Alcune opinioni su tre dischi che mi sono piaciuti

The Sad Stork
12 min readJul 17, 2021

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Direi che è ormai passato un po’ di tempo da quando su queste frequenze si è parlato per l’ultima volta di dischi nella loro interezza, e dunque quale momento migliore per rientrare nel mood della fine della sessione estiva? Sono uscite un sacco di cose interessanti tra giugno e questa prima metà di luglio, ma tre dischi tra tutti questi mi hanno particolarmente impressionato, ovviamente in maniera positiva, altrimenti non mi ritroverei qui a parlarne, dal momento che, tranne rari casi, sono molto più stimolato da ciò che mi piace che da ciò che non mi piace. Riflettendo sull’ordine in cui li ho inseriti in questa lista, potrebbero anche essere visti come una classifica dal più alto al più basso, ma sinceramente sono tutti e tre ottimi lavori e un po’ mi dispiacerebbe dover affermare apertamente davanti a tutti quale tra i tre sia il mio preferito, quindi fate finta di dimenticarvi quanto appena scritto e iniziate pure a munirvi di cuffiette per recuperare questi tre lavoroni.

Tyler, The Creator — CALL ME IF YOU GET LOST

Come si riparte dopo aver tirato fuori un instant classic? Non so se è la domanda che si è posto Tyler Okonma quando si è di nuovo infilato nello studio in seguito alla pubblicazione — e al successo, e al tour — di quel capolavoro che è “IGOR”, ma certo deve essere la domanda che ci siamo posti noi che quel disco lo abbiamo apprezzato così tanto, perché se è vero che in questa società di oggi siamo portati a consumare sempre nuovi ed eccitanti prodotti culturali allora è anche vero che anche un artista che ha pubblicato un album per ogni anno dispari negli ultimi dieci anni — Tyler is a CONCACAF stan e organizza i suoi release intorno alla Gold Cup confirmed — potrebbe quasi sembrarci lento e darci l’impressione di lasciare tempi immemori tra un disco e l’altro. E allora, per toglierci almeno per un po’ “IGOR” dalle cuffie, Tyler ci ha rifornito di nuovo materiale con quello che è il suo sesto album da solista, “CALL ME IF YOU GET LOST”, che immediatamente vola nelle primissime posizioni della classifica dei prodotti musicali di questo 2021 scritti in bloc maiusc il cui titolo inizia con le parole “CALL ME” — ok, in realtà questa è un po’ una fregatura, perchè il nome della canzone di Lil Nas X sarebbe “MONTERO (Call My By Your Name)”, ma mi andava di fare questo parallelismo dopo aver visto queste foto — nonché, e forse questo è un poco più importante, nella lista dei potenziali dischi dell’anno. Come nel suo predecessore, Tyler ci introduce ad un nuovo protagonista che permea ogni nota del disco, che abita ogni piega della produzione. Si tratta di uno stratagemma caro a Tyler Okonma, ma non solo a lui, tanto che la storia dell’arte è piena di artisti che si nascondevano dietro a personaggi, dietro a sovrastrutture dotate di personalità proprie, che riprendevano tirando fino agli estremi dello spezzamento, fino quasi alla parodia, singoli tratti del carattere dell’autore. In questo caso, dopo IGOR, è Tyler Baudelaire la maschera con cui l’ex Odd Future decide di entrare in scena fin dalla copertina, in cui il sosia di David Alaba presta il proprio volto per la patente di guida di Baudelaire, con