Di consapevolezza, lavoro, tempo e piccole epifanie disordinate

La consapevolezza, dicono, è la chiave di tutto. Di sé, del proprio tempo e lavoro, di avere un problema, dei propri limiti. Sarà, ma in questo momento non mi sembra sia così, au contraire.

La consapevolezza, soprattutto di elementi negativi della propria esistenza, se non seguita da un’azione correttiva, risulta ancor più frustrante.

Se finisco con un polpaccio nelle ortiche e inizio a sentire il tremendo pizzicore, sicuramente sarò in grado di pensare: “Perché sento così tanto prurito alla gamba? Ah giusto, sono finito nelle ortiche”. E poi? Se non ci metti su una pomata, se nemmeno ti gratti, beh… sarai consapevole ma continuerai a soffrire per quella spiacevole sensazione.

Per me è un periodo così, di piccole epifanie disordinate, di frammenti di auto-coscienza, che però non sono mai abbastanza ampi da fornirmi il quadro generale, da permettermi di dire “Ecco”. Questo è il punto, questa è la soluzione. O forse, semplicemente, non sono pronta ad agire, perché che genere di azione dovrei mai intraprendere?

Sentire a pelle che qualcosa non quadra

Ho un problema di salute cronico, con cui convivo serenamente da decenni e che considero parte di me; tra i varie effetti di questa condizione c’è la disidratazione costante, niente di preoccupante, ma anche se cerco di bere molto e prendere i miei integratori, ho sempre la pelle molto secca.

Soprattutto sulle mani, sempre impegnate a interagire col mondo, e soprattutto in inverno, quando le temperature più basse aggrediscono le dita — odio i guanti — mentre passeggio tenendo il cane al guinzaglio. Mettiti una crema idratante, direte voi, e smettila di raccontarci questa banalità.

Sembra semplice, in effetti, ma non lo è. Lavoro a un PC portatile e uso, per mia abitudine e comodità, la trackpad anziché il mouse. Non mi piace avere periferiche attaccate al PC, voglio poterlo trasportare in leggerezza, monoblocco, tutto ciò che mi serve integrato in quel sottile rettangolo. Ora, il problema del mio computer è che la trackpad è molto sensibile: basta un granello di polvere, un minimo strato di unto o di sporco, ed ecco che non funziona più, il cursore si impalla, devo riavviare, pulirla con cura con un detergente e poi sperare che riprenda a collaborare.

Ecco perché ho le mani rovinate: per tutto l’inverno ho preferito non mettere la crema idratante, di cui avrei avuto bisogno, perché avrei sporcato la trackpad. Perché avrebbe reso più lento e inefficiente il mio lavoro. Meglio avere le mani secche che bruciano o perdere minuti preziosi tra una mail e un comunicato stampa? Ho scelto la prima opzione, sempre, senza un attimo di esitazione. E questo la dice lunga, credo, su quanto siamo assuefatti a mettere il lavoro al primo posto. Si tratta di un esempio minuscolo, lo capisco, e chiunque di mestiere faccia qualcosa di fisicamente faticoso potrebbe tacciarmi di essere una privilegiata che si lamenta del nulla, perché le mani di un meccanico o di un’addetta alle pulizie si rovinano esponenzialmente ogni giorno, proprio a causa del lavoro.

Però è diverso, nel mio caso. Il mio è un “comodo” lavoro d’ufficio, che posso svolgere in remote per grossa parte del tempo, che non implica usare le mani in senso fisico, se non per battere sui tasti. La mia scelta di mettere l’efficienza professionale prima del benessere delle mie nocche, quello è il punto. Che è la stessa spinta che mi porta a dire “completo anche questi ultimi due task” anche se sono sfinita e vorrei solo staccare; che è la stessa spinta che mi porta a pensare “sono quasi le otto di sera ma non posso non rispondere a questa telefonata”; che è la stessa spinta che mi porta a valutare meno importante lo stomaco che gorgoglia e vorrebbe cibo rispetto alla call infinita che mi sta consumando la pausa pranzo (e che nessuno si pone il problema di interrompere o cercare di accorciare).

