A character is in a zone of comfort

The Sad Stork
8 min readOct 21, 2020

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Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Direi che questa è una massima abbastanza indiscutibile che ciascuno di noi ha accettato come vera fin dalla nostra prima esposizione ad essa, che immagino possa essere avvenuta più o meno per tutti all’epoca della scuola elementare. Per quanto essa possa sembrare strana inizialmente, per quanto ci porti a vagare con la nostra mente attraverso cose che crediamo si siano create dal nulla — a volte non serve neanche vagare tanto, uno dei primi esempi che ci potrebbero venire in mente è proprio la nostra persona — questo principio è una verità assodata non solo dalla comunità scientifica, ma anche dai nostri cervelli. Per questo direi che possiamo assumere per vera un’altra affermazione, ovvero quella per cui tutto ciò che ascoltiamo, vediamo, leggiamo o gustiamo, tutto quello che ci piace non nasce nel vuoto. L’arte non esiste a priori da qualunque altra cosa e il nostro gusto non può essere indipendente da ciò che viviamo nella nostra vita. Assunto questo principio di non indipendenza bilaterale dell’arte e dei nostri gusti dal mondo esterno, dunque, possiamo valutare le scelte artistiche dei singoli creatori prendendo in analisi la loro carriera per intero, piuttosto che per piccole frazioni. Possiamo per certi versi vedere tanto il percorso artistico quanto la singola opera come mappe con un punto di partenza e un punto di arrivo, mappe che si allargano con ampie anse, che si restringono improvvisamente, che percorrono strade larghe o strette, ardue o semplici, ripide nel migliore o nel peggiore dei sensi possibili. Un’unica grande costante potrebbe però presentarsi in queste mappe così variegate ed espressioni di mondi e culture e storie personali e gusti artistici differenti, ovvero quella della natura circolare di tutti questi percorsi, della coincidenza esatta tra il punto di partenza e il punto di arrivo. Ci sono degli schemi che si ripetono dietro le nostre narrazioni, le storie che formano la mitologia della nostra e di tutte le altre culture, e che quindi influenzano gli schemi dei percorsi delle nostre vite — o viceversa — motivi che non puoi non vedere dopo averli inquadrati per la prima volta. Molti ne hanno teorizzato l’esistenza nel corso della storia ma il primo a dargli forma concreta fu Joseph Campbell, studioso delle religioni americano, che formulò l’esistenza del cosiddetto “monomito” all’interno del suo saggio di mitologia comparata “L’eroe dai mille volti”. La struttura circolare e in diciassette punti del monomito non può non risultarci familiare, in quanto è la forma scheletrica, sono le fondamenta di tutte le storie che conosciamo già, dall’Odissea all’Epopea di Gilgamesh, il modello base e squadrato su cui i letterati di ogni parte del mondo e epoca hanno costruito i loro capolavori.

Ma come detto queste formule non si ripetono solo nella nostra mitologia. Interviene in questo momento sulla scena Dan Harmon, autore statunitense creatore di “Community” e “Rick e Morty”, nonché persona che ha letto molto, e quando dico molto intendo MOLTO, Joseph Campbell, tanto da arrivare a vedere quella formula messa in piedi dallo studioso americano in molto di più che nella mitologia, ma praticamente in qualsiasi prodotto artistico e culturale, dalle serie tv alle canzoni alle pubblicità, un po’ come la formula matematica che Jason Padgett non può fare a meno di vedere in ogni cosa e che governa tanti dei fenomeni che accadono in questo mondo, come l’acqua che scorre via da un lavandino, tanto da arrivare egli stesso a formulare la propria teoria, il proprio percorso circolare, il proprio viaggio dell’eroe, una mappa in otto punti che certo, se avete visto anche solo un episodio delle sue creazioni, non potrete mancare di riconoscere sempre e comunque, indipendentemente dall’ispirazione, dalle reference intrise di cultura pop e dalle scelte di regia.