tanto di colbacco celestino e firma con lo smiley. L’album, per strutturazione e ispirazioni nei suoni, sembra riprendere molto dagli anni ’00, a partire dalla presenza di DJ Drama che sembra quasi caratterizzare questo lavoro come un mixtape più che un vero e proprio disco, gabbia al cui interno Tyler, The Creator riesce a muoversi con abilità, spaziando con grande abilità lungo tutte le pieghe del suo talento come rapper, cantante e producer. Anche una serie delle ospitate presenti nel disco, in particolare quelle di Pharrell e di Lil Wayne, oltre che del già citato DJ Drama, avvicinano Tyler a quel mondo, che mai viene richiamato così tanto come in “WUSYANAME” con YoungBoy Never Broke Again e Ty Dolla $ign, che è a tutti gli effetti un pezzo r’n’b tardi anni ‘90-inizio ’00, tanto deve a quell’epoca per produzione, armonie e melodie. Il formato mixtape viene invece ricordato in “LUMBERJACK”, forse il pezzo più IGOR-ish del disco che non a caso è risultato essere il primo singolo scelto per pubblicizzare l’album, come un ponte capace di collegare le due sponde del fiume, che a dir la verità non si assomigliano neanche troppo. Il sample su cui è costruito il pezzo è di “2 Cups Of Blood” dei Gravediggaz, e presenta lo stesso DJ Drama che urla la tag della serie di mixtape che lo resero celebre, “Gangsta Grillz”. “CORSO” mette insieme un beat che probabilmente è stato campionato da un pezzo Motown degli anni ’60, e i coretti che accompagnano buona parte del brano ricordano l’atmosfera da boyband degli ultimi BROCKHAMPTON. “MASSA” è un pezzo curioso, forse insieme alla già citata “LUMBERJACK” la miglior uscita nel rap di Tyler in questo disco, pur distaccandosi molto da quest’ultimo pezzo. Tyler qui è quasi un crooner che rappa, capace di adagiare come fossero teste su un cuscino ogni singola rima su un beat lo-fi e una base strumentale che sembra quasi uscita da una riedizione orchestrale di una qualche colonna sonora di un film ambientato in Costa Azzurra. Il brano migliore dell’album è con ogni probabilità “SWEET / I THOUGHT YOU WANTED TO DANCE”, o meglio i due migliori brani sono quelli che compongono questo colosso di nove minuti — non l’unico del disco. “SWEET” è una slow burn anni ’80 con le melodie dei synth che sembrano uscite dalla soundtrack di un videogioco, mentre “I THOUGHT YOU WANTED TO DANCE” riprende il clima tropicale da hall di albergo anni ’70 di “telepatia” di Kali Uchis, ma anziché a Bogotà ci trasferisce presso la vetrata che affaccia sull’oceano e sulle spiagge di Rio de Janeiro. In “JUGGERNAUT” Tyler ospita Pharrell Williams e Lil Uzi Vert, che porta con sé il meglio di entrambi. Il pezzo è massimalista, quasi cinematografico, ha un basso che sembra uscito da un pezzo hyperpop, è allo stesso tempo profondamente oscuro eppure quasi, e lo so che probabilmente sto esagerando, radiofonico, se si è disposti a modellare il concetto di cosa voglia dire questo termine. Con “CALL ME IF YOU GET LOST” Tyler si volta alle spalle e riflette sul suo percorso, rende omaggio alla musica che lo ha reso quello che è, offre quasi una autobiografia in versi di un percorso che nessuno, ai tempi degli Odd Future, avrebbe immaginato potesse prendere queste forme. E lo fa senza perdere la forza sperimentatrice e distruttrice che aveva caratterizzato “IGOR”.

