Di corpi, tecnica e atletismo

The Sad Stork
24 min readJul 31, 2021

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Una scena da Asterix Alle Olimpiadi (il fumetto)

C’è una cosa che mi manda ai matti. Non è vero. Ci sono molte cose che mi mandano ai matti. C’è in particolare una cosa che interseca l’argomento che voglio trattare e che quindi, in questo momento, mi manda ai matti più delle altre, ovvero coloro che guardano lo sport e le grandi gesta atletiche dei suoi protagonisti non raccogliendo il piacere dell’eccezionalità, senza godersi la bellezza di sforzi spaventosi e fondamentalmente — come tutte le cose dell’umanità, direbbe un cinico, ma in questo caso ancora di più — inutili fatti esclusivamente per il piacere di testare i propri limiti. Quelle persone che di fronte a questi piccoli capolavori artistici, che rappresentano di fatto le fondamenta su cui è costruito il mito dei Giochi Olimpici, ovvero l’umana e mondiale tendenza al misurare i propri limiti, non riescono a non pensare ad altro che a quali sostanze potranno mai essere state prese dall’atleta per spingere il proprio limite fino a quel punto. Questo tipo di persone, che non si capisce per quale ragione debbano farsi il sangue amaro intorno ad attività che evidentemente non li interessano immaginando complotti e sparando nel mucchio — per poi fare quelli intelligenti quando, a forza di sparare, qualcosa centrano — è particolarmente presente nei dintorni del ciclismo, in chi guarda in televisione lo sport — mi rifiuto di credere che qualcuno possa fare lo sforzo di seguire con mezzi propri una gara ciclistica se poi è quello il suo approccio filosofico alla questione — e in chi in tempi grami si lamenta della mancanza di campioni e della noia delle corse e poi, quando i suddetti campioni arrivano, si mette a dubitare della liceità delle loro imprese, ed essendo il ciclismo per distacco il mio sport preferito in assoluto, perdo la testa più di Orlando dietro alle cattiverie gratuite e assolutamente infondate — per i dati a nostra disposizione — di persone a cui sembra difficile anche consigliare di andare a vedere, non so, lo Scarabeo competitivo perché sembrano fondamentalmente contrari all’istituto stesso della competizione. La ragione di questa tendenza, insita sopratutto negli appassionati di una certa età, è abbastanza evidente, e ha a che fare con i tanti scandali scoppiati tra gli anni 90 e l’inizio dei 2000, e in particolare con lo scandalo di doping sistematico di squadra più significativo prima di quello nazionale russo, ovvero quello della US Postal di Lance Armstrong. Anche comprendendo le delusioni che molti possano aver subito negli anni per le tante positività non riesco però a giustificare un atteggiamento così sommario, così radicato nei principi di così tanta gente disposta a sedersi ore davanti alla televisione per guardare questo sport. E mi fa imbestialire il fatto che il ciclismo sia l’unico sport che non riesce a pagare il suo debito con il doping, almeno nell’opinione pubblica, tanto da essere diventato quasi sinonimo con la pratica stessa del doping. Se Armstrong è stato il giustiziere della credibilità del ciclismo allora perché Ben Johnson non lo è stato dell’atletica, e perché Sun Yang non lo è stato del nuoto? Anche volendo sottolineare come le pratiche della US Postal riguardassero l’intera squadra secondo un sistema di rigida pianificazione, il fatto che nessuna di quelle persone coinvolte sia più nel ciclismo e che la squadra stessa sia stata sciolta, senza neanche riciclarsi entità con sponsorizzazioni diverse come è consuetudine nel ciclismo — vedi la UAE Emirates, la fu Lampre, o la Movistar, che è di fatto la stessa esatta organizzazione dai tempi della Banesto, sempre sotto il controllo di Eusebio Unzué — dovrebbe essere abbastanza per garantire a tutti gli atleti di oggi, che nulla hanno a che fare con quella parte di storia del ciclismo, il beneficio del dubbio, dovrebbe permetterci di goderci delle loro imprese. Eppure, e non so se sia diretta eredità della perpetuità dei social, che permettono a ciascuno di noi di scolpire nella roccia le nostre impressioni e di ripescarle convenientemente quelle poche volte che abbiamo ragione, anche oggi c’è una gara a gridare al dopato, una sfida continua a gettare dubbi nelle imprese dei grandissimi. In quest’ultimo Tour la questione è tornata d’attenzione con le imprese di Tadej Pogacar, a ventidue anni vincitore di due Maglie Gialle, capace di distruggere la concorrenza sulla strada per Parigi. Troppo più forte e veloce rispetto agli altri, si dice, deve per forza esserci sotto qualcosa. Ora, il mio approccio nei confronti dello sport è quello di regalarmi sempre il piacere della meraviglia di fronte alle imprese, anche a costo di prendere le legnate sui denti ogni volta che si scopre quanto queste siano poco genuine, ma anche essendo un poco più vigile non si potrebbe non notare come, entrando nel caso particolare del dibattito sul doping, Pogacar non abbia fatto un Tour molto più impressionante e sconvolgente di quello recuperato e vinto all’ultimo secondo nel 2020, semplicemente si sia trovato contro una concorrenza che, per una serie di fattori — l’assenza di Bernal, gli infortuni di Thomas e Roglic, l’inizio da gregario di Vingegaard, la scarsa forma di Uran — non poteva reagire alla stessa maniera alle sue azioni e sopratutto al suo stile di corsa, che già di suo è tendente a far esplodere la corsa piuttosto che a conservarla integra fino al finale, favorendo gli ampi distacchi. Guardando i dati fisici, il Tour 2020 di Pogacar e quello della sua riconferma non sono poi così differenti. Anzi, si assomigliano. Il suo non è stato un exploit, bensì una dimostrazione di continuità.

