Il plagio è una truffa

The Sad Stork
10 min readJun 8, 2021

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Michael Jackson in tribunale a Roma, quella volta che Al Bano lo accusò di plagio

Ok. Magari non è proprio proprio così. Non c’è bisogno di entrare così a gamba tesa nella vicenda. Bisogna dirlo, questo titolo è fondamentalmente un viscido tentativo di fare mero clickbaiting, la questione è con ogni probabilità un pochino più complessa di quanto si possa percepire da un titolo così tranchant. Allora, mettiamola così. Certamente esistono situazioni in cui il plagio avviene, ed esistono sicuramente casi in cui quelle che risultano essere un poco più che semplici e banali “influenze” non vengono citate a dovere con tutte le conseguenze anche di tipo economico che possono esserci, ma il punto è che il nostro discorso sulle questioni di plagio è profondamente sbagliato e sopratutto è fallibile e cadente fin dal punto di partenza dei nostri ragionamenti, e che dunque il 97% delle volte che ci ritroviamo a parlare di potenziali furti a livello musicale non solo nei nostri circoletti privati ma anche ad esempio sui media o in risposta ad articoli pubblicati dai media stiamo dicendo una marea di scemenze. E questo non sarebbe realmente un problema — o sarebbe solo parzialmente un problema di cui occuparsi con neanche troppa urgenza date le scarse implicazioni che potrebbe avere sull’effettivo mercato musicale contemporaneo — se non fosse che queste discussioni hanno reali implicazioni sulle carriere degli artisti coinvolti, possono portare più spesso che no a discussioni di fronte ad un tribunale che non sono esattamente una passeggiata per nessuna delle persone coinvolte, e che più di una volta, cosa che non dovrebbe sorprendere visto che sono giudicate da persone che avrannò sì molta competenza in materia di giurisprudenza ma assolutamente nessuna a livello di teoria musicale, si concludono con decisioni al limite dell’inspiegabile. Per dire: nel 2017 i Radiohead hanno raggiunto un accordo privato con Lana Del Rey dopo che la cantante americana avrebbe plagiato “Creep”, il primo grande successo della band di Oxford, nella sua “Get Free”. Peccato solo che gli stessi Radiohead furono costretti da una corte a dare una parte delle royalties proprio di “Creep” a Albert Hammond e Mike Hazlewood nell’ormai sempre più lontano 1993. E siccome nessun artista può pretendere di avere il controllo su una certa successione di accordi e non è che tutte le note o tutte le combinazioni di note stiano bene su tutti gli accordi, chissà quanti altri brani con quegli stessi accordi presentano una melodia quantomeno simile a quella delle tre canzoni — ad esempio la strofa di “Fai Rumore” di Diodato, che presenta gli stessi esatti accordi ma in una chiave diversa e una melodia quantomeno accomunabile — esistono oggi nel mondo, o sono esistiti prima che arrivasse la tecnologia adatta per consegnarli alla posterità. Il caso più evidente di quanto assurde possano diventare queste cause legali resterà senza ombra di dubbio quello riguardante “Bitter Sweet Symphony” dei Verve, causa durata oltre vent’anni che ha fortemente contribuito, tra le altre cose, anche allo scioglimento della band stessa. Una causa nata solo per mano dello storico manager degli Stones Allen Klein, all’insaputa proprio dei suddetti Stones, e che per oltre vent’anni ha privato di ogni singolo centesimo guadagnato dalla band in quella che è la più grande e forse unica hit a quel livello della loro carriera dal momento che gli inconfondibili violini che accompagnano il brano siano stati ispirati da un arrangiamento orchestrale che Andrew Oldham e David Whittaker realizzarono — senza consulenza alcuna da parte dei Rolling Stone stessi — della loro “The Last Time”. La questione sarebbe poi stata risolta solamente nel 2017 quando Keith Richards e Mick Jagger, autori del brano originale, cedettero tutte le loro royalties al frontman e principale autore dei Verve Richard Ashcroft e agli altri componenti della fu band in maniera extra-giudiziaria, in quello che è stato definito dallo stesso Ashcroft “un atto di enorme magnanimità”.

