Una, nessuna, centomila. L’identità pubblica da logo a piattaforma

Gianni Sinni
7 min readJun 3, 2018

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Illustrazione Teller & K

Introduzione

Growing has no connection with audience.
Audience has no connection with identity.
Identity has no connection with a universe.
A universe has no connection with human nature.
Gertrude Stein, The Geographical History of America

Questo lavoro nasce da una lunga esperienza professionale e di docenza presso l’Università degli Studi della Repubblica di San Marino che mi ha portato più volte a confrontarmi con il progetto e il dibattito riguardante l’identità visiva e in particolare l’identità visiva pubblica o, per meglio dire, delle istituzioni. Si tratta di un tema che se da un lato oggi ha ricadute in ambito economico e sociale, dall’altro riveste una particolare rilevanza nel conformare il rapporto che lega il cittadino alle istituzioni. Di fatto costituisce uno di quei passaggi attraverso i quali la stessa pratica democratica viene messa in essere.

Indagare il concetto di identità, la sua origine, il suo sviluppo, e domandarsi cosa dovremmo intendere oggi per “identità pubblica” costituisce un ineludibile passaggio per ogni designer della comunicazione.

Abbiamo d’altra parte a che fare con una tematica, l’identità, estremamente sensibile, che è stata affrontata e discussa sotto diverse angolazioni e in diverse discipline — in filosofia, in sociologia, in antropologia, in psicologia, nella storia, nella politica e naturalmente nel design e nel marketing. Un tema insomma che, per dirla con Claude Lévi-Strauss, si colloca al crocevia di tutte le discipline (Lévi-Strauss, 1980, p. 9).

Spesso la riflessione sui temi del design soffre di una certa autoreferenzialità rimanendo confinata all’interno del ristretto ambito della disciplina. Da un punto di vista epistemologico può essere dunque utile connettere la ricerca sulla materia del design a un più ampio dibattito culturale, certi che questo sforzo possa proficuamente arricchire da un lato la cultura del progetto e dall’altro apportare l’esperienza del pensiero del design ad altre latitudini della cultura. È il principio della consilienza, una visione convergente della ricerca in diverse branche del sapere che consolida la fondatezza delle proprie argomentazioni in virtù dell’origine diversificata e indipendente delle conoscenze apportate. Il contributo del presente lavoro va pertanto interpretato in questa prospettiva assumendosene gli evidenti rischi e senza l’ambizione, naturalmente, di ritenersi in alcun modo esaustivo.

D’altra parte l’identità visiva, è la tesi di questo studio, nelle sue diverse manifestazioni (lo stemma, il marchio, il logo, il brand, la piattaforma) non è che il riflesso dei rapporti di forza che regolano la società che li esprime. Il progetto d’identità dunque, tutt’altro che uno strumento “neutrale”, svolge una sua influente funzione ideologica e persuasiva. L’identità visiva pubblica di una città, di un territorio o di una nazione, rappresenta dunque un campo di applicazione del design particolarmente sensibile, andando a influenzare lo stesso accesso ai diritti da parte dei cittadini.

Affrontare il tema dell’identità visiva, a partire dalle sue prime rappresentazioni visive, i marchi di proprietà, permette di seguire quella che è stata l’evoluzione della disciplina del design. Il paradigma del progetto d’identità, per la sua intrinseca presenza nel progetto di comunicazione, si presta facilmente ad assumere il valore di cartina al tornasole su come si sia effettivamente modificata nel tempo la professione del designer grafico, una disciplina che fa del dinamismo e della continua trasformazione una delle sue caratteristiche principali. Comprendere la trasformazione che ha portato dallo stemma al marchio e poi al logo, dall’immagine coordinata al brand e infine al progetto dell’experience e del service, permette di cogliere in tutta la sua profondità la trasformazione in atto nella pratica del design e, magari, di intravederne i possibili futuri sviluppi. Consente cioè di rileggere le relazioni che collegano pratiche e metodi estremamente diversi — pensiamo al profondo divario che separa il progetto di un logo da quello di un servizio –, in un percorso più in continuità di quanto si pensi, senza che questo sottintenda, naturalmente, una visione in qualche modo deterministica del processo. Là dove percepiamo la massima distanza tra il design della comunicazione tradizionale e le nuove pratiche del progetto, ad esempio nel service design, ecco che ritroviamo inopinatamente, con il suo porre il cittadino al centro del progetto, il compimento di quei principî che hanno caratterizzato a lungo la “grafica di pubblica utilità”.