Ma Pogacar non è il punto. Il discorso riguardo le sue gesta in questi giorni mi ha fatto ribollire il sangue, ok, va bene, non posso negarlo, ma resta di fatto tangente o quasi alla questione. O meglio, c’entra pienamente, ma rappresenta solo uno della galassia di puntini che circolano intorno all’argomento in questione. Ovvero il nostro rapporto con il corpo — con i corpi — degli atleti, tutti quanti, di tutte le discipline, così diversi eppure così fondamentalmente simili per il loro mettersi al servizio dello spirito competitivo che li abita. E dal momento che viviamo in tempi di Olimpiadi, non sembra esserci occasione migliore per trattare l’argomento. Perché i Giochi dovrebbero essere la celebrazione per eccellenza dello sport e della sua infinita diversità, la dimostrazione per eccellenza di come non esista un corpo potenzialmente non atletico, non una condizione, delle cifre in centimetri o in chilogrammi o in qualsiasi altro parametro fisico analizzabile che possano impedire a qualcuno di guadagnare il simbolo per eccellenza della vittoria, la medaglia d’oro. Dovrebbe, perché nella realtà non è esattamente così. Dovrebbe, perché il rapporto della nostra società con l’atletismo, con la fisicità, con i corpi degli atleti, è completamente malato, irragionevole, folle, basato su principi anti-scientifici e non è altro che lo specchio di tendenze che la società conosce benissimo anche da prima che le Olimpiadi come le conosciamo oggi venissero regolamentate. Ecco, questa è un’altra delle cose che mi mandano ai matti. Mi fa talmente impazzire che sono mesi che volevo scrivere qualcosa del genere, ma ho cercato di aspettare di avere quante più cose da dire per riuscire a fare un discorso semi-coerente. Dicevo, abbiamo un rapporto malato con i corpi di chi fa sport. E anche i dubbi sul doping, anche la lunga e apparentemente sconclusionata introduzione che ho fatto sono direttamente collegate alla questione. Tale è la nostra associazione inscindibile tra le prestazioni eccellenti e i corpi che nella nostra mente dovrebbero renderle possibili che non riusciamo ad immaginare che qualcosa di differente possa realizzarle. I successi in salita di Chris Froome con quello stile sconclusionato e quella magrezza impressionante possono essere spiegati solo con il doping, e non con la perfettamente documentata teoria dei marginal gains che ha guidato l’attività della Ineos fu Sky nel corso del suo periodo d’oro. Al contrario, il corpo tutt’altro che smunto di Pogacar — magro, come tutti i ciclisti, ma assolutamente non come quello dei leader da classifica generale anche solo cinque anni fa, senza quelle vene gigantesche in rilievo — unito alla sua giovane età, può permettere quel tipo di imprese solamente, anche lui, con il doping. Alla stessa maniera, vedere un centrometrista incredibilmente strutturato, con dei muscoli che sembrano fatti dello stesso marmo che diede materia al David, ci fa pensare che certi traguardi non possano essere raggiunti con i moderni ritrovati della scienza sportiva ma esclusivamente, indovinate un po’, con il doping. Quest’ultimo caso sembra fortemente influenzato dalla memoria di Ben Johnson, ma anche lì, fermarsi alle apparenze è ingiusto e sommario, perché il punto, il vantaggio che si trae dal doping, non sta nella quantità o nelle dimensioni della massa muscolare, non del tutto, perlomeno, ma in cosa ci si riesce a fare con tutta quella roba su spalle, petto e gambe. Che una massa muscolare da noi esterni ritenuta eccessiva venga vista come un potenziale indizio di doping viene reso evidente dal caso forse più tremendo, più scandaloso e indicativo del nostro rapporto malato con la fisicità e con l’atletismo, quello riguardante Caster Semenya.

