori e di dar loro gli strumenti per leggerli. Mi permettono inoltre di esplicitare la mia presenza, di dichiarare le mie scelte e — soprattutto — il fatto stesso che stia compiendo delle scelte e stia selezionando delle informazioni da un insieme più ampio: parlo dei brevi testi di spiegazione che spesso accompagnano i miei progetti e che mi permettono di spiegare quali siano state le mie selezioni (es, i primi 50 Paesi al mondo per emissioni di CO2 nell’anno più recente).

Data visualization sulla concentrazione globale di CO2 in atmosfera

Mi capita spesso inoltre di parlare di come per me lavorare a una visualizzazione di dati sia come scrivere, scrivere con alfabeti e linguaggi visivi che mi permettono di raccontare le storie che attraversano i dati e i numeri a cui do forma. Spiego anche spesso come l’estetica delle parole visive che uso abbia per me un ruolo fondamentale. Ci sono casi in cui utilizzo rappresentazioni grafiche molto classiche, diagrammi semplici e lineari, ma ci sono anche situazioni in cui le forme che disegno sono sicuramente diverse da quelle standard. Quando le necessità a cui rispondono i miei lavori fanno sì che possa sperimentare visivamente, lavoro con forme morbide, organiche, che richiamano mondi “viventi”: lo faccio per ricordare (prima di tutto a me e poi spero ai lettori) le vite e le storie che spesso mormorano silenziosamente dietro ai dati, un mormorio fantasma di cui è facile dimenticarsi.

L’estetica ha anche un ruolo legato all’invito alla lettura: spesso modello e ammorbidisco le linee e le forme dei miei grafici con il fine di attirare l’attenzione dei lettori, di invitarli all’esplorazione dei miei pezzi.

Ci sono casi poi in cui la scelta di un tipo di linguaggio visivo morbido, “fragile” (aggettivo usato tempo fa da un cliente e che ho apprezzato molto), è legata anche alla fragilità dei dati stessi. Ma tornerò su questo punto più tardi.

visualizzazione di dati sugli attivisti ambientali uccisi in Brasile tra il 2015 e il 2019. La visualizzazione è stata realizzata per il magazine Atmos e accompagna un lavoro di inchiesta scritto da Yessenia Funes sulla morte del difensore ambientale Fernando dos Santos Araújo. Il progetto è stato recentemente acquisito dal MoMA di New York come parte della sua collezione permanente.

Quindi insomma, scegliere le parole visive da usare per me è sempre stato un processo a cui lavorare con grande cura. Sono anche consapevole di come alcuni dei miei linguaggi visuali possano risultare molto strani, forse anche troppo a volte. Mi ritengo fortunata perché nel corso degli anni tantissime persone hanno capito i motivi dietro al mio approccio e li hanno accolti con grande apertura e interesse, ma ovviamente ci sono state, e continueranno ad esserci credo, critiche di diverso tipo. Non mi metterò a raccontare in dettaglio la differenza tra le critiche costruttive che mi hanno aiutata moltissimo e le critiche distruttive che hanno fatto sì che per molto tempo i miei denti tormentassero le mie unghie con eccezionale foga ogni volta che mi accingevo a pubblicare un nuovo progetto sui social (strumento essenziale per far conoscere il mio lavoro).

«Bello ma inutile.»

«Come ti permetti di definirti un’information designer! Questa non è informazione!»

«Sbagliato! Non si fa così! Io non faccio il tuo lavoro, sono un fotografo e al contrario di te non ho più di 10 anni di esperienza in data visualization alle spalle, lascia che ti dica come si fa!»(Ok, ammetto che l’ultimo commento non era esattamente così, ho aggiunto alcuni dati di contesto ricavati spulciando il profilo del suo autore).

