L’astronave Baby Keem è atterrata tra noi

The Sad Stork
9 min readOct 19, 2021

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Quasi dal nulla e senza praticamente voci che ne anticipassero la composizione la NFL ha annunciato che l’Halftime Show del SuperBowl LVI in quel di Inglewood, California, nel nuovissimo SoFi Stadium vedrà protagonisti Dr. Dre, Mary J. Blige, Snoop Dogg, Eminem e Kendrick Lamar, messi in ordine sulla base della data d’inizio della loro carriera. Si tratta di una notizia innanzitutto sorprendente, perché sembra immediatamente smentire tutti quei discorsi su quale sia il pubblico del SuperBowl e dunque su quale sia il tipo di artisti che ci si può permettere di portare su quel palco. Non ho in mano dati che me lo confermino, ma metterei la mano sul fuoco quando dico che questo sarà senza dubbio l’halftime show con più parole da censurare per il pubblico televisivo, e rappresenta un cambio di passo — qualcuno dice per arruffianarsi coloro che non vedono proprio di buon occhio la lega dopo aver visto il trattamento a cui è stato costretto Colin Kaepernick — per uno show che tra il 2005 e il 2010 ebbe come protagonisti, nell’ordine, Paul McCartney, Rolling Stones, Prince, Tom Petty and the Heartbreakers, Bruce Springsteen and the E Street Band e gli Who. Se siete fan di uno o più di questi artisti, la notizia potrebbe esaltarvi non solo per lo spettacolo in se, ma anche perché potrebbe anticipare nuova musica. Non è una scienza esatta, sia chiaro, uno non va al SuperBowl solo perché ha una nuova era da lanciare, magari potrebbe andare lì solo per chiuderla — vedi The Weeknd lo scorso anno — non stiamo parlando di una partecipazione ad una serie di festival estivi, che sarebbe difficile da sostenere senza nuovo materiale da presentare, ma pare evidente come questo annuncio vada ad inserirsi in una lunga scia di indizi che sembrano portare direttamente ad un nuovo potenziale disco di Kendrick Lamar. Il silenzio del rapper di Compton dura ormai dalla colonna sonora di Black Panther del 2018, e sopratutto risulta essere tale anche nella quasi totale assenza di featuring e partecipazioni degli ultimi anni.

Non era mai passato così tanto tempo tra un disco e l’altro di Kendrick Lamar come tra “DAMN.” e il suo successore. Anche se non è l’unico grande artista che ci fa soffrire con un lungo hiatus — Lorde si è risvegliata recentemente, ma di fatto stiamo aspettando notizie sul nuovo disco di Frank Ocean dai tempi di “blond”, e neanche i singoletti rilasciati pre-Coachella-che-non-è-mai-esistito hanno mai indicato la via di un nuovo lavoro — inizia a farsi sempre più pesante l’assenza della sua voce. Se c’è qualcosa che può rassicurare comunque è che di recente è tornato a fare un feat, anzi due, e lo ha fatto in un grande disco, che per di più rappresenta anche l’esordio del secondo membro della famiglia Duckworth nell’industria discografica, ovvero “The Melodic Blue” di Baby Keem. “family ties” vede Keem protagonista con un rant che sembra ricordare certe parti dei Brockhampton, presenta non uno ma ben due switch, uno dei quali propedeutico esclusivamente all’ingresso del secondo, che vede protagonista proprio il nostro Kendrick, che alterna toni di voce come spesso aveva fatto in “DAMN.”. “range brothers” è invece un brano che non potete ascoltare col bluetooth nella vostra macchina, visto che il basso sarebbe probabilmente in grado di spaccarne i vetri. Nella prima parte, da singolone, Baby Keem fa uso anche del falsetto stridulo che ricorda Playboi Carti. Un suo punto forte, oltre alla partecipazione del cugino Kendrick, è anche il fatto che i due beat che apparentemente sembrano abitare zone diverse del primo minuto del brano, si uniscono poi nel resto della traccia, a dimostrare la versatilità del rapper classe 2000, che è produttore di tutte le tracce del disco, peraltro uscito per pgLang, la casa discografica fondata da Kendrick Lamar stesso lo scorso anno. Ok, questo peso ce lo siamo tolti dalle spalle. Da qui in poi non sentirete più parlare di Kendrick Lamar in relazione a questo disco. D’ora in avanti l’unico e indiscusso protagonista, come è giusto che sia, sarà Baby Keem. Perché va bene che introdurre “The Melodic Blue” dicendo “è arrivato il disco del cugino di Kendrick Lamar” fa molto più rumore e casino di quanto non lo farebbe evitando di espletare questa coincidenza, ma è anche vero che le cose non dovrebbero andare così e non è giusto funzionino in questa maniera. Quindi concentriamoci su Baby Keem e sul suo disco d’esordio.