Quando nel 2009, ai mondiali di Berlino, la diciottenne sudafricana planò sul panorama dell’atletica mondiale, prima ancora che potesse dominare la finale degli ottocento metri piani il mondo dell’opinionismo l’aveva già condannata, l’aveva già posta al centro delle nostre morbose discussioni, l’aveva disumanizzata costruendo ragionamenti su ragionamenti senza neanche aver avuto mai modo di ascoltare la sua voce. Un ricordo vividissimo che ho della mia gioventù, non so esattamente per quale ragione, è un’intera paginata della Gazzetta dedicata al tema-Semenya, con tanto di intervista a Lucio Cusma, padre dell’allora migliore ottocentista italiana, Elisa Cusma Piccione, ex pugile che invitava, credo scherzosamente, le avversarie a “tirarle un pugno” nel mezzo della corsa, magari prima che provasse ad attaccare. In tutta la ridda di interventi non richiesti, quello di Cusma — sulla cui serietà ancora oggi, ad oltre dodici anni dalla pubblicazione di quel pezzo di giornale, continuo ad interrogarmi — potrebbe anche risultare uno dei più morbidi. Fin da subito, prima ancora che qualcuno potesse vedere Caster Semenya muoversi su una pista d’atletica, solamente basandosi sulle immagini che venivano fornite, il mondo chiedeva a gran voce che le fosse vietato di partecipare, o che come minimo venissero fatti test più approfonditi, riferendosi sia a test anti-doping che a test che potessero dimostrare che fosse effettivamente una donna. Quest’ultima tipologia, il cosiddetto test del sesso, venne effettuato su Semenya immediatamente dopo la sua vittoria ai mondiali berlinesi del 2009, e anche se i risultati — come è giusto che sia — non divennero mai di dominio pubblico, nel 2010 la IAAF li ritenne abbastanza “soddisfacenti” da permetterle il rientro all’attività agonistica. Proprio questo test — che all’inizio della sua storia, a dimostrarne l’invasività, consisteva in un’analisi da parte di un gruppo di dottori dei genitali dell’atleta, per poi passare dopo neanche un anno di esistenza all’analisi dei cromosomi — tornerà poi nel corso degli anni a dannare l’anima non solo di Semenya, ma anche di numerose altre atlete, in seguito alle riforme sul suo funzionamento. Nel 2011 infatti la IAAF ha deciso di spostare l’attenzione del test dalla ricerca della coppia di cromosomi XY piuttosto che XX al livello di testosterone, affermando che per competere al femminile un’atleta non potesse avere una quantità di testosterone superiore ai 10 nmol/l. Questo limite — del tutto arbitrario, comunque, tanto da venire sollevato nel 2015 dopo che un’altra donna con alti livelli naturali di testosterone, l’indiana Dutee Chand, ottenne dal TAS di Losanna, fece causa alle federazioni d’atletica internazionale e indiana — non penalizzò Semenya, che riuscì a continuare a gareggiare. A Londra, nel 2012, arrivò seconda negli ottocento metri, recuperando nel finale tutte le atlete ad eccezione di Mariya Savinova, russa, apparentemente molto meno “mascolina” della sudafricana, che si scoprì successivamente essersi effettivamente dopata, con tanto di oro revocato e passato a Semenya — momento che avrebbe dovuto spingere chiunque a terminarla con questa ridicola pantomima e a rispettare i traguardi raggiunti da una delle migliori atlete di ogni epoca semplicemente con i propri mezzi.

In realtà, questo è proprio il momento in cui la questione sembra perdere i contorni di una discussione generale su chi sia una donna o chi sia un uomo per quel che riguarda lo sport, diventando una vera e propria guerra anti-Caster Semenya da parte della IAAF. La federazione internazionale d’atletica avrebbe trovato la sua base scientifica in uno studio pubblicato sul British Journal of Medicine da Stephane Bermon e Pierre-Yves Garnier secondo cui “le atlete donna con alti livelli di testosterone hanno un naturale vantaggio rispetto a quelle con un livello basso in quattrocentometri piani e a ostacoli, ottocento metri, lancio del martello e salto con l’asta”. Lo studio presenta una serie di criticità, tra cui una quantità di dati presi in analisi assolutamente risicata e una metodologia tutt’altro che impeccabile, tutto questo senza considerare quanto possa essere etico consigliare a delle persone assolutamente sane — e che anzi rappresentano forse l’ideale di ciò che storicamente, dai tempi dei greci, riconosciamo come “un corpo sano” — di prendere medicinali che abbassino artificialmente i loro livelli di testosterone. Senza però aspettare che la discussione sullo studio potesse approfondirsi, la IAAF — che risulta essere tra i finanziatori della ricerca — lo ha utilizzato come base per rendere ancora più stringenti i suoi regolamenti, vietando la partecipazione a competizioni femminili ad atlete con livelli di testosterone pari o superiori a 5 nmol/l, ma non in tutte le specialità, solamente nelle gare dai quattrocento metri al miglio, ostacoli inclusi. Se ancora non è evidente come questo sia di fatto un provvedimento ad personam nei confronti di Caster Semenya, vi basti pensare che l’atleta sudafricana detiene il primato di essere la prima donna con un record personale sui quattrocento metri inferiore ai cinquanta secondi, sugli ottocento inferiore ai due minuti e sui millecinquecento inferiore ai quattro, e di fatto in seguito a questo provvedimento Semenya è esclusa da qualsiasi competizione in cui abbia dimostrato di poter gareggiare ad alto livello. Se ancora servisse un altro elemento per comprendere verso chi sia indirizzata questa decisione vi basti sapere che un’altra atleta africana con alti livelli naturali di testosterone, la nigerina Aminatou Seyni, potrà partecipare alle Olimpiadi di Tokyo solo nei duecento metri perché i suoi livelli di testosterone le impediscono di partecipare ai quattrocento — ma non nello sprint lungo esattamente metà distanza — che pure sarebbero la specialità in cui raccoglie le prestazioni migliori.