Quando leggevo quelle critiche intravedevo qualcosa tra le parole: avevo la sensazione che dietro di esse si nascondesse un pensiero più ampio, ma non riuscivo a metterlo a fuoco. Finché a un certo punto, leggendo il consigliatissimo libro Data Feminism scritto da Catherine D’Ignazio e Lauren F. Klein, sono arrivata a questo paragrafo:

Nel caso della visualizzazione dei dati, ciò che viene escluso è l’emozione e il sentimento, l’incarnazione e l’espressione, l’ornamento e la decorazione. Questi sono aspetti dell’esperienza umana associati alle donne e, pertanto, sminuiti dalla logica del nostro stereotipo dominante.

Per alcuni potrà sembrare un concetto ovvio, ma per me non lo era affatto. Ho sottolineato quelle frasi con particolare enfasi per imprimere non solo nella carta, ma anche nella mia mente, l’importanza delle parole che stavo leggendo. In realtà non ci sarebbe stato bisogno di quella accalorata sottolineatura: quelle parole si erano ormai incastrate nei miei pensieri e sono ancora lì, assolutamente salde.

È bello ma

Qualche tempo dopo, a seguito di un nuovo commento che mi aveva fatto riflettere, ho scritto e pubblicato queste brevi considerazioni.

Questa è una riflessione sul ruolo dell’estetica e sulla legittimazione.L’estetica ha un ruolo importante nel mio approccio al design. […] Come professionista in questo campo, naturalmente ho ricevuto critiche e affrontarle apertamente, ascoltandole, fa parte del mio lavoro. Un commento ricorrente è quello che definisco “è-bello-ma”. In un commento recente, la frase è stata seguita da “è un vero lavoro?”. Sì, ovviamente lo è, per me è stato un vero lavoro dal 2012.

Trovo interessante come a volte la presenza di elementi esteticamente gradevoli sembri minare l’autorità e la serietà del mio lavoro, che è composto da molte fasi, dall’analisi dei dati al design.

Questo non cambierà il mio approccio, anche se cerco di migliorarlo ogni giorno, ma trovo che sia un aspetto interessante da analizzare. C’è una citazione dal bellissimo libro “Data Feminism” — scritto da Catherine D’Ignazio e Lauren F. Klein — che trovo molto importante [qui mi riferisco al paragrafo citato sopra].

Non è sempre così e sono grata per il sostegno che ricevo. Penso anche che le critiche siano importanti e cerco di accoglierle con umiltà. Ma penso anche che possa essere importante discutere di questo tema.

Ho iniziato a pensare che le parole visive che stavo usando potessero avere un triplice significato: il primo era legato ai contenuti, alle storie e ai dati che stavo raccontando; il secondo era legato al modo in cui lo stavo facendo — utilizzando forme morbide, organiche, come omaggio visivo alle vite dietro ai numeri e per invitare alla lettura; e il terzo, anche il terzo era legato al modo in cui lo stavo facendo, ma osservato attraverso un’altra lente: stavo usando forme strane, morbide, “graziose”, “decorative”, “belle, ma…”, “femminili?”, “troppo femminili?”, “diverse da una modalità di rappresentazione geometrica, netta, tipicamente e stereotipicamente associata a un approccio maschile-occidentale e quindi storicamente assunto come più valido?”.

A questo punto devo necessariamente fare una breve precisazione: è ovvio che non sono l’unica information designer che utilizza forme morbide e organiche, ci sono colleghe e colleghi bravissimi che lo fanno. Però voglio parlarne raccontando la mia esperienza, non mi permetterei di farlo ipotizzando l’esperienza altrui. E un’altra precisazione: uno dei motivi per cui lo sto facendo è perché, seppure tormentandomi le unghie, io comunque quei progetti li pubblicavo. Spero di essere d’aiuto a chi non solo si tormenta le unghie, ma decide di lasciar perdere e i propri progetti non li pubblica neanche.