Illustrazione Teller & K

Il primo capitolo, The big picture, è dedicato alla ricostruzione di come si sia tentato di risolvere l’enigma dell’identità umana dal punto di vista filosofico e sociologico. È il contesto necessario per comprendere come la rappresentazione visiva dell’identità sia nata e si sia evoluta in stretta connessione con il modello di società che la esprimeva. Se la metafisica sostanza aristotelica ha sottinteso, per secoli, un’identità basata su ruoli sociali inderogabili e immutabili, ecco che con il “flusso di coscienza” di John Locke, si apre definitivamente all’idea moderna di identità personale. Ma l’apertura di quel vaso di Pandora che è la nostra identità ci porta inevitabilmente a pagare la libertà delle opportunità con l’ingente prezzo di una sempre maggiore insicurezza, in un percorso che ci conduce dall’affermazione di David Hume sull’inesistenza dell’Io fino alla frammentazione e alla liquefazione della stessa identità personale che ha descritto Zygmunt Bauman. È in questo ambito che la stessa identità sociale, o collettiva, abbandona le categorie tradizionalmente gerarchiche che la caratterizzavano (municipale, regionale, religiosa, nazionale), ormai inadatte per un mondo globalizzato, ma che, nell’incertezza delle pluriappartenenze contemporanee, rimangono il pericoloso punto di riferimento per xenofobie e nazionalismi.

Nel secondo capitolo, La messa in scena dell’identità, si ripercorre la storia che ha portato le prime figurazioni visive dell’identità personale, il marchio come segno di proprietà, a evolvere verso un complesso sistema di rappresentazione come l’apparato araldico, che dalla personificazione fisica del potere personale e familiare (il signore, il vescovo, il feudatario), si amplia a simboleggiare l’autorità di un determinato territorio.

Le trasformazioni economiche e sociali legate alla rivoluzione industriale hanno portato al successo quella nuova permutazione del marchio rappresentata dal logo. Un’affermazione che ha condotto, con una rapidità inaspettata, alla sostituzione nel corso degli ultimi decenni di buona parte dell’armamentario araldico utilizzato nella rappresentazione dell’identità pubblica. L’irrompere nella sfera pubblica delle strategie di marketing ha ulteriormente modificato il concetto di identità territoriale, dirottando dal logo al city branding la comunicazione istituzionale. Gli enti pubblici si sono così volenterosamente votati all’utilizzo di un linguaggio seduttivo, prima che informativo, che una continua competizione tra i territori rende sempre più anonimo e banale e che declassa i cittadini a livello di meri consumatori. È dunque lecito e doveroso domandarsi in quali termini un tale approccio alla costruzione dell’identità pubblica possa ritenersi valido ancora oggi; e quali prospettive possano emergere invece dall’applicazione di progetti identitari che derivano da un design più “relazionale”, in grado di restituire valore alla dialettica del rapporto tra identità e alterità.

Illustrazione Teller & K

Nel terzo capitolo, Una questione di stato, il tema dell’identità territoriale si allarga a comprendere il livello della costruzione o, per meglio dire, dell’invenzione dell’identità nazionale e del suo apparato visivo, a cominciare dagli emblematici casi dei regimi totalitari del Novecento. Se la dittatura sembra essere l’ambiente ideale per garantire la ferrea applicazione dell’immagine coordinata, come può essere organizzata all’interno di istituzioni democratiche un’efficiente rappresentazione identitaria? Negli ultimi vent’anni non sono mancati esempi di progetti d’identità visiva nazionale, ma l’intero dibattito è stato presto dirottato verso il tema del nation branding, una versione a grande scala del branding territoriale, inteso come pratica comunicativa strettamente associata al cosiddetto soft power e a tutto ciò che attiene alla globalizzazione e alla visione liberista della società. Una connotazione così manifestamente ideologica, e pertanto apodittica, da polarizzare a lungo la discussione tra fautori e oppugnatori, al di là di ogni considerazione analitica sugli effettivi, o meno, risultati ottenuti. Un particolare approfondimento è rivolto alla comunicazione istituzionale italiana, a partire dalla creazione dell’emblema della Repubblica fino alla constatazione dell’assenza, oggi, di una qualunque politica di coordinamento dell’identità visiva nazionale.

Infine, nel quarto capitolo, L’identità come piattaforma, vedremo come la digitalizzazione dei servizi pubblici abbia aperto un nuovo fronte nella comunicazione istituzioni-cittadino, potenzialmente più importante dei tradizionali canali finora utilizzati. Incentrato sulla progettazione della experience del cittadino nel suo rapporto con la pubblica amministrazione, il processo di digitalizzazione che passa attraverso il service design ha costituito l’occasione, come dimostrano casi esemplari come quello del Regno Unito, per ripensare in chiave contemporanea l’identità visiva nazionale.

L’apporto di strumenti open source e di co-progettazione uniti a metodologie innovative, come i processi agile e lean startup, all’interno della pubblica amministrazione, ha portato a una radicale rimodulazione, in termini di trasparenza e partecipazione, delle strategie di comunicazione istituzionale in una visione “open government”. Possiamo in ciò individuare l’occasione per far emergere un nuovo paradigma nel quale l’identità pubblica è definita dallo spazio civico comune dell’offerta dei servizi e del loro utilizzo da parte dei cittadini: è il government as a platform. Un approccio che permette di riannoverare nella rappresentazione dell’identità pubblica, attraverso il focus sul design dell’esperienza — “il cittadino al centro del progetto” –, quei valori di pubblica utilità che erano stati messi in secondo piano dalla visione marketing-oriented tipica del brand.

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Gianni Sinni, Una, nessuna, centomila. L’identità pubblica da logo a piattaforma, Quodlibet, 2018, pagg. 176. ISBN 978–88–229–0165–1

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