La campana di vetro e la vita di Sylvia Plath

Irene Sanzovo
4 min readApr 26, 2023

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La mia ultima lettura — alla fine della quale ho fissato il soffitto in silenzio per approssimativamente quaranta minuti — è stata La campana di vetro, l’unico romanzo della poetessa Sylvia Plath.

Pubblicato per la prima volta in Inghilterra il 14 Gennaio 1963, sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas perché fortemente autobiografico, il romanzo è una testimonianza diretta della grande depressione affrontata dalla scrittrice in giovane età.

La protagonista, sotto il nome di Esther Greenwood, trascorre un mese a New York dopo aver vinto un soggiorno offerto da una rivista di moda, ma l’ambiente newyorkese e il senso di ipocrisia e competizione avvertito nei circoli mondani della città la portano a sentirsi come “sotto una campana di vetro” — simbolo che, ovviamente, tornerà spesso nel corso del romanzo, e che dimostra il senso di soffocamento provato dalla protagonista. Tornata a Boston, Esther tenta il suicidio, e viene quindi ricoverata in una clinica psichiatrica.

L’opera — completata, a quanto scritto sul diario della Plath, il 22 giugno 1961 — è molto più che una semplice testimonianza di dolore: oltre a essere frutto di una necessità profonda della scrittrice di “dare sfogo alla piccola terribile allegoria ancora una volta prima di potersene liberare”, La campana di vetro è un testo di forte durezza e realtà. È un romanzo che fa male, che fa sentire il lettore a disagio proprio come lo è la protagonista stessa. Ho trattenuto il fiato diverse volte durante la lettura, non per momenti di particolare suspance o angoscia, ma per il dolore vero, grezzo e lancinante che traspira dalle pagine. È un dolore che sembra afferrarti le ossa e stritolarle, descritto con una grandissima forza e precisione, come solo una persona che l’ha realmente vissuto può descriverlo.

Leggere questo romanzo mi ha permesso di indagare un po’ di più riguardo la vita e la figura di Sylvia Plath, e dopo questa breve ricerca ho capito che ciò che farei, se dovessi trovarla nell’oltretomba, sarebbe darle un abbraccio.

Sylvia Plath nasce nel 1932 a Boston, da padre tedesco e madre austriaca, e diventa sorella maggiore di Warren Joseph a tre anni. Il rapporto con il padre era molto difficile — gli verrà infatti dedicata, dopo la morte per malattia, l’accusatoria poesia Papà. All’età di undici anni Sylvia inizia a tenere un diario, abitudine che non lascerà più; durante i suoi studi allo Smith College, inoltre, mantiene un rapporto epistolare con la madre, che sarà un grande strumento per affinare la sua scrittura introspettiva. Nel 1953 vince un soggiorno a New York che, come visto nella storia della Campana di vetro, la porterà a una forte depressione, al tentativo di cura da parte dei medici con un ciclo di elettroshock e, infine, al tentativo di suicidio e al successivo ricovero. Superata la crisi e completati gli studi, conosce a una festa il poeta Ted Hughes, con il quale si sposerà in segreto il 16 giugno, giorno in cui James Joyce ambienta il suo Ulisse. Insegna letteratura inglese allo Smith College per un anno, prima di lasciare il lavoro per dedicarsi completamente alla scrittura. Segue un periodo di intense suggestioni artistiche, in cui si appassiona anche all’arte e alla scultura e intraprende conoscenze con molti artisti. Tra la nascita dei figli Frieda e Nicholas e la sua prima raccolta di poesie Il Colosso, la Plath scopre di essere tradita dal marito. I due si separano, e la donna si sposta a Londra con i due figli: quello che segue sarà il periodo più florido dell’artista, in cui scriverà la sue opere maggiori.

L’undici febbraio 1963, dopo aver preparato la colazione ai figli, splancato la finestra e serrato la porta della loro camera, Sylvia va in cucina, apre le manopole del gas, mette la testa nel forno e si toglie la vita.

Appena sei giorni prima del suicidio, il 5 febbraio, Sylvia Plath scrive uno dei testi a mio parere più struggenti e cruenti della storia della letteratura: ve lo lascerò qua sotto, per poter condividere con voi l’enorme amore e rispetto che provo nei confronti di questa grande donna.

LIMITE

La donna ora è perfetta.

Il suo corpo

morto ha il sorriso della compiutezza,

l’illusione di una necessità greca

fluisce nei volumi della sua toga,

i suoi piedi

nudi sembrano dire:

Siamo arrivati fin qui, è finita.

I bambini morti si sono acciambellati,

ciascuno, bianco serpente,

presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.

Lei li ha raccolti

di nuovo nel suo corpo come i petali

di una rosa si chiudono quando il giardino

s’irrigidisce e sanguinano i profumi

dalle dolci gole profonde del fiore notturno.

La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,

non ha motivo di esser triste.

È abituata a queste cose.

I suoi neri crepitano e tirano.

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Irene Sanzovo
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Italy; eternal student and dreamer. I like books and I don't know what I want to do with my life. insta: @irenesanzovo