Come si è sempre fatto

Prima ho accennato a come scegliere forme imperfette e “fragili” possa essere legato alla fragilità dei dati stessi e ora voglio spiegare meglio questo punto, di cui nel corso degli anni hanno parlato autrici e designer come Mona Chalabi e Giorgia Lupi.

Per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne ho progettato una visualizzazione di dati senza committenza, da condividere sui miei canali social. Nello specifico, ho visualizzato il dato sulla Prevalenza della violenza nell’arco della vita: la percentuale di donne che hanno subito violenza fisica e/o sessuale da parte di un partner in un momento della loro vita. (Fonte: data.oecd.org). Ho visualizzato il dato per tutti i paesi per cui le informazioni erano disponibili. Anche in questo caso ho usato delle forme organiche, “fragili” appunto, per riflettere non solo il tipo di storie raccontate, ma anche la fragilità stessa dei dati usati per raccontarle.

Un dettaglio della visualizzazione sulla percentuale di donne che hanno subito violenza fisica e/o sessuale da parte di un partner in un momento della loro vita.

Un calcolo come questo, sulla violenza subita, si affida necessariamente al numero di casi riportati e si sa bene quanti siano invece gli eventi non denunciati e — quindi — quante siano le storie non viste da quel dataset. Riconoscere che un dato possa essere incompleto non vuol dire però negare l’importanza che possa avere il condividerlo. Il fatto che nel 2023 il 16% delle donne in Italia abbia subito violenza fisica e/o sessuale da parte di un partner, nella sua probabile incompletezza, è già di per sè drammaticamente rilevante. Per questo motivo l’ho visualizzato, gli ho dato una forma e l’ho condiviso.

Penso che la responsabilità nello scegliere le parole visive adatte sia legata anche a questo tipo di riflessioni. Avrei potuto usare forme molto geometriche, minimali, lineari e far sì che fosse più facile confrontare anche le minime differenze tra un Paese e l’altro. Ma non era la minima differenza tra un Paese e l’altro la storia di cui mi interessava parlare e non ho voluto ignorare il fatto che una rappresentazione geometrica e perfetta avrebbe aggiunto a un dato inevitabilmente imperfetto un’aura di esattezza a mio parere evitabile. Evitabile per via delle storie che quel dato non stava raccontando. Condividendolo come parte di un progetto personale destinato a un pubblico potenzialmente ampio, la mia scelta è ricaduta quindi su forme imperfette anche per questo motivo. Specifico il contesto di utilizzo, perché se avessi dovuto visualizzarlo per uno strumento di analisi commissionato da un gruppo di ricerca — per esempio — avrei probabilmente utilizzato forme differenti. Aggiungo anche che con il senno di poi avrei ribadito il concetto delle storie mancanti inserendo una nota nella visualizzazione stessa (l’ho fatto nella caption, ma non è abbastanza), perché — di nuovo — anche le parole di testo usate in una visualizzazione di dati sono fondamentali.

Quello dei dati mancanti e non raccolti è un tema enorme e di cui è giusto continuare a parlare. Catherine D’Ignazio, Lauren F. Klein, Jer Thorp e Donata Columbro lo fanno benissimo.

Citando proprio Jer Thorp e il suo bellissimo libro Living in Data:

La decisione di raccogliere o meno dati agisce come un arbitro su quali storie vengano raccontate e quali vengano spinte ai margini. Quali nomi vengono stampati sui giornali, quali vengono inseriti nei rapporti di polizia, quali vengono incisi sui monumenti e quali vengono tralasciati. In assenza di dati, si può assistere al silenziamento di specifici canali di verità, verità che troppo spesso sono già state allontanate dalla narrazione popolare.

I termini ignorare, escludere, dimenticare nutrono il termine opprimere e — se le parole possono essere uno strumento non solo per opprimere ma anche per denunciare l’oppressione — allora è significativo anche il tentativo di denuncia visiva di un’analisi che (pur nella sua ricerca di accuratezza) ignora e dimentica. È un aspetto su cui io stessa voglio lavorare e migliorare.