Ma al di là della guerra personale che la IAAF ha lanciato a Semenya, che è riuscita a raccogliere due ori olimpici e tre mondiali nonostante abbia speso tutta la sua carriera divisa tra la pista e le aule di tribunale per difendere la sua identità di donna, che si qualifica da sola per quello che è, l’intero ragionamento che le autorità sportive possono fare sul determinare chi sia sportivamente donna e chi uomo è non solo basato spesso su principi scientifici zoppicanti, ma è anche profondamente sessista, razzista e transfobica. Caster Semenya non è l’unica donna, e nello specifico non è l’unica donna nera e proveniente dall’Africa che è stata pesantemente penalizzata e di fatto esclusa per principio dalla propria disciplina per limiti arbitrari stabiliti da organismi composti per la gran parte da uomini per legiferare sui corpi delle donne. Il podio di Rio 2016 negli ottocento metri femminili è stato totalmente escluso da questi giochi, con la burundese Francine Niyonsaba e la kenyana Margaret Wambui che presentano entrambe forme di intersessualità, come Semenya. Il TAS di Losanna, respingendo in questo caso l’appello di Semenya, ha comunque ritenuto la decisione “discriminatoria” pur specificando come, a loro avviso, fosse “necessaria per preservare l’integrità della competizione”. E a rendere il tutto ancora discriminatorio interviene il fatto che il test non sia sistematicamente richiesto a tutte le atlete, ma che vengano sottoposte a queste pratiche solamente le atlete ritenute sospette. E fino ad ora tutte le atlete ritenute “sospette” sono state donne, non bianche e provenienti dal cosiddetto “sud globale”: Semenya, Chand, Niyonsaba, Seyni, e più recentemente anche le due quattrocentiste namibiane Beatrice Masilingi e Christine Mboma. Potrebbe sembrare una casualità, ma va ad inserirsi in un trend ben preciso, in una cultura storicamente radicata di minuziosa e puntuale analisi dei corpi delle donne e delle persone nere, delle loro modalità d’espressione. Una molecola di questa cultura è evidente dalla maniera in cui organizzazioni sportive in mano a uomini gestiscono l’abbigliamento sportivo delle donne, sia costringendo le atlete ad indossare completini più corti e sensuali come nel caso della squadra di beach handball norvegese sia vietando loro di indossare capi tipici della loro cultura, come nel caso del ban sull’hijab della federazione calcistica francese. La ragione per cui sospettiamo maggiormente certe atlete è che quei corpi, o meglio, quella fisicità in quei corpi, ci spaventa, ci sembra una cosa estranea. Ci fa dimenticare che lo sport nasce per celebrare e premiare quelle eccezionalità fisiche che in altri campi ci sembrerebbero stranezze. L’esempio più evidente è quello di Michael Phelps. Lo Squalo di Baltimora, con quel torso lunghissimo, quelle gambette corte e strette, quei piedi che sono di fatto pinne, ha un vantaggio innaturale e clamoroso rispetto a tutti i suoi avversari dato dal fatto di essere l’umano forse più vicino ad un pesce mai nato. Il vantaggio che quel corpo gli da è perlomeno tanto significativo quanto quello che il corpo con alti livelli di testosterone di Caster Semenya le regala negli ottocento metri, se non addirittura più significativo. Le gambe di diversa lunghezza a causa della poliomelite di Garrincha lo rendevano fuori dal campo quasi un invalido civile, mentre erano l’unica ragione per cui sul campo da calcio potesse essere il più formidabile dribblomane il pallone avesse visto fino a quel momento. Quando guardiamo lo sport arriviamo a dare per scontato che certe unicità fisiche regalino normalmente un vantaggio rispetto agli altri aspiranti atleti: una buona apertura alare è fondamentale nella NBA contemporanea, un dato eccezionale nel vo2max, il massimo consumo di ossigeno, è necessario per completare un Grande Giro nel ciclismo o comunque per esercitarsi nelle discipline di fondo, un portiere di calcio deve avere il mix perfetto di altezza e riflessi. Eppure, nonostante tutto, certi corpi continuano a suonarci strani, estranei, quasi alieni. Non so se è una cosa che si ripete un po’ in giro per il mondo, ma quando ho iniziato ad avvicinarmi al mondo del calcio statunitense ho sentito molti opinionisti o semplici tifosi affermare di preferire il calcio ad altri sport professionistici americani, in particolare il football e il basket, perché “qualunque corpo può primeggiare, qualunque tipo di essere umano può avere successo”. Potrebbe sembrare una frase come un’altra, ma in realtà dietro la facciata di quelle parole si nasconde l’idea che i corpi degli atleti del football e della pallacanestro — che sono in gran parte, e comunque certamente nelle posizioni e nei ruoli riconosciuti come più “atletici”, neri — siano corpi anormali.