Dobbiamo iniziare a fare i conti con noi stessi e renderci conto che sì, come società abbiamo un problema con ciò che è “plagio”, con ciò che definiamo “originalità”, e in generale con alcuni principi delle sette note da cui non possiamo veramente scappare, e magari iniziare a trattare tutte o quantomeno la gran parte delle accuse di plagio con la stessa ironia con cui trattiamo quella volta che Al Bano denunciò per plagio Michael Jackson o quella molto più recente in cui una band dei Paesi Bassi ha ritenuto legittimo sostenere che i Maneskin li avessero copiati nella loro “Zitti E Buoni”, perché anche quelle meno evidentemente pacchiane e che in cui la potenziale “ispirazione” sembra una situazione più realisticamente immaginabile sono, di fatto, per la gran parte, fuffa, al di là di quello che un tribunale potrebbe affermare. Perché prima ancora che in una corte di un tribunale questo è un problema che nasce nella corte della pubblica opinione, che funziona attraverso leggi molto meno chiare e strutturate rispetto a quelle che la giurisprudenza ritiene necessarie. Non ci sarebbero tutte queste denunce di plagio più o meno ragionevoli se non esistesse la possibilità di raccogliere facilmente un giro di applausi all’interno del discorso pubblico, di trovarsi non solo pubblicità gratuita — buona per quelli che “there’s no such thing as bad publicity” — ma anche quel tipo di pubblicità che ti fa apparire sotto una buona luce, specialmente se, come in molti casi di questo tipo, si trova da una parte un piccolo o medio artista magari indipendente magari di cui non ha mai sentito parlare nessuno e dall’altra parte una gigantesca popstar. Non è un caso che stando alla pagina Wikipedia sulle canzoni oggetto di procedimenti per plagio non solo il numero di brani coinvolti continui ad aumentare con il passare degli anni, ma anche e sopratutto che la quantità di denaro passata da una mano all’altra al termine del procedimento legale continui a crescere, fino ad arrivare alla forse inarrivabile vetta — almeno per le multe di cui conosciamo l’ammontare — stabilita dai cinque milioni di dollari che Robin Thicke e gli altri autori di “Blurred Lines” hanno dovuto versare alla Marvin Gaye Estate. Ma non sembra essere solo questa la ragione che possa spiegare un così consistente aumento di interesse sulla questione plagio nel corso degli ultimi decenni. Evidentemente la globalizzazione, la nascita di internet e dei servizi di streaming hanno giocato un ruolo cruciale. Non è immaginabile che si ripeta quello che succedeva cinquanta o sessanta anni fa, quando i Beatles potevano permettersi di fare cover di successi giganteschi del blues americano — riportando i necessari crediti agli autori originali, ovviamente — e di tirarne fuori hit per il mercato britannico che suonassero all’orecchio del pubblico d’oltremanica come brani originali, semplicemente perché le versioni originali non erano migrati — come quasi nessun prodotto culturale — da una parte all’altra dell’oceano. C’è poi un altro elemento che dovremmo inserire nella discussione e che, pur non necessariamente riguardando la maggior parte delle canzoni accusate di plagio, portando la questione forse addirittura su un piano legale completamente diverso, sembra avere un’enorme influenza nella nostra ossessione per l’originalità, per la continua attenzione che regaliamo a qualunque scappato di casa ritenga di essere stato plagiato.