Se di fronte ad approcci e tentativi di questo tipo la reazione è semplicemente «Non si fa così! Deve essere tutto geometrico, come si è sempre fatto, perché è questo l’unico modo giusto di fare le cose!» allora questa reazione non solo ignora riflessioni fondamentali sui dati, su chi li raccoglie e su chi in questa raccolta è escluso, ma nella sua mancanza di senso critico e nel suo disinteresse al dialogo rafforza un sistema imperfetto su cui bisogna invece lavorare molto.

Parlando di geometria, anni fa ho scelto invece di utilizzare forme molto minimali e geometriche per uno dei progetti a cui sono più legata: The Stories Behind a Line, il racconto visivo del viaggio di sei richiedenti asilo arrivati in Italia nel 2016. Li ho incontrati all’epoca in un centro di accoglienza di Vercelli, la mia città natale, per lavorare a un progetto che desse una forma alle loro storie. Parlo in modo approfondito del progetto e delle ragioni per cui ho deciso di lavorarvi in questo post. Il mio intento è stato quello di parlare del tema della migrazione dando voce alle persone che questo tema l’hanno vissuto, condividendo informazioni molto semplici sul loro viaggio: la rotta tappa per tappa, i giorni trascorsi viaggiando, i mezzi di trasporto, i chilometri percorsi e qualunque nota e commento avrebbero voluto aggiungere.

The Stories Behind a Line, progettato in collaborazione con Alex Piacentini

Ovviamente i dati erano imperfetti: ognuno di loro ha ricostruito con me la propria linea con l’aiuto di Google Maps e il numero di quei dolorosi giorni di viaggio poteva essere indicativo, in alcuni casi approssimativo e a volte non segnalato perché dimenticato. Ma quello che mi interessava in questo caso non era il rapporto tra forma e accuratezza delle informazioni: era il rapporto tra forma e racconto. Prima di tutto lo stile minimale del progetto è stato un naturale riflesso dello stile del racconto dei sei narratori: calmo ed estremamente asciutto. Ho cercato di tenere visivamente fede non solo alle loro parole, ma anche al modo in cui hanno condiviso con me tali parole. In secondo luogo, ho scelto di utilizzare un simile linguaggio visivo per fornire un racconto pulito di un tema come quello della migrazione, un tema che è spesso soggetto a spettacolarizzazione da parte dei media, spettacolarizzazione utilizzata dalla politica a discapito di una comprensione completa del fenomeno.

Non penso che ci sia un solo modo corretto di fare le cose e il Come si è sempre fatto è una spinta (alla rigidità) che non mi ha mai trovata d’accordo. Così come le parole, anche le forme a cui posso attingere come designer sono molteplici e ognuna di esse trascina con sé un carico di significati e di eco che influiscono sul racconto: trovo che proprio per questo sia giusto soffermarcisi.

Delegittimazione

Voglio tornare al progetto sulla violenza contro le donne. Non è l’unico progetto relativo al tema donne/violazione dei diritti delle donne a cui abbia lavorato. L’ho condiviso in più occasioni, così come ho condiviso altri progetti legati a temi simili e a un certo punto ho iniziato a individuare un pattern tra alcuni dei commenti che seguivano tali progetti. Anche in questo caso mi è servito un po’ di tempo per individuare il fenomeno. Avevo scritto da qualche mese il post precedente sul legame tra estetica e legittimazione e osservando quel pattern ho iniziato a pensare a un altro termine: delegittimazione. Ne ho poi scritto in un nuovo post, che riporto qui.

[…] Ho iniziato a notare un fenomeno: i miei progetti che parlano di diritti delle donne/violazioni dei diritti delle donne hanno maggiori probabilità di attrarre commenti tecnici — spesso scortesi — da parte di uomini. Un pattern interessante.

