Trouble will find me. I National e il «momento perfetto»

hamilton santià
7 min readAug 4, 2015

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C’è questa cosa per cui più un pezzo ti entra dentro, più è difficile scriverne qualcosa di senso compiuto. Anche quando hai un’idea forte, o che per lo meno ti sembra reggere più di quei decimi di secondo che passano dal momento in cui qualcosa che ti viene in mente ti sembra geniale e il momento in cui realizzi che si tratta dell’ennesima stronzata. È tutta colpa di Nick Hornby, che ha cominciato a mettere su carta le sue emozioni autobiografiche legate alla musica al punto da farci credere che fosse facile. Apri tutto, versa quello che hai dentro su carta e nessuno avrà il coraggio di mettere alla berlina i tuoi sentimenti. O qualcosa del genere. Tutta una grande letteratura dell’emozione senza freni per dire che siamo gli unici in grado di capire certe cose e certe canzoni. E stiamo parlando di uno che ha aperto il suo libro, 31 canzoni, con Thunder Road di Bruce Springsteen, che è tipo una delle canzoni più ascoltate di sempre. Per lo meno negli Stati Uniti. Forse dovremmo fare come Maurizio Blatto, che si preoccupa della storia, non della canzone. Perché in effetti ci costruiamo un castello di riferimenti culturali in cui tutta la colonna sonora della nostra vita è fatta di Big Star, Replacements, Dinosaur Jr. (sto parlando di me) e tutto il resto, ma alla fine è anche più probabile che quella volta in particolare i sensi ti siano stati stimolati da Marco Mengoni. Puoi prevederlo? Non lo so. E di fatto credo di aver cambiato soggetto del pezzo già quattro o cinque volte rispetto a quanto volevo scrivere in apertura. E cioè dei «momenti perfetti» nelle canzoni e di quanto è difficile parlarne quando si mischiano così profondamente dentro quello che sei e quello che senti. Prendete i National.

Tra me e loro non è stato amore a prima vista.

Anzi.

All’inizio non capivo nemmeno come mai sul Forum del Mucchio (che era la mia principale catena di conoscenza musicale ai tempi) si stava cominciando a parlare tantissimo di questa band. Ricordo che mi piaceva molto Fake Empire, ma per il resto niente. Entravano da una parte, uscivano dall’altra.

Come molti.

Come troppi.

Forse era semplicemente dovuto a un periodo storico della mia personale auto-formazione in cui mi svegliavo, accendevo il computer, mettevo su la musica e la spegnevo solo quando si trattava di andare a dormire. Non è importante ricordare cosa facessi nel mentre.

Però se qualcuno arriva e mi chiede cosa ho fatto per tutto quel tempo io non posso fare altro che rispondere: «stavo ascoltando musica».

E quella rabbia che mi faceva recuperare tutto senza soluzione di continuità, quella furia cieca che mi portava a compulsare e accumulare mi faceva perdere tantissimi dettagli e tantissime sfumature. Ero talmente ossessionato dall’idea di mettere a posto i tasselli da non vedere le cose nella loro profondità. Un ascolto via l’altro. Era fondamentale altro, mettere spunte, tacche, caselle. Ascoltato. Ascoltato. Ascoltato. Recuperato. Recuperato. Recuperato. Come se il catalogo fosse l’unica cosa a contare. Come se il punto fosse ‘il possesso’ della musica e non il fatto di averla capita, di aver praticato uno scambio, di averle ceduto un pezzo di te per uscirne più ricco, nuovo, cambiato anche in modo infinitesimale.

Forse certe cose bisogna semplicemente farle.

E farle come viene.

Poi tutto va a posto. Automaticamente, o forse no.

Alla fine chissenefrega.

Le cose cambiano e credere che anche il nostro approccio alla musica sia sempre uguale vuol dire condannarsi alla ripetizione dell’identico, alla ricerca di quella sensazione ‘primaria’ che da un lato ti conforta, dall’altro ti impedisce veramente di andare avanti perché diventa unico senso del tuo cercare. E alla fine non cerchi nemmeno più.

Quanti ne sono passati.

Quanti.

Anche io.

Eppure le cose cambiano.

Ogni tanto le cose cambiano.

Ad un certo punto devi chiederti perché ascolti musica, cosa ti spinge, cosa cerchi e qual è il senso ultimo.

Io non ho ancora trovato una risposta convincente, ma credo che molto del mio ascoltare musica abbia a che fare con la ricerca del «momento perfetto».

Non so nemmeno se possa esistere una definizione di cosa voglia dire «momento perfetto». Da un lato perché mi sembra che si spieghi già abbastanza da solo. Dall’altro perché probabilmente cambia da persona a persona anche in relazione a come rispondi alla domanda di cui sopra.

Il «momento perfetto» è quell’attimo speciale in cui una canzone — e qui, davvero, può essere qualsiasi canzone — smette di essere semplicemente una canzone ma diventa il mondo, diventa l’universo, diventa il qui e ora e per sempre, diventa la risposta a una domanda che non sapevi che ti stavi facendo, diventa il veicolo attorno al quale tutto riguadagna il suo senso, almeno per la sua durata. E può essere dato da qualsiasi cosa.