Un’altra frase che ho sentito spesso dire, quando il dibattito su chi sia il GOAT tra Messi e Ronaldo era, essendo entrambi nel loro prime e stelle delle due principali rivali del miglior campionato al mondo, che “Messi è il migliore giocatore, Ronaldo il migliore atleta”, riuscendo per certi versi sia a screditare Ronaldo — in maniera volontaria — che Messi e il calcio stesso — in maniera involontaria — come se l’atletismo fosse una cosa sola, bidimensionale, inserita all’interno di rigidi paletti impossibili da smuovere, e il calcio solo parzialmente uno sport. Non c’è nulla di più lontano dalla realtà di cosa sia l’atletismo e di come possano essere gli atleti, e proprio le Olimpiadi dovrebbero essere l’occasione perfetta per dimostrarlo. Luigi Samele è un atleta tanto quanto Giorgia Bordignon, il cinquantasettenne tiratore kuwaitiano Abdullah Al-Rashidi ha la stessa cittadinanza sul podio olimpico delle tre ragazze premiate lo stesso giorno nello skateboard femminile, le cui età messe insieme totalizzano quarantadue anni. A maggior ragione viste tutte le conseguenze che, come elencato, la nostra concezione di atletismo ha in negativo su un sacco di persone, principalmente donne, in particolare se transgender e/o nere, non possiamo ancora continuare ad avere una visione così limitante di cosa sia un Atleta con la A. Il corpo di Diego Armando Maradona non era meno eccezionale, irripetibile e atleticamente perfetto rispetto a quello di LeBron James. Se si vuole giocare a calcio come giocava Maradona, quello è il corpo perfetto per farlo, l’unico che permette di dribblare con quella velocità senza mai cadere, con quel baricentro così innaturalmente e sconvolgentemente basso. L’argentino era veramente l’uomo vitruviano del calcio, molto più rispetto a calciatori che rispettano più canonicamente lo stereotipo dell’atleta come Zlatan Ibrahimovic o Cristiano Ronaldo. Vi avverto subito. Da qui in poi si parlerà e ci si concentrerà sul calcio, principalmente perché come già accennato sembra essere lo sport che più di tutti ha un rapporto conflittuale con il talento atletico, e perché sembra rappresentare il bastione estremo di una concezione assurda dell’atletismo. Per dire, se io dovessi fare un esempio di calciatore di alto livello le cui prestazioni sembrano dipendere maggiormente dal suo corpo, direi un nome che probabilmente nessun altro appassionato di calcio utilizzerebbe come risposta, ovvero quello di Sergio Busquets. Perché il catalano — che è sì alto, ma è anche ossuto, apparentemente privo di muscoli e sopratutto è lento ma lento per davvero — è sì un giocatore complesso, tutt’altro che banale e che molti — troppi — ritengono scarso, ma è anche un fenomeno che neanche il più coriaceo dei suoi hater definirebbe “poco tecnico”. Dico che è un giocatore che dipende fortemente dal suo corpo perché il suo stile di gioco, il suo essere una lavatrice in grado di pulire palloni in zone cruciali di campo e di liberare con passaggi apparentemente semplici, sarebbe impossibile a giocatori anche solo con dieci centimetri in meno e gambe un po’ più corte. Busquets — o Busi, come è affettuosamente noto in Catalogna — è il giocatore a cui i compagni si rivolgono quando hanno bisogno di mettere ordine nel gioco e opera in parti di campo in cui è critico non perdere il possesso della palla, e c’è un esempio che ci permette di dimostrare quanto sia fondamentale per svolgere quel ruolo il suo atletismo, che è talmente differente dallo stereotipo di atletismo che abbiamo che molti non lo definirebbero neanche tale. Nella semifinale degli Europei tra Spagna e Italia, ai tempi supplementari, Busquets riceve da Marcos Llorente un passaggio che dalla fascia destra si sposta verso il centro. Il pallone è calciato molto forte e tende a rientrare, essendo orientato più verso l’area spagnola che verso quella italiana. Il passaggio è estremamente pericoloso, e perdere il controllo della sfera regalerebbe all’Italia un contropiede in superiorità numerica in una zona avanzata di campo. Così vicini ai rigori non è un errore