Nato Hykeem Jamal Carter Jr. a Carson, ventuno chilometri a sud di Los Angeles, il ventidue ottobre 2000, Baby Keem è un rapper e producer arrivato alla fama con uno dei suoi primissimi singoli, intitolato “Orange Soda” e non presente nel suo disco d’esordio. Singolo firmato in collaborazione con il producer Keanu Beats e il rapper Rich The Kid, è contenuto all’interno del secondo, e per ora ultimo, mixtape dell’artista californiano, intitolato “Die For My B*tch”, uscito per la Sony e per la sua subsidiaria The Orchard. Ma prima ancora del singolo che lo ha reso noto al mainstream, il pubblico che legge con attenzione anche le note contenute all’interno di un disco o le pagine wikipedia degli album poteva aver familiarizzato con il suo nome per le prime volte con i credit da produttore all’interno della soundtrack di Black Panther, con produttore esecutivo proprio il cugino Kendrick, e negli album di Jay Rock — “Redemption” — e Schoolboy Q — “Crash Talk”. Tra gli altri feature che hanno intervallato l’epoca dei mixtape — già la seconda nella carriera di Baby Keem, che aveva rilasciato negli anni precedenti una serie di EP autopubblicati — e l’arrivo di “The Melodic Blue” si può notare una presenza — non accreditata, come tutte quelle presenti in questo disco — all’interno di “Donda” di Kanye West, nella canzone “Praise God” insieme all’altro rapper ex casa Kardashian-Jenner, Travis Scott, che come vedremo è un collaboratore assiduo del giovane Hykeem Carter. Poi, lo scorso dieci settembre, è arrivato, come abbiamo già detto, “The Melodic Blue”, l’esordio sulla lunga distanza del classe 2000, capace di atterrare al primo tentativo al numero cinque della Billboard 200.

Fin dal primo istante, il disco ti da l’impressione di non essere necessariamente un lavoro pensato per questo pianeta, o almeno per essere ascoltato con davanti agli occhi i banali paesaggi terrestri. La produzione sembra nutrirsi del vuoto, dell’oscurità priva di luce. “The Melodic Blue” sembra il disco perfetto per inserirci una citazione presa direttamente da un episodio di Rick And Morty, anche più del “Life Support” di Madison Beer che pure contiene effettivamente un sampling dello show creato da Dan Harmon e che alla serie stessa deve molta ispirazione. Qui però la citazione non c’è, ma in compenso, a partire dall’opening track “trademark usa” abbiamo momenti che sembrano filtrati attraverso interferenze con una traccia radio aliena. Il primo suono che sentiamo assomiglia ad una versione psichedelica della colonna sonora di “Spongebob” — curiosamente un tratto in comune con la traccia di chiusura proprio di “Life Support” — mentre al primo switch del beat — preparatevi, ce ne sono un casino — entra in scena una singola nota ripetuta all’infinito che assomiglia più ad un fischio nelle orecchie di un astronauta più che ad un qualcosa che si possa effettivamente tirare fuori in uno studio di registrazione. A metà canzone, dopo un interludio a base di vocoder e riverbero quasi da organo di una gigantesca cattedrale vuota, si ha il primo featuring — non accreditato — del disco, con nientemeno che Rosalia che presta la voce ad una sorta di coda che raccoglie un gran numero di similitudini con quella di “bad guy” di Billie Eilish, praticamente tutto tranne forse i suoni utilizzati per costruirla. Identica è la cadenza con cui canta Rosalia, identico è il momento in cui cade praticamente ciascuna parte del beat, identica, come detto, la posizione all’interno del brano, anche se “trademark usa” è un po’ più movimentato nel suo finale con un ultimo verso da parte del rapper californiano. “pink panties” vede Baby Keem sperimentare con uno stile di produzione reso celebre da Timbaland circa una ventina d’anni fa — e in effetti il ritornello del pezzo ricorda per melodie e armonie alcune hit crunk, o comunque provenienti dal Sud statunitense dei primi anni duemila — ovvero presentare prima separatamente i due elementi che comporranno gran parte del beat in una maniera per cui il loro primo contrasto li faccia sembrare antitetici, per poi unirli subito dopo. Al già citato ritornello da blockbuster anni 00 si vanno infatti ad unire dei synth che sembrano usciti dall’intro di un pezzo di “The Slow Rush” di Tame Impala. “issues” è a tutti gli effetti un brano di musica elettronica piuttosto che un pezzo hip hop, che nella prima parte potrebbe appartenere ad un disco dei Bicep e che poi nella seconda introduce delle percussioni che per produzione e ritmo ricordano quelle di “Run Boy Run” di Woodkid, tutto questo mentre Baby Keem fa il crooner su una melodia che tranquillamente potrebbe essere un mega successo — e che sembra omaggiare “Goosebumps” di Travis Scott.