Dry Cleaning — New Long Leg

Non potrebbe esserci un anno migliore per una band post-punk inglese per rilasciare il proprio album di debutto, dal momento che, data la quantità e la qualità di ottime uscite, verrebbe veramente da pensare che ci sia qualcosa di strano e magico nell’aria. Black Country, New Road, Squid, Goat Girl, Shame, tutte queste band e altre hanno rilasciato lavori di eccellente fattura che disegnano lo scenario di un genere che non solo non è invecchiato un giorno dai bei tempi andati ma che forse sta addirittura vivendo il suo periodo di maggior splendore dalle sue stesse origini. Dopo un lungo periodo in cui la scena indipendente britannica si è riempita di 1) band alt-pop che preferivano i synth alle chitarre nei 2010, 2) formazioni che mischiavano il punk melodico dei Buzzcocks — penso ai primi Arctic Monkeys, con quella dose massiccia di frenesia e verboso liricismo alla Libertines — con la voglia di essere gli eredi inglesi degli Strokes nei 2000, e sopratutto dopo 3) l’infinita cascata di britpop, post-britpop, qualunque-cosa-volesse-dire-quel-diavolo-di-britpop negli anni ’90, questo nuovo decennio — e per la verità pure gli ultimi anni di quello precedente — sembrano il momento storico perfetto per chi ama i rulli compressori al posto delle batterie, i bassi che picchiano al ritmo di settecento colpi al minuto, la delivery ironica e annoiata a metà tra lo Ian Curtis e il Phil Daniels di “Parklife” e i riff di chitarra asciutti e ripetuti fino allo sfinimento. Ultimi ad aggiungersi a questa lista di innovatori del post-punk i Dry Cleaning, che hanno recentemente dato alle stampe il loro primo disco, intitolato “New Long Leg”. La direzione presa dal disco è immediatamente evidente fin dalla prima traccia. “Scratchcard Lanyard”, probabilmente il punto più alto dell’album, costruito su una chitarra che ricorda i Television, è di fatto un poema che non viene cantato quanto piuttosto recitato dalla vocalist, Florence Shaw, nel cui testo fioccano le assonanze e gli accostamenti di parole ricche di spigoli che sembrano quasi ricordare certi momenti montaliani — il verso “wristband, theme park, scratchcard, lanyard” oltre a riprendere il gusto per l’elenco di molta letteratura contemporanea ricorda, pur non avendo sotto lo stesso impianto teorico e gli stessi rimandi, il verso sul “ticchettio della telescrivente” degli Xenia — ma non c’è nulla del trasporto da pioggia di fogli che caratterizzava la poesia musicata di alcuni sperimentatori del punk o del proto-punk come Patti Smith. Piuttosto, come in Sidney Minsky-Sargeant dei Working Men’s Club sembra prevalere la sardonica ironia, l’eloquio quasi svogliato. Sembra quasi di essere in una sitcom britannica, di stare ascoltando un intervento di Richard Ayoade. Il tutto è un po’ surreale ed è proprio in questo surrealismo che sta la forza di Florence Shaw come frontwoman. Dove gli altri fanno casino, lei colpisce per la calma con cui risponde, con cui interagisce con le nostre orecchie. Sembra quasi si trovi ad essere intervistata da Larry King piuttosto che a cantare su alcune