Ecco, quella mappa, quel disegno circolare che ha dato forma a così tanti dei miei momenti di televisione preferiti, mi è venuta in mente immediatamente dopo aver metabolizzato il contenuto di un EP di soli quattro brani usciti dalla mente di uno dei più brillanti e noti artisti del panorama internazionale, quel James Blake che mi ha costretto a lunghi momenti di riflessione per trovargli una descrizione più adatta, dal momento che il suo intero curriculum sembra fatto apposta per scoraggiare chiunque dovesse occuparsi dell’artista londinese a dargli una definizione che possa restringere il campo dei possibili interessati alla sua opera. L’EP è uscito in questi giorni e si chiama “Before”, e la ragione per cui per arrivare a parlare del mio rapporto con esso sono passato attraverso questo relativamente lungo preambolo su argomenti che apparentemente non c’entrano niente, è perché invece credo che il loro legame sia più stretto, o meglio, che questo breve intermezzo nella carriera di James Blake rappresenti in realtà un punto di stop decisivo, una fermata necessaria per capire quello che l’artista è stato fino ad ora e magari anche quello che sarà da oggi in poi, verrebbe da dire quasi la chiusura di un cerchio.

No. Non lo so e non lo posso dire per certo. Parlare di “chiusura di un cerchio” è un qualcosa che dovrebbe spettare solamente a chi il cerchio lo ha aperto e desidera andarlo a concludere. Per di più un EP sembra avere più la forma di una stazione di un passaggio che di un vero e proprio capolinea da cui ripartire, più Tiburtina che Termini. Insomma, ci sono tantissime ragioni per cui parlare di “Before” in questa maniera potrebbe far storcere il naso a molti, ancor prima o forse in maniera del tutto indipendente dalla spiegazione che io potrei dare di questa definizione. Per provare a capire cosa intendo esattamente per “chiusura di un cerchio” dobbiamo parlare di cosa ho e abbiamo ascoltato quando abbiamo premuto play sul nostro servizio di streaming di riferimento, e un primo elemento di analisi a nostra disposizione viene direttamente da un post su Instagram, quello del profilo ufficiale di Spotify con cui è stata annunciata l’avvenuta pubblicazione dell’EP. “James Blake ci riporta sulla pista da ballo con il suo nuovo EP”, questa la caption scelta dalla gigantesca corporazione svedese per presentarci “Before”, e se pensate che questa descrizione sia solo buona per spingerci a usare la loro app per ascoltarlo vi sbagliereste, perché effettivamente c’è del vero in quanto detto da Spotify. James Blake ci vuole riportare a ballare, magari ancora per qualche mese sul parquet del nostro salotto e poi, quando finalmente sarà sicuro farlo, sui dancefloor di tutto il mondo. “Before” contiene musica che si può raggruppare fuori da ogni ragionevole dubbio all’interno del generico termine-ombrello “dance”. E non dovrebbe sorprendere, visto che in origine James Blake quello faceva, che il primo termine associato alla sua avventura musicale è quello di “DJ” — non a caso l’uscita di questo EP è stata accompagnata da un dj set virtuale per Boiler Room, il suo primo dal 2013 — e che almeno fino al primo album era ancora accettabile — per quanto non corretto — arrivare a definire la sua musica come “dance music”. In questo senso si parla di ritorno alle origini per James Blake in seguito all’uscita di “Before”. L’artista londinese è tornato nella sua comfort-zone, è tornato a fare non necessariamente quello che gli riusciva meglio, ma quello che gli ha permesso di iniziare il percorso artistico che tutti gli riconoscono. E in effetti ci sono dei veri e propri parallelismi che si possono tracciare tra questo nuovo EP e quelli rilasciati all’inizio della sua carriera, nessuno più evidente di quello che accomuna la prima traccia delle quattro uscite negli scorsi giorni, “I Keep Calling”, o meglio il sample di “Falling Apart” della cantante canadese Charlotte Day Wilson e il modo in cui il produttore britannico lo taglia, modifica, meccanizza trasformandolo quasi in un synth, con la title-track di uno dei primi EP rilasciati da James Blake, “CMYK”, più in particolare il sample di “Caught Out There” di Kelis.