“gorgeous” presenta un significativo namedrop a Tame Impala — a confermare l’influenza di cui sopra — ma ancora prima rende omaggio a “808’s and Heartbreak” di Kanye West, sia nella produzione sparsa e minimale con un loop di pianoforte che potrebbe quasi essere un sample di James Blake — sia chiaro, non lo è, ma non è difficile immaginare l’artista inglese uscire fuori con una melodia del genere — ma anche nelle neanche troppo sottili citazioni inserite nel ritornello del brano, che fa riferimento sia a “Gorgeous” che a “Heartless”, facenti parte del catalogo del rapper e producer di Chicago. “lost souls” è uno slow build in cui il beat si costruisce intorno ad un loop che potrebbe tranquillamente venire da uno dei LiveLoop Chill/Lo-Fi di GarageBand, fondamenta su cui possono trovare solida casa un ormai classico basso 808 — potenzialmente IL suono di questa epoca anche più degli hi-hat trap — e un’alternanza di hi-hat tra quelli già citati capaci del dono d’ubiquità e alcuni un po’ più vintage che suonano come lo scoppio di una lampadina. Questo ovviamente prima di uno switch che ci regala una coda completamente diversa. “cocoa”, se escludiamo il primo con Kendrick Lamar, presenta il primo featuring accreditato del disco, quello di Don Tolliver, ed è un brano che ricorda alcune produzioni dei Take A Daytrip, dal riff appiccicoso che non potrete non canticchiare ininterrottamente per un paio di giorni, dalla presenza di alcuni elementi più vintage — come quel paio di colpi di percussione che sembrano quasi avere un double track con un qualche strumento a fiato da grande banda, per intenderci quelli che si sentono in “Industry Baby”. Non ho le conoscenze avanzate abbastanza per sapere se ci sia un utilizzo del modo lidio come spesso si sente nei lavori del duo newyorchese, ma non mi sentirei di escluderlo in anticipo. “scars” ti porta a chiederti se qualche concertista abbia deciso di effettuare una cover solo per piano di “WHATS POPPIN”, ma, oltre ad avere uno dei migliori ritornelli del disco, vede anche il ritorno delle già citate percussioni da banda liceale in una desolata pianura di zombie che ricordano Woodkid. “durag activity” ci porta nel mondo di colui che in questo pezzo sarebbe featuring, ovvero Travis Scott, con quell’atmosfera praticamente permanente da chopped and screwed. In “first order of business”, se alzate adeguatamente il volume delle vostre cuffie, potreste anche essere in grado di sentire quella simil colonna sonora da videogioco in 8-bit che compone la parte melodica del beat. La closing track “16” rappresenta un approccio psichedelico, minimalista e stravagante al revival anni ’80 che sta riempiendo il pop mainstream di questi anni ed è forse la più grande speranza che Baby Keem potrebbe avere per un successo radiofonico, con quel ritornello un po’ emo che ricorda 24kGoldn.

In conclusione, “The Melodic Blue” è un debutto estremamente solido. Chi ha prestato attenzione ai primi vagiti della carriera di Baby Keem in questi anni forse era già arrivato a rendersene conto, ma nel caso si sia saliti sul bandwagon in ritardo non si può negare come questo disco d’esordio ci presenti un artista che sembra destinato a rimanere con noi per molto tempo. Tutti gli altri confronti sono inutili e anche eccessivi, incluso e sopratutto quello con il suo più celebre cugino. Tra i due c’è una generazione di differenza, una storia artistica molto diversa, degli inizi completamente imparagonabili, per non parlare di quelle che al momento sono tendenze musicali che vanno in direzioni molto diverse. Quando nelle interviste Hykeem Carter afferma di avere come principale ispirazione Kid Cudi, non sta semplicemente sviando le attenzioni, ma sta di fatto affermando una dichiarazione programmatica molto chiara, espressa anche nelle scelte stilistiche del suo primo lavoro. Il suo percorso è unico e irripetibile, e se si vorrà essere interessati alla sua musica non lo si potrà fare per vie traverse, con secondi fini, non si potrà essere interessati all’ombra dal cui cono è fuoriuscito. Questa è la storia di Hykeem Jamaal Carter Jr, e siamo solo all’inizio.

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