Dopo le ortiche di prima, torno involontariamente a una metafora relativa alla pelle.

Forse c’è una ragione, la pelle non mente: arrossisce, si squama, suda, si accappono se rabbridiviamo… C’è anche una serie di perifrasi — è una questione di pelle, lo sento a pelle, l’ho capito a pelle — che restituisce l’idea di qualcosa di compreso più con il cuore che con la mente, più con i sensi che con la razionalità. A pelle, appunto.

Letture e autocoscienza: non voglio “cose”

Sto leggendo libri che parlano di queste piccole epifanie disordinate, scritti da persone che sono riuscite, poi, a farne un piano, un progetto razionale. Ho letto della “corsa del topo” per definire il binario socialmente precostituito e considerato normale nello sviluppo della vita di un individuo occidentale medio: studia, trovati un lavoro, fai fatica e sacrifici, sposati, moltiplicati, compra case e auto e oggetti status-symbol vari, fai due settimane di vacanza l’anno, aspetta la pensione. Sipario.

Ho letto di “coordinate della felicità” e di persone che decidono di vivere con meno per inseguire uno stile di vita più lento, meno incasellato, per poi diventare degli scrittori famosi (sarebbe il mio percorso ideale, salvo il fatto che ci trovo un minimo di incoerenza nel diventare dei guru e nel fare soldi come scrittore-influencer dopo aver millantato di poter vivere di pura contemplazione come gli holy men nepalesi ma… anyhow, tanto di cappello).

Ora, queste letture stanno solo esacerbando pensieri che ho già, praticamente da sempre: l’idea che seguire la corrente sia pericoloso, che se tutti fanno qualcosa allo stesso modo quasi certamente sarà la cosa sbagliata, che non mi interessa avere COSE ma voglio TEMPO, esperienze, natura, comprensione di ciò che accade.

Non voglio cose” è un’affermazione potente di Chris McCandless, personaggio controverso ma che amo molto, dalla cui vita hanno tratto il libro di Krakauer/film di Sean Penn “Into the Wild”.

Ho una casa che, al netto del fatto di essere molto bella (almeno per me) e totalmente a zero emissioni (perché all’ambiente ci tengo), suscita sempre la stessa reazione nelle persone che la vedono: “Cavolo, com’è mimale, quasi vuota, ma come fate? Io ho mille cose in giro!” dicono parenti e amici a me e al mio consorte.

Di sotto c’è la cucina, il tavolo e il divano; di sopra c’è il letto, il bagno e una scrivania nello studiolo. Niente soprammobili, niente foto, niente quadri o oggetti: solo libri (quelli tanti sì) e ad arredare ci pensano le piante. L’armadio fa eco, ho 2–3 combinazioni di vestiti per andare al lavoro e tanto mi basta, non compro nulla di nuovo da un paio d’anni, almeno. A parte qualcosa per lo sport, le scarpe per correre, ma quella è esigenza, sopravvivenza; non comprendo abiti e accessori comprati per l’estetica. Davvero, non l’ho mai compreso: a cosa vi servono 15 borsette diverse, ragazze?

Ed è stato ancora più estremo quando abbiamo vissuto per un anno in un paesino dell’Ossola di poche centinaia di anime, in una casetta di due minuscole stanze con tantissimi prati intorno: non avremmo potuto essere più felici, non serviva altro. Perché siamo tornati nella civiltà? Perché per ora è funzionale così, mi ripeto, perché non è ancora il momento di ritirarci a vita privata, non possiamo ancora permettercelo. Perché è utile stare vicino a Milano. Ma sarà la verità?

The Racing Rats: il tempo imprigionato e la fioritura delle azalee

Il tempo è la risorsa più importante ma lo sprechiamo costantemente. “Oh come on, now, you knew you had no time but you let the day drift away…” cantano gli Editors in una delle mie canzoni preferite, che guarda caso si intitola “The racing rats” (fatevi un favore, ascoltatela).