che ci si possa permettere, ma per controllare quel pallone a Sergio Busquets basta allargare il compasso e come una piovra raccogliere il pallone e stopparlo dolcemente dentro la propria zona di controllo. L’eccezionalità del corpo di Busquets, che unito ad una testa fuori dal comune lo rende il giocatore perfetto per occupare quella determinata zona di campo, è la sola ragione per cui quel pallone non finisce all’Italia. Centrocampisti più bassi che maggiormente associamo all’idea di “dominio fisico”, come ad esempio Nicolò Barella e N’Golo Kanté quel pallone o non potrebbero controllarlo oppure, qualora riuscissero nell’impresa, dovrebbero posizionare il loro corpo completamente spalle alla porta avversaria e con un moto che li spinge verso la propria area, infilandosi in una situazione di possesso estremamente complicata, innaturale e da cui non è detto riuscirebbero ad uscire senza regalare un consistente vantaggio all’avversario. Questa giocata è indicativa di quanto sia fondamentale per un giocatore come Busquets la sua abilità fisica, eppure verrebbe da molti indicata anche come una sintesi della sua eccezionalità tecnica — per la calma olimpica con cui approccia una situazione complicata, per la puntualità del controllo di palla, per il modo in cui si libera dall’avversario. E questo forse ci rivela una cosa, ovvero che tecnica e fisico nel calcio — come in tutti gli sport — sono strettamente collegati, ad un livello più profondo di quanto non si possa credere. Una tendenza già presentata di molti appassionati di calcio, che nasce dal volere almeno teoricamente ribadire la superiorità oggettiva del proprio sport rispetto agli altri per spiegarne la fama mondiale — e che ricorda un po’ quando i francesi dibattevano sul perché la loro fosse la lingua perfetta cercando di comprenderne il successo nelle corti europee — ma che in realtà sembra sminuire la natura stessa di sport della loro disciplina preferita, è quella di affermare la non preponderanza nel calcio dell’atletismo, sottomesso all’arte della tecnica e dell’intelligenza. Ma questo ragionamento poggia su fondamenta tutt’altro che stabili, sul principio scorretto che possa esistere una preponderanza di un aspetto rispetto all’altro. Nello sport la tecnica è dappertutto, anche nelle discipline che vengono viste come l’epitome per eccellenza del talento fisico e dell’atletismo. Prendiamo ad esempio l’atletica, che addirittura da il nome alla figura di chi faccia sport, e prendiamo l’uomo più veloce del mondo, Usain Bolt. Vi potrebbe essere capitato di seguire le avventure da calciatore del giamaicano, e potreste essere rimasti impressionati prima ancora che dalle ciabattate epiche con cui colpiva il pallone — che ci si poteva aspettare — da quanto il detentore dei record mondiali maschili di cento e duecento metri non sembri affatto veloce sull’erba. Anzi. Io direi che è proprio lento. Ma non c’è da rimanere impressionati in negativo. Perché Usain Bolt non è semplicemente l’uomo più veloce del mondo, ma piuttosto l’uomo più veloce del mondo nelle condizioni regolamentate dell’atletica, utilizzando la tecnica dello sprint, che è molto più stringente rispetto ad un banale “prendi e corri”. E potrei continuare all’infinito con gli esempi, ma mi limiterò a farne uno che forse è il più evidente di tutti. Se avete visto una gara di sollevamento pesi a queste Olimpiadi avrete certamente notato quanto regolamentata sia la tecnica, anzi le tecniche, visto che la gara è divisa in due manche in cui le limitazioni imposte ai sollevatori cambiano — e così anche le cifre che sono in grado di sollevare — che devono essere utilizzate per considerare valido il passaggio in pedana. Non si tratta semplicemente di chi solleva il peso più grande, ma chi di riesce a farlo nella maniera che si è deciso essere corretta. Non è solo una questione fisica, ma anche profondamente tecnica, e i due elementi si compenetrano fino ad essere indivisibili. La tecnica arriva solo fin dove la porta l’atletismo, e l’atletismo è rigidamente incanalato nell’arte della tecnica.