Ma è proprio a questo punto, mentre ci rendiamo conto dei riferimenti che l’ultimo James Blake inserisce al primo James Blake, mentre abbiamo modo di entrare nella testa dell’artista per renderci conto che l’amore per la club culture di fatto non se ne era mai andato, anche se i suoi lavori più recenti lo avevano indirizzato da altre parti — anche in tempi recentissimi, contando l’uscita qualche mese fa della splendida ballad dagli archi subacquei “Are You Even Real?” — ma era solo in attesa di ritornare più forte che mai, che dobbiamo tornare a Dan Harmon e sopratutto alla struttura da lui immaginata su cui ha costruito gli episodi delle sue creazioni. Nello story circle di Harmon ci sono otto step, step i cui titoli, messi insieme formano, un po’ come nella struttura di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, una frase di senso compiuto: “A character is in a zone of comfort / But they want something / They enter an unfamiliar situation / Adapt to it / Get what they wanted / Pay a heavy price for it / Then return to their familiar situation / Having changed”. Proprio qui si trova il segreto che rende così affascinante, così complesso e ricco di sfumature “Before”. James Blake non è semplicemente “ritornato in una situazione familiare”, ma è anche “cambiato durante il percorso”. Con una traiettoria che renderebbe fiero Abed Nadir, James Blake non si è limitato a fare un EP di “dance music”, ha compresso in quattro tracce quasi dieci anni di esperienze lavorative o più semplicemente d’ascolto. Per quanto non sarebbe difficile riconoscere la stessa mano dietro lavori come “CMYK” e “Before”, sarebbe impossibile comprendere tutte le differenze che li caratterizzano senza essere consapevoli di trovarsi davanti ad un vincitore di un Mercury Prize e di un Grammy, ad uno che è andato in tournée nel giro di pochi mesi in supporto tanto dei Radiohead quanto di Kendrick Lamar, di un produttore che ha collaborato tanto con Beyoncé in “Lemonade” quanto con Jay-Z in “4:44”, di un artista che conta featuring con e insieme a Travis Scott, Bon Iver, Rosalia, Andre 3000 e slowthai, tra i tanti. Per quanto la caption sopra citata di Spotify resti corretta, sarebbe limitante dire che James Blake ci riporta solamente sulla pista da ballo. “Do You Ever” presenta una melodia nel ritornello e dei cori che potrebbero tranquillamente stare su un brano pop di ispirazione gospel e vede la partecipazione nell’arrangiamento orchestrale di Nico Muhly, uno dei principali compositori classici contemporanei. Quasi tutti i brani, come ad esempio “Summer of Now”, alternano momenti più danzerecci a tratti da classica ballata pop sparsa e minimale che abbiamo potuto ascoltare in molti lavori precedenti dell’artista londinese. La title-track, oltre a presentare una melodia tra le più catchy dell’anno che mette in mostra il falsetto semi-irripetibile diventato col tempo uno dei simboli più identificativi della musica di James Blake, vede in chiusura degli archi che flirtano con il nostro gusto per l’horror, con la nostra passione per l’essere spaventati. “I Keep Calling” non è solo un piacevole ritorno alle origini, ma presenta anche passaggi che potrebbero ricordare “everything i wanted” di Billie Eilish.

James Blake è in uno stato di grazia aiutato da una libertà creativa che è prima di tutto espressiva, dopo essersi liberato dello spettro da “sad boy” che lui stesso ha affermato di essersi sentito gettato contro da numerose voci all’interno dell’industria e della critica, una libertà creativa che gli permette di spaziare nei larghissimi campi delle conoscenze artistiche da lui acquisite nel tempo. Non possiamo sapere, non al momento almeno, come James Blake consideri questo momento della sua carriera all’interno del suo percorso artistico. L’impressione però che questo rappresenti una prima chiusura di un cerchio comunque resta. E sarebbe bellissimo, incredibile, estremamente romantico, se James Blake avesse deciso di raccogliere tutto quello che ha fatto, tutte le sue esperienze artistiche, i suoi inizi e le sue continuazioni, i primi passi e la scalata all’Olimpo, per arrivare a questo singolo momento, finito e particolarissimo, se avesse deciso di chiudere un cerchio, di piazzare il proprio campo base in un determinato punto, così poi da poter ripartire in chissà quali nuove direzioni. Insomma, anche in questo caso possiamo confermare la veridicità della massima. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

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