Lasciamo scorrere le giornate, anzi, preghiamo che passino, a volte, solo per poter smettere di fare cose che detestiamo. Per poter finire di lavorare, di base. E le giornate si dilatano all’infinito: so che, per chi è costretto a timbrare il cartellino in fabbrica, noi smart-worker (anche se vi assicuro che non c’è nulla di smart nel nostro lavoro, che è mero telelavoro) sembriamo fortunati.

La verità è che è un’invasione di tempo e spazio privato senza remore, senza soluzione di continuità: dalle 8 del mattino alle 8 di sera la gente si sente in diritto di chiamarti, scriverti, commissionarti cose, come se tu non avessi un orario di lavoro, come se dovessi avere 12 ore di reperibilità, a volte ti mandano email alle 10 di sera o il sabato mattina e tu sei così assuefatto all’idea di saltare in piedi, battere i tacchi e ubbidire che li assecondi, fai quello che ti chiedono quando lo chiedono. E peggiori solo la situazione, perché rendi i confini ancora più labili, sposti l’asticella del limite della tua vita privata, riducendola, portandola sempre più in secondo piano. Sullo sfondo.

E non ce l’ho con il mio lavoro, ben inteso, né con capi e colleghi. Raccolgo solo le frustrazioni che sento intorno e che diventano anche le mie, anche se spesso gli altri non le razionalizzano: gli amici costretti a tornare in presenza in ufficio anche se non ce n’è motivo, i corrieri che ci consegnano pacchi persino la domenica come se fosse essenziale ricevere un qualsivoglia nuovo aggeggio anche in un giorno di festa… tutti corrono, tutti vogliono cose, tante cose, subito, senza aspettare. Ma per avere tutto questo, c’è un prezzo alto da pagare. E intorno, il Pianeta brucia e i problemi, quelli veri, sono altri, lo ben so.

Vorrei solo scrivere. Vorrei che le mie parole avessero un peso e una bellezza tali — evidentemente ancora non ci sono arrivata — da poter diventare la mia fonte di sostentamento, per poterlo fare da qualsiasi punto remoto del mondo. Dalle mie amate montagne. Mi basterebbe, io non voglio fare il nomade digitale, non voglio lavorare dalla Thailandia. Voglio solo pace, pace e l’odore dei pini. Avere il tempo di camminare a lungo, comporre i miei haiku, riprendere a suonare la chitarra, imparare finalmente il tedesco o a disegnare, dare retta al mio cane invece di dedicarle poche passeggiate frettolose in settimana in attesa di scappare in quota nel weekend…

Il paradosso è questo: che sei così sfinito, spesso, da ciò che DEVI fare, da non avere nemmeno più la forza — quando finalmente arriva il momento libero — di fare ciò che VUOI, che tanto avevi atteso. Non fai altro che togliere, togliere, e ti resta solo il dovere. Le parole sono importanti, diciamo “tempo libero” per indicare il tempo che non dedichiamo al dovere, alle incombenze quotidiane, al lavoro… e ne abbiamo sempre poco, di tempo libero. Il resto come vogliamo chiamarlo, quindi, tempo “imprigionato”? Che senso ha tutto questo?

Stamattina, anche se è festa e teoricamente non lavoro, avrei dovuto fare un paio di cose, per portarmi avanti per domani, che si ricomincia. Invece ho deciso di mettere nero su bianco questo sproloquio, per sterile che possa essere, perché era da giorni che volevo scrivere qualcosa per me e non trovavo mai il tempo né la forza.

La mia piccola ribellione, oggi, è scrivere qualcosa di mio, solo mio, mentre fuori piove e le azalee sono in fiore, perfettamente consapevoli del corso naturale della propria esistenza: non fanno altro che essere ciò che sono, non fanno altro che fiorire, quando si sentono pronte a farlo, e riempire il mondo di bellezza.

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Greta | Consulente Digital MKTG & Comunicazione

Da 14 anni nel settore Comunicazione&Marketing, focus sul Digital. Strategia Comunicazione | Media Relation | Blog | Contenuti | Eventi | Social | Formazione