Lo stesso principio si applica al calcio come a qualunque altro sport, anche se i calciofili sembrano spesso fare a gara per dimenticarselo, e a dimostrarlo concorre forse lo stereotipo più stupido eppure più comune che si possa trovare nel calcio, ovvero la tendenza da parte di giornalisti e commentatori a definire le caratteristiche dei calciatori neri concentrandosi prevalentemente o unicamente sulla loro velocità, sulla loro forza fisica, sul loro atletismo. Oltre ad inserirsi nella tradizione razzista precedentemente discussa, dimostra anche una clamorosa ignoranza del fondamentale principio dello sport affrontato proprio in chiusura dell’ultimo paragrafo. Chi utilizza questo stereotipo affermerà che è difficile se non impossibile non utilizzare la parola velocità tra le prime per discutere di Kylian Mbappé o Alphonso Davies, ma fallisce anche nel rendersi conto di come la velocità o la forza fisica da sole non possano fare un calciatore. Se sei solo veloce la palla ti rimane indietro, se hai più resistenza e basta ti ritrovi ad inseguirla senza alcun costrutto. Nessuno vorrebbe avere in squadra giocatori del genere. Un giocatore nell’elite mondiale con caratteristiche fisiche eccezionali è arrivato a quel punto solo perché la sua tecnica era altrettanto notevole da permettergli di sfogare correttamente quelle altre sue caratteristiche. Non solo, si potrebbe dire che la tecnica richiesta per controllare certi palloni alle velocità di un Kylian Mbappé sia superiore a quella di giocatori più lenti, proprio perché più crescono le velocità più è complesso tenere quella sfera nel proprio raggio d’azione. Questa è solo una delle misconceptions, forse la più evidente e discussa, tra quelle che abitano il discorso sulla tecnica nel calcio, ma certo non è l’unica. Spesso anche la tecnica stessa, la sua definizione e i suoi contorni sembrano confusi e incerti. Ritorno un attimo a quel passaggio in cui citavo la frase su “Ronaldo è il migliore atleta, Messi il miglior giocatore” che avevo sentito da qualche non meglio precisata parte. Una frase del genere evidentemente implica che Messi non sia un grande atleta, ma perché esattamente non lo sarebbe? Perché ha un corpo che potresti trovare anche su di un ragioniere di Molfetta? A parte che no, i ragionieri di Molfetta non hanno quel baricentro, quell’equilibrio, quelle caviglie snodabili, ma prendendo anche per vera l’asserzione sul ragioniere, allora da dove verrebbe la magia che rende Messi uno dei più grandi se non il più grande calciatore della storia? La risposta è evidentemente “dalla sua tecnica”, ma dove è nascosta quella tecnica dunque? Si trova nascosta nel suo piede, come se alla nascita fosse stato immerso nel fiume Stige all’opposto rispetto ad Achille, con il solo piede sinistro a toccare le acque? Siamo davvero così facilmente impressionabili? Vediamo veramente la tecnica come un qualcosa di separato rispetto al fisico di un atleta, come una pozione magica che grazia solo pochi piedi nella storia dell’umanità? Io credo, e spero, di no. La tecnica, o meglio la capacità di compiere certi gesti tecnici, è una questione che riguarda l’intero corpo dell’atleta, che richiede la coordinazione di tutto il corpo in un gesto fluido e naturale. Avere una grande tecnica vuol dire naturalmente essere un grande atleta, perché la base dell’atletismo è avere il controllo del proprio corpo, la capacità di indirizzarlo a fare cose complesse che agli altri non riescono. Si mette in scena attraverso infinite possibilità, e le discese in dribbling di Lionel Messi con il pallone attaccato al sinistro sono una di quelle dimostrazioni. Ma qui ci siamo limitati semplicemente a discutere della tecnica come la capacità di fare certe cose. Ma la tecnica che è utile, quella che ammiriamo nei grandi campioni di tutti gli sport, non è semplicemente saper fare una cosa, ma scegliere il momento giusto e interpretare ciò che c’è intorno per capire quando è il caso di rischiare qualcosa di più difficile o andare sul sicuro. Ed è solo includendo questo lato che si può arrivare a dare una definizione corretta di cosa sia effettivamente nello sport la tecnica. Prendiamo Football Manager. Non so se ci avete mai giocato e se siate ossessionati dal manageriale come il sottoscritto, ma per chi non sapesse di cosa sto parlando, in Football Manager i giocatori hanno un set di caratteristiche divise in tre macro categorie — abilità tecniche, mentali e fisiche — con un punteggio che va da uno a venti. Apparentemente il gioco ci descrive dunque le tre situazioni fondamentali come separate, come ben distinte tra di loro. Quando però si va a vedere nello specifico, si nota come la situazione sia molto diversa. Per dire, se andate nella pagina sull’allenamento individuale di un vostro giocatore, potrete assegnargli un focus extra su alcuni fondamentali del gioco, come il gioco aereo, il controllo di palla e molte altre opzioni. Quando cliccate su uno di quei focus, vi verranno evidenziati i valori su cui si concentrerà quel particolare allenamento. E quando andate a vedere quali sono i valori evidenziati, ci si rende conto di come abilità tecniche, mentali e fisiche siano assolutamente collegate fra di loro in maniera inestricabile. Un giocatore con un valore alto in finalizzazione, ad esempio, sarà molto bravo a tirare, ma se ha una freddezza bassa si troverà più probabilmente a sbagliare tiri che invece in allenamento segnerebbe, e se ha valori bassi in velocità, posizionamento e tutta una serie di caratteristiche, è improbabile si ritrovi in posizione di sfruttare la propria finalizzazione. Allo stesso tempo, a cosa potrà mai servire un venti in colpi di testa se è accompagnato da un uno in elevazione, o un eccellente passatore senza alcuna visione di gioco e/o fantasia? La tecnica dunque non è un qualcosa di isolato e di indipendente da tutto il resto, ma è, molto semplicemente, allo stadio più elementare possibile, l’unione delle capacità fisiche di un atleta con le sue abilità mentali. L’incrocio tra le due è ciò che ci permette di celebrare la tecnica di un grande sportivo, in qualunque sport si ritrovi ad eccellere, dal momento che questo ragionamento, pur partendo dal calcio, forse il più restio ad accettarlo, si espande allo sport intero. Dunque risulta evidente quanto possa essere arretrata e scorretta la nostra definizione corrente di atletismo, quanto poco si rispecchi nell’incredibile varietà delle caratteristiche richieste agli sportivi di ogni livello e grado, e quanto la preponderanza di questi ragionamenti errati nel calcio, che è indubbiamente lo sport più popolare al mondo, contribuisca a sostenere l’esistenza di questa definizione.