Quello che mi colpisce di più è come questi commenti ignorino completamente l’argomento, per saltare direttamente a considerazioni tecniche: dati sulle violazioni dei diritti umani passano in secondo piano rispetto al fatto che “avrei dovuto usare un istogramma”. Sono convinta che sia possibile fare entrambe le cose: criticare in modo costruttivo ed essere rispettosi. Ma penso anche che questo faccia parte di una questione più ampia, che trova le sue radici in una pratica ricorrente: la delegittimazione.

Delegittimazione di un tema, delegittimazione di un approccio, delegittimazione di una voce: credo possa essere un atteggiamento più o meno consapevole.

Quando osservo questi fenomeni li voglio segnalare e ne voglio parlare: perché quei commenti non mi infastidiscono particolarmente, non mi creano problemi, ma potrebbero crearne ad altri. Potrebbero intimidire persone che stanno cercando di trovare la loro voce, potrebbero zittirle.

E ovviamente non parlo solo di donne, sono consapevole di quanti siano gli ostacoli che le persone si trovano davanti solo per la loro identità.

Quella descritta è una tipologia di reazione che faccio ancora fatica a comprendere a fondo e che, diversamente da altri tipi di commenti, continua a farmi arrabbiare. Nel post avevo scritto che questi commenti non mi infastidiscono e dopo averci ragionato per un po’ ho capito che è vero, non mi infastidiscono: mi fanno infuriare. La mia rabbia non ha niente a che fare con una forma di orgoglio, che invece ammetto si attiva in altri casi, ma è legata alla delegittimazione di cui parlo e al termine “ignorare” che ho già usato prima. Ignorare temi così urgenti, scartare l’argomento, metterlo da parte perché apparentemente è più impellente criticare un approccio visivo che prendersi qualche secondo per vedere, riconoscere tale argomento. Dargli dignità. Se si ha il tempo per criticare un progetto — il che ovviamente è legittimo — si ha allora anche il tempo per scrivere poche parole sul cuore di questo progetto, sulle storie che questo progetto sta raccontando. Per non escludere, accantonare, ignorare.

Mi arrabbio e penso che vada bene così, che possa continuare ad arrabbiarmi per motivi come questo.

Parole vive e politiche

In questi casi sembra che la delegittimazione passi attraverso la critica di un linguaggio, del mio linguaggio visivo. Ripeto come io stia raccontando la mia esperienza e il mio punto di vista perché è il punto di vista che conosco meglio. Ne approfitto anche per aggiungere come sia consapevole del fatto che il mio punto di vista sia quello di una donna bianca, eterosessuale, che ha avuto la possibilità di studiare e con una carriera di cui al momento è molto felice (spero che continui così). E la mia esperienza sui social nella grande maggior parte dei casi è veramente positiva e calorosa, più di quanto mi potessi aspettare all’inizio. Quando parlo di un certo tipo di critiche e commenti lo faccio perché mi interessa indagarne i motivi più profondi, che non riguardano solo me e i miei progetti.

La delegittimazione quindi, dicevo, passa attraverso la critica di un linguaggio, delle parole visive scelte. Implicando tra l’altro spesso che siano parole visive scelte con ingenuità, forse irrazionalità, molto probabilmente inesperienza.

Sono molti gli sforzi che autori e attivisti hanno fatto e stanno ancora facendo affinché venga riconosciuta l’influenza del linguaggio sulla realtà. Il modo in cui lasciamo che le cose vengano descritte e raccontate ha un impatto sul modo in cui queste cose vengono poi viste e di conseguenza sul modo in cui ci si approccia, sulle nostre azioni. Critiche tipiche nei confronti di questi sforzi sono «Ma che esagerazione!», «Si è sempre fatto così!», «Si è sempre detto così!» (per non parlare del grande classico «Non si può più dire niente!»). Queste critiche ignorano il fatto che il linguaggio sia una creatura viva e in continua evoluzione, un’evoluzione che parte da studi e analisi che fanno sì che, per ri-citare Toni Morrison, si possano “plasmare pensieri diversi, raccontare un’altra storia, riempire silenzi sconcertanti.”