Stiamo parlando del sampling. Sarà perché una consistente parte della popolazione ancora non si è adattata alla possibilità che possa esistere un oggetto che ti permette di registrare una parte musicale proveniente da un altro brano e di usarla integralmente, così, senza modifiche di alcun tipo, nelle tue opere — in fin dei conti il primo campionatore riconoscibile come tale, il Fairlight CMI, non è stato messo in commercio prima degli anni ’80 — o perché un’altrettanto consistente parte non sembra in grado di accettare che creazioni realizzate mediante l’utilizzo di questi oggetti possano essere tanto degne di valore artistico quanto quelle di chi ha originariamente registrato la composizione con strumenti “veri” — le virgolette sono per citare qualcosa che potrebbe realisticamente uscire dalla bocca di queste persone — o che siano legalmente riconosciute come “non plagio” quando il sampling viene opportunamente etichettato come tale — non provate a fare come Vanilla Ice, mi raccomando — ma per l’una o per l’altra ragione l’esplosione del sampling ha contribuito a far passare il messaggio che l’originalità stia scomparendo, che ormai non esista nulla di nuovo e che sia tutto una copia di quello che è venuto prima. E questa non sarebbe neanche una cosa così preoccupante se non fosse che l’idea ha trovato terreno fertile per crescere anche in chi non è mai vissuto in un mondo senza sampling. O meglio, senza campionatori, perché ufficiosamente il sampling è meccanismo tanto vecchio quanto lo è la cetra o la poesia epica. Non sembra esserci in effetti alcuna differenza sostanziale, giusto per fare un esempio da una parte e dall’altra, tra quando i Led Zeppelin modificavano leggermente partizioni di Bach per realizzare il riff in apertura di “Stairway To Heaven” e quando Kanye prese “Harder Better Faster Stronger” dei Daft Punk riuscendo, pur senza toccare particolarmente il sample e/o farci nulla di stravagante, a trasformarla in una canzone completamente diversa e imparagonabile con l’originale. Insomma, lo so perfettamente che se state leggendo questo articolo, con ogni probabilità quello che sto per scrivere è un principio che avete già fatto vostro, ma l’opposizione a priori al sampling si conferma ancora una volta non solo stupida, ma fondamentalmente pigra. Ovviamente, non devo essere io a venirvi a dire delle potenziali implicazioni che l’assunto “sampling=copia”, quando portato avanti da ampie fazioni del pubblico generalista o proprio dall’establishment dell’industria musicale — i Grammys hanno permesso la presenza di sample in canzoni candidate per Song of the Year solo nel 2014 e manifestazioni come Sanremo e l’Eurovision ancora oggi non accettano l’idea che un sample possa essere parte della “creazione originale” necessaria per partecipare alle competizioni — può avere nel momento in cui il fenomeno in questione è quello che ha permesso ad un genere praticato per la maggior parte da persone nere e provenienti dai contesti più poveri e svantaggiati delle metropoli — almeno nella prima parte — statunitensi. Al di là di questo lato della questione, comunque — in fin dei conti si potrebbe sostenere, ragionevolmente, l’opinione che anche il sampling abbia implicazioni tutt’altro che prive di sfumature razziste, vedi la questione legata al cosiddetto Amen Break o il continuo sfruttamento, nell’Eurodance anni ’90, di prestazioni vocali registrate da artiste nere sempre e puntualmente senza alcun credit, e quindi nessun dollaro di compensazione, per le vocalist in questione — viene difficile non notare come l’arrivo del sampling abbia profondamente la nostra ossessione come società per la ricerca del plagio, e nessuna situazione sembra dimostrarlo con più chiarezza di un’altra delle cause più note dell’industria musicale dei tempi recenti, quella legata a Katy Perry. Recentemente infatti un giudice ha rivoltato la sentenza che inizialmente aveva costretto l’artista e la sua casa discografica a versare due milioni e ottocentomila dollari al rapper cristiano Flame per il plagio di “Joyful Noise” che sarebbe contenuto all’interno di “Dark Horse”. Il giudizio ha posto fine ad una questione abbastanza assurda nella storia legale delle accuse per plagio. Come sottolineato da più o meno tutta l’industria musicale, tutti gli addetti ai lavori e anche da esperti come Adam Neely e Rick Beato la causa è assolutamente imbarazzante, ridicola e senza alcuna particolare ragione di esistere. Le due canzoni non condividono la stessa melodia, non condividono gli stessi accordi e non condividono la stessa strumentazione. Eppure, almeno in una prima fase, una giuria di nove cittadini aveva ritenuto che l’una fosse il plagio dell’altra, e un giudice aveva ritenuto opportuno far staccare uno degli assegni più cospicui per cause del genere di cui conosciamo il risultato. La ragione? Il fatto che entrambe le canzoni si basassero molto sulla presenza di due linee di synth con ben più di una similitudine fra loro. Di fatto una cosa che non si può in nessun caso qualificare come un plagio — la thumbnail del video di Neely lo spiega semplicemente: “non puoi appropriarti di tutta la scala minore!” — e che al massimo si può configurare come un sample. Poi non è neanche di un sample di cui parliamo, perché pur essendo molto simili i due synth non suonano esattamente le stesse note, ma anche lo fosse la cosa non resta meno grave e meno assurda: una sentenza uscita da un tribunale avrebbe ufficialmente riconosciuto un sample come un plagio, e se l’appello non fosse intervenuto a porre una pietra sopra quella che sarebbe stata una Waterloo per la musica — buona fortuna nel realizzare composizioni originali se avere cinque note simili su otto in una sezione del tuo brano ad una qualunque delle canzoni mai registrate nella storia della musica comporta la perdita di tutti, o di molti dei tuoi guadagni — ci troveremmo di fronte ad un precedente stabilito su cui fare riferimento per altri giudizi di questo genere, con tutto quello che ne potrebbe conseguire.

Quella con cui ho aperto questo pezzo era chiaramente un’iperbole. Ci sono situazioni in cui il plagio c’è, è evidente e va segnalato, così come ci sono situazioni in cui un sampling non viene dichiarato correttamente, e anche lì ovviamente bisogna intervenire in maniera puntuale, per correggere ciò che c’è di sbagliato. Non sto chiedendo di inaugurare una sorte di notte del giudizio musicale, un periodo ristretto in cui chiunque può rilasciare qualsiasi canzone voglia copiando chiunque gli pare e piaccia senza che possa essere punito per lo sfruttamento di altrui creatività che commette. Però sto invitando a prestare un minimo di attenzione sull’argomento, a non farci inglobare dai rigurgiti di boomerismo che portano con sé una definizione di originalità e creatività che non può realisticamente essere sostenuta nei tempi completamente differenti in cui ci troviamo. Quella visione del mondo e della musica non è solo limitante, è anche a tutti gli effetti gatekeeping bello e buono. Non tutti i mashup che si vedono su YouTube in cui sembra si possa magicamente apporre la linea melodica di un brano sull’arrangiamento di un altro senza particolari contrasti stonati sono plagi. E non importa quanti commenti ci possano essere sotto al suddetto video a sostenere il contrario. Insomma, il plagio non sarà necessariamente sempre e comunque una truffa, ma chi grida al plagio con costanza, un po’ come fosse il ragazzino bugiardo che minaccia l’arrivo di un lupo fino a non essere più creduto quando poi il lupo arriva veramente, è spesso, se non sempre, un truffatore.

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