Sarà perché abbiamo smesso di educarci secondo i principi degli antichi greci, per cui l’educazione corporea era tanto importante quanto quella mentale, ma abbiamo un rapporto con i nostri corpi che dire controverso è dire poco. Lo sport è solo una delle migliaia di situazioni in cui questo rapporto arriva ad un punto critico, mostrandosi in tutte le sue stridenti realtà, all’interno della nostra società. Tra tutte, questa è quella che mi risulta più evidente, perché lo sport è più spesso di molte altre cose al centro dei miei pensieri, forse anche in maniera eccessiva, perché almeno teoricamente l’argomento del nostro rapporto come società con i corpi mi riguarderebbe in maniera ancora più strettamente personale: per tutta la mia vita sono stato quello che in termini medici si definirebbe sovrappeso — non vorrei che la scelta del tempo verbale confondesse la situazione, ad oggi che scrivo lo sono ancora — e, per quanto nessuno mi abbia mai apertamente bullizzato, ho subito la mia buona dose settimanale di microaggressioni e di battutine, che tra l’altro hanno sempre avuto su di me l’effetto opposto rispetto a quello inteso. Piuttosto che spingermi a dimagrire, mi hanno sempre incoraggiato ad ingrassare, e anche adesso che, per ragioni tecnicamente slegate dal dato che recita la bilancia mi sono ritrovato a perdere significativamente peso, i “complimenti” che ricevo sul mio eccellente stato di forma sono con ogni probabilità la cosa che più di tutte mi fa dubitare dell’aver intrapreso la strada giusta, pur sapendo perfettamente come la decisione di percorrerla sia arrivata in seguito alla lettura da parte di un medico delle mie analisi del sangue. Ma non voglio parlare troppo di me. Non per pudicizia o perché sia una cosa che mi mette a disagio, ma perché mi porterebbe a virare sul discorso generale di cui questo intero pezzo esplora un minuscolo particolare nell’infinità sala di specchi con cui influenza la nostra società. Immagino che quello che sto cercando di dire è che in una società che evidentemente ha un rapporto conflittuale con i corpi delle persone, con certi corpi, e che cerca di legiferare o di intervenire socialmente su certi aspetti delle nostre fisicità, è irrealistico immaginare che lo sport, uno dei nostri passatempi preferiti e che per di più si presenta in tutta la sua splendida moltitudine di fisicità attraverso tutte le sue discipline, rimanga escluso da certe attitudini della nostra società, anche magari in passaggi che sembrano avere poco a che fare con l’argomento — e da qui il lungo ragionamento sulla tecnica di cui sopra. E forse è proprio lo sport che più di ogni altro ambito della società ci offre una scappatoia da questi stereotipi, un ideale di reazione a questa cultura deprimente, e questo ideale non è mai così ben visibile a ciascuno di noi che durante le due settimane olimpiche. Anche se i Giochi non sarebbero dovuti essere questi nella visione retrograda e sessista del barone De Coubertin, non possiamo non ringraziarlo per aver dato forma a un evento che, con il lento progresso della società, ha permesso a chiunque, anche a chi inizialmente escluso dai Giochi, di competere ad armi pari per lo stesso traguardo, rendendo la definizione di “olimpionico” con ogni probabilità quella più totale, più inclusiva e capace di accomunare quante più persone possibili dopo quella di “essere umano”. E pur con tutte le problematiche anche etiche che il continuato svolgimento delle Olimpiadi con questa modalità si porta dietro, pur con tutte le polemiche ributtanti che si possono leggere ogni quattro anni, se esiste nella nostra società una blueprint che ci possa permettere di rigettare certe imposizioni dall’alto, di smascherare certe ideologie, quella viene proprio da un collage gigantesco di tutti i podi di una singola edizione dei Giochi, e dall’incredibile e irripetibile biodiversità che lo caratterizza.

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The Sad Stork

blog di musica e cultura pop | “but we’re the greatest, they’ll hang us in the louvre, down the back, but who cares, still the louvre”