delle basi più rumorose e irriverenti che si possano trovare. Se fossimo in una puntata immaginaria di “Would I Lie To You”, il longevo panel show britannico, Florence Shaw sarebbe Rob Brydon che con la dizione arrotondata e ben smussata cerca di mandare avanti lo show, mentre il resto della band sarebbero i capisquadra David Mitchell e Lee Mack e il resto dei commedianti. Come i primi fanno a gara a chi riesce ad essere più rumoroso, a chi riesca ad infilare più dissonanza, più disordine nel proprio personale spartito, i secondi fanno a gara a chi riesce a dire la battuta più esilarante, a chi riesce a strappare i maggiori applausi. Ma per quanto il resto della band riesca a fare un eccellente lavoro, intessendo con l’aiuto dello storico produttore John Parish — PJ Harvey, Goldfrapp, Tracy Chapman — una tela multicolore capace di spaziare in varie direzioni, dal quasi-Wilco di “More Big Birds”, ai già citati Television, al krautrock di “Every Day Carry”, è sempre e solo Florence Shaw e la sua poetica a prendersi la scena. La recensione da Best New Music di Pitchfork è di fatto una recensione dei suoi testi, e anche da queste parti non si è riusciti a non farsi monopolizzare l’attenzione da questo stile così unico e che così tanto aiuta a distinguere il disco dal resto delle terre emerse. Abbiamo già citato la passione per l’elenco, ma di fatto i testi di Shaw sono una collezione di momenti, una lettera minatoria scritta con i caratteri dei giornali, un collage disordinato di frasi sentite per strada, commenti di hater su YouTube, tweet divertenti, schegge d’immaginazione quasi futuristica — “una donna con gli aviator che da fuoco ad un bazooka” — massime filosofiche da segnarsi per il resto della vita, multilinguismo, dad jokes — “more espresso / less depresso”, si può sentire in “Her Hippo” — e tecnica cut-up sul modello della Beat Generation. I testi di Florence Shaw sembrano quasi ambire a voler rispondere ad una domanda di critica letteraria: se tutto è stato sdoganato nel linguaggio poetico, allora come possiamo distinguere i registri, dove dovremmo tracciare la linea tra ironia, serietà, sdolcinatezza e tutto il resto? E possiamo veramente tentare un’iniziativa del genere? La nave non è forse salpata? Perché intitolare una canzone “John Wick” se poi John Wick non solo non viene nominato, ma non sembra entrare neanche parzialmente all’interno della vicenda? Si tratta del definitivo funerale al ruolo che il titolo svolge all’interno dell’interpretazione di un’opera? Dobbiamo veramente interpretarlo, non potrebbe essere più semplicemente un segnaposto messo lì in attesa di un ospite che però non si è mai presentato? Il segreto della grande poesia, ma anche della grande narrativa, della scrittura in generale, diciamo, sta nel potersi incassare in diversi livelli di lettura e di risultare sempre e comunque affascinante, magnetico, necessario. E questo è quello che fanno i testi, ma anche ciò che ci sta intorno, dalla performance alla vocal delivery, di Florence Shaw, ti attraggono ma poi richiedono anche la tua attenzione totale e incondizionata.