Ecco, il «momento perfetto» è forse la manifestazione perfetta della casualità della ‘bellezza’, della straordinarietà delle proprie emozioni e la loro capacità di rispondere a stimoli che non pensavi nemmeno esserci. Il caso. Il caos. Passi anni a costruire la tua gabbia di certezze per essere un perfetto maniaco del controllo e poi capisci che fondamentalmente il mondo è regolato dalla teoria del caso e, con lui, le manifestazioni del qui e ora. Anche quando ascolti musica. Soprattutto quando ascolti musica. Perché il «momento perfetto» non lo riconosci subito, magari, e sicuramente non l’hai pianificato, ma quando arriva lo senti. Lo senti per cambia tutto davvero.

Ci sono tantissimi momenti perfetti nella musica e spesso ci sono anche per quanto riguarda quella musica che non dovrebbe piacerti, perché semplicemente hai scelto un altro campo di gioco e nella retorica della polarizzazione tra un supposto ‘giusto’ e un supposto ‘sbagliato’ quello rientra nello sbagliato.

-Perché?
-Perché è così.
-Ah.

Poi le argomentazioni lasciano il tempo che trovano. Ma questo è un altro discorso. Quello che volevo dire, invece, è che il «momento perfetto» segna il passaggio tra una band che da quel momenti in poi comincerà a parlare con te alle band che resteranno sempre ed esclusivamente rumore di fondo, belle ma non di più. Il «momento perfetto» segna la tua autobiografia attraverso le canzoni. E per fortuna, ogni tanto, ancora succede. E succede oltre il cinismo, oltre le sovrastrutture, oltre il processo di ‘personal branding’ per cui dobbiamo tenere fede incrollabilmene al nostro personaggio sui social network. Poi certo, anche io ogni tanto ascolto della robaccia e metto la sessione privata su Spotify.

A me, coi National, è successo qui:

I see you rushing now
Tell me how to reach you
I see you rushing now
What did Harvard teach you?

Con Matt Berninger che cambia improvvisamente modo di cantare e si avvicina a una sorta di «urlato pianissimo» (che dal vivo diventa un urlato vero), con le chitarre di Bryce e Aaron Dessner che si alzano di intensità, con quei versi che costruiscono davvero un mondo, un racconto, un’immagine fortissima che smette di essere ‘locale’ e diventa sentimento ‘universale’ nonostante la presenza di Harvard. C’è tutto, lì dentro. C’è la creazione di un immaginario. C’è l’emergere del sentimento. C’è la forza di una canzone che diventa improvvisamente definitiva. E poi il passaggio sui [3:12] in cui i due Dessner cantano — o meglio, urlano anche loro «pianissimo» — in sottofondo. Come se a quel punto smettesse di essere un monologo di Berninger (un po’ come quella volta che un mio amico mi disse: «guarda, sono sette persone impegnate a far scopare il cantante») o un dialogo tra la sua voce e le chitarre, e diventasse un’idea corale di quello che sta succedendo.

Poi non lo so, ma da quel momento tra me i National è tutto accelerato tantissimo.

Dal concerto di Milano a Sunshine on my back (con Sharon Van Etten, altra grande ossessione degli ultimi anni), da ascoltare ogni canzone al punto da farne la mia colonna sonora degli ultimi due anni.

Anni strani, anni di grande cambiamento in praticamente tutto.

Anni che hanno avuto bisogno di una colonna sonora che mi parlasse usando un vocabolario vicino ma completamente diverso. Dove mi si dicesse qualcosa del tipo:

You get mistaken for strangers by your own friends
when you pass them at night under the silvery, silvery citibank lights
arm in arm in arm and eyes and eyes glazing under
oh you wouldn’t want an angel watching over
surprise, surprise they wouldn’t wannna watch
another uninnocent, elegant fall into the unmagnificent lives of adults

Che dice senza bisogno di aggiungere.

Un po’ le cose che stanno succedendo o succederanno.

E forse semplicemente è quella sensazione di impossibilità di restare fermi ma della necessità di fissare alcune immagini per ripartire da quello che è successo.

Forse poi è anche vero che le passioni migliori sono quelle che arrivano un po’ all’improvviso e crescono piano. Senza fretta. Soprattutto quando sei abituato a compulsare e consumare tutto sull’onda della frenesia del presenzialismo aneddotico e compilativo. Quando senti che questa musica ti lega non solo alla band, ma anche a determinate altre persone che hai incontrato per strada e ti accompagnano in questa «unmagnificent lives of adults». Oppure è semplicemente merito del modo in cui Matt Berninger costruisce delle immagini che sono, a tutti gli effetti, letteratura. O meglio, sono vita che diventa letteratura, ma senza orpelli, senza distanza, senza ‘traduzione’. È quella roba lì. E lo capisci grazie a quella sensazione ‘definitiva’ quando certe frasi vengono cantate. Quando la musica riesce a sottolineare potenziando.

O qualcosa del genere.

Oppure semplicemente perché, in un certo modo totalmente inavvertito e totalmente improvviso, i National, proprio con Trouble Will Find Me, sono riusciti a pescare un ‘suono’, un tono, un timbro che non appartiene a nient’altro che non a questo periodo storico. Forse.

Oppure, senza nessun’altra costruzione para-sociologico-politica, perché come diceva Lester Bangs, è una musica che ti sceglie. E niente. Capita il «momento perfetto» e da lì in poi sei fregato.

Trouble has found you.

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