Io penso che la stessa cosa valga per il linguaggio visivo. So bene di non essere né la prima né l’unica a pensarlo, semplicemente mi piace parlarne. Spero, e credo, che scrivere visivamente cercando con cura le parole visuali adatte, anche nella loro inconsuetudine, possa essere un modo per raccontare altre storie e riempire silenzi sconcertanti.

Quando anni fa ho iniziato a sperimentare con le parole visive, l’ho fatto senza pensare che la loro stessa forma potesse avere un significato anche politico. Ho iniziato a capirlo nel tempo e i primi segnali sono state proprio le reazioni arrabbiate, i commenti arrabbiati. Potevo capire il motivo della critica, ma non capivo le ragioni dietro la foga con cui tali critiche mi venivano fatte.

In Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf scrive

Anche il più fugace visitatore del nostro pianeta, pensavo, se prendesse in mano questo giornale non potrebbe fare a meno di accorgersi, anche da questa sommaria testimonianza, che l’Inghilterra è governata da un regime patriarcale. […] A eccezione della nebbia sembrava che egli controllasse ogni cosa. Eppure era arrabbiato.

E ancora:

Come spiegare la rabbia di quei professori? Perché mai erano così arrabbiati?

La risposta che si dà è salda nella mia mente come la frase precedente di Data Feminism:

La vita, per ambedue i sessi […] è ardua, difficile, una lotta senza fine. […] Più di ogni altra cosa, per creature dell’illusione quali noi siamo, essa richiede fiducia in se stessi. […] Da qui deriva, per un patriarca […] l’enorme importanza di sentire che moltissime persone, addirittura metà della razza umana, sono per natura inferiori a lui.

Qualunque siano i motivi dietro la rabbia che mi ha sempre colpita e anche affascinata nel corso degli anni, so quali ne sono state le conseguenze: le domande che mi sono posta, i libri che ho voluto leggere, le considerazioni che ne sono nate. Non posso quindi che ringraziare questi commentatori arrabbiati. Grazie a loro ora penso che, tra i molti significati che le parole visive trascinano con sé, ce ne possa essere anche uno politico. Ne sono contenta. Non credo nella neutralità, non sono mai riuscita a essere neutrale e non penso che ce ne sia neanche un gran bisogno. Penso anche che la neutralità pura sia irraggiungibile per un essere umano, a essa preferisco l’onestà intellettuale, la consapevolezza del proprio punto di vista e della propria prospettiva e un approccio critico nei confronti di tale prospettiva.

In quanto professionista che si occupa di informazione, so di avere una grande responsabilità e di dovere ai lettori questa onestà intellettuale, accuratezza in quello che faccio e cura nei segni che traccio per comunicare. Sono segni che danno una forma a dati che hanno dietro di sé stratificazioni di vite e di storie più o meno nascoste e, a volte, di silenzi più o meno densi. Quello che voglio fare è cercare di raccontare queste stratificazioni con un linguaggio visivo altrettanto pulsante, pronto ad ascoltare, adattarsi e migliorarsi per dar loro la giusta voce.

«Ribadirà che la cucina è politica, i BTS sono politica, le donne sono politica, i sanpietrini sono politica, ridere è politica, vestirsi è politica, scrivere è politica, parlare è politica, ascoltare è politica, dissentire è politica, dirà che è politico usare la propria libertà per liberare gli altri. Io le dirò che è una frase di Toni Morrison. Lei mi risponderà che è anche di Toni Morrison.»

Chiara Valerio, nel suo bellissimo discorso dedicato a Michela Murgia e pronunciato al suo funerale il 12 agosto 2023.

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Federica Fragapane

Independent information designer. Collaborations with Google, EU, UN, BBC, La Lettura. Works in the Permanent Collection of MoMA.