Lucy Dacus — Home Video

Quanti dischi e quanti brani esistono sull’adolescenza, sulla crescita, sul tentativo di inserirsi o al contrario di fuggire dalle strette maglie a cui la troppo giovane età per decidere di prendere e andarsene e basta ci costringono? Tanti. Tantissimi. Qualcuno potrebbe sostenere anche troppi. Il format è tutt’altro che originale, e sembra difficile poter rivoluzionare un qualcosa di così classico, così comune da essere assunto quasi a topos letterario. Però ora ditemi se questa potenziale prospettiva non sembra estremamente affascinante: una collezione di canzoni che raccontano la crescita di una persona tra i sette anni e la maggiore età, sparse in un’ordine impreciso in cui la precisa età anagrafica della protagonista non è specificata in nessuna delle undici composizioni, una raccolta di momenti non meglio precisati, di fotografie, o meglio, di vecchie cassette tipo quelle in cui i vostri genitori caricavano la registrazione delle vostre recite scolastiche. Suona molto meglio, vero? Allora rallegratevi, perché questa prospettiva non è più potenziale bensì decisamente reale dallo scorso venticinque giugno, quando Lucy Dacus, ventiseienne da Richmond, Virginia, ha pubblicato il suo terzo album solista — il quarto contando l’EP con Phoebe Bridgers e Julien Baker nel progetto “boygenius” — intitolato, in maniera molto suggestiva — abbastanza almeno da incoraggiarmi ad utilizzarla come metafora per il disco stesso appena poche righe fa — “Home Video”. Il disco ha già confermato un trend che aveva iniziato a prendere forma in seguito all’uscita, sempre in questo 2021, dell’album di un altro terzo di boygenius, ovvero Julien Baker, ovvero che in seguito al boom di “Punisher” nel 2020, l’attenzione intorno a Phoebe Bridgers e a chiunque possa essere associato al suo lavoro si è moltiplicata, e che chiunque pratichi questo genere di cantautorato possa oggi godere di un’attenzione anche da parte del mainstream o del quasi-mainstream senza precedenti. Tanto “Little Oblivions” quanto “Home Video” hanno semplicemente distrutto i traguardi commerciali raggiunti dal loro predecessore, un risultato che immaginiamo possa essere di ancora maggiore soddisfazione nel bel mezzo di una pandemia che, annullando il fenomeno della musica dal vivo, ha ridotto gli introiti di tutti i musicisti — dalle superstar, che però, come dire, hanno qualche riserva nel conto in banca, a quelli che invece dipendono sulla musica dal vivo per mantenere uno stile di vita simil-benestante — ben oltre il 50%. Al contrario di quanto spesso sentito nei suoi predecessori, in “Home Video” — primo suo disco ad entrare in classifica generalista sia in UK che nei nativi USA — Lucy Dacus adotta uno stile lirico molto più diretto e concreto, si concede al concept senza alcuna remora lasciandosi affogare nel mare dei ricordi, riportandoli con puntualità e accuratezza, ma questo non vuol dire che l’album sia nato già formato nella sua testa, che l’intenzione di cosa dovesse essere questo lavoro fosse già chiara nei mesi precedenti alla composizione e al rilascio. Come detto da Dacus stessa, lei scrive canzoni, e solo quando incomincia a rendersi conto di alcune comunanze tematiche tra più pezzi inizia a valutare se sia possibile rilegarle in un disco. Musicalmente, pur mantenendosi grosso modo all’interno dei binari del cantautorato indie-rock quasi folktronico, “Home Video” si presenta ricco di sperimentazioni, composto da diverse anime, tendente per natura al genre-less. Particolarmente significativa in questo senso è la doppietta “Going Going Gone”-”Partner In Crime”, che mette insieme il pezzo forse più acustico, asciutto, minimalista dell’album con quello più manipolato, frutto di un lungo processo di aggiunta, con la voce dell’artista rinchiusa in una gabbia di autotune e riverbero. La varietà di questo disco è indiscutibile, e ne è forse uno dei maggiori pregi, vista la quantità e la diversità delle emozioni mischiate insieme, il florilegio di tematiche, la sovrapposizione di età differenti, come amalgamate in un’unica pasta dallo scorrere indefinito dei flash-back e dei flash-forward. “Hot & Heavy” è un singolone martellante che apre il disco e che subito da un tono al tutto, e non a caso è e sarà con ogni probabilità il pezzo di maggior successo del disco. “Triple Dog Dare”, la traccia di chiusura, è un crescendo che ricorda in parte “I Know The End” di Phoebe Bridgers, ma senza l’assordante esplosione finale. La storia trattata è infatti qui meno definitiva — “well I guess the end is here” è l’ultima cosa che sentiamo cantare a Bridgers prima di lanciarsi in un urlo quasi da heavy metal — e molto più malinconica, ricordando un’avventura vissuta insieme ad una cara amica nella loro infanzia vissuta all’interno di un ambiente profondamente cristiano, prima che entrambe si rendessero conto di essere queer. Il tono dell’intero disco è quello di una confessione, e non necessariamente del tipo che immaginiamo la giovane Dacus, protagonista del disco, sia stata costretta a rendere a pannelli di legno finemente intarsiati con una voce dall’altro lato, ma più sul modello di quelle diaristiche che ragazz* altrettanto giovani lasciano sulla loro vita. Una confessione che non nasconde affatto i suoi lati più duri e spigolosi, le sensazioni più forti, le tentazioni più sconvolgenti, come quando in “Thumbs”, prima canzone rilasciata, viene raccontata la fantasia dell’omicidio di un padre di un amico, troppo severo e ossessionato dal controllo. Un romanzo di formazione dalle diverse fonti, che spazia tra generi e poetiche, così come da giovani ci sembra voler preferire un certo stile d’abbigliamento salvo poi rinnegarlo completamente il giorno successivo, costringendoci a rifare un guardaroba per la prima volta non per questioni di misure, ma di gusti. Un lavoro che conferma lo stato di grazia delle boygenius — con Bridgers e Baker che ritornano anche ad offrire la loro voce nei cori di alcune tracce come “Going Going Gone”, insieme anche a Mitski e a Liza Anne.

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