Posso esimermi dal parlare di “drivers license”?

The Sad Stork
17 min readMar 26, 2021

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No. La verità è che non posso farlo. Lo hanno fatto tutti ormai, e io sono clamorosamente in ritardo sull’argomento. Dunque, è improbabile che da questo file Word possa veramente uscire fuori qualcosa di interessante, di non detto, di sorprendente, di curioso. Sopratutto perché in queste settimane ho consumato un bel po’ di contenuti sull’argomento, e quindi non solo è difficile che io possa arrivare indipendentemente a conclusioni non pubblicate da qualche altra parte, ma è anche difficile che io riesca a ragionare sul primo grande fenomeno culturale del 2021 senza subire, inconsciamente o meno, l’influsso di ciò che ho sentito/letto. Tra le tante cose, ho visto il sempre fondamentale Diary of a Song del new York Times e ascoltato le puntate che hanno dedicato al singolo d’esordio della diciassettenne popstar tanto Switched On Pop quanto il Popcast sempre del NYT. Molto lentamente e con i miei tempi mi sono sempre più avvicinato a questo gigantesco successo che sta stracciando record su record venendo, esattamente come pare chiunque altro in questo mondo, trascinato, anzi piuttosto risucchiato, all’interno del vortice emozionale che è questa canzone. Si tratta, in effetti, di una di quelle canzoni irresistibili, di una di quelle hit che ti costringono a prestare attenzione e verso cui la neutralità è spesso opzione non disponibile. La differenza in questo caso è che di solito parliamo di canzoni movimentate, quelle dal ritmo scandito da colpi di martello più che da batterie, quelle che o ti fanno, senza mezzi termini, muovere il culo, o ti ritrovi a viverle come il prigioniero di guerra torturato con la sigla di Barney come ne “L’uomo che fissa le capre”, film — mi verrebbe da dire dimenticabile, ma avevo letteralmente dieci anni quando l’ho visto e non saprei darvi alcun giudizio di merito se non che quella scena mi ha provocato più di una notte insonne — del 2009 con George Clooney, Ewan McGregor e Jeff Bridges tra gli altri. Stiamo parlando di canzoni come “Call Me Maybe” di Carly Rae Jepsen — ovviamente, inevitabilmente e definitivamente una bop — e “Thrift Shop” di Macklemore e Ryan Lewis — fate che al posto di questo inciso c’è la gif di Phoebe Waller-Bridge che rompe la quarta parete con una faccia mezza sconvolta in Fleabag — canzoni che si differenziano insomma da “drivers license” per un particolare quanto oggettivo criterio: che non sono ballad. Ma prima di lanciarci in considerazioni di vario genere su “drivers license”, sul suo successo, sul suo impatto culturale e sui sussurrii che la sua pubblicazione ha provocato, andiamo a chiarire un punto che, mi rendo conto, potrebbe essere non scontato per tutti, e che certo non lo era per me all’inizio di questo 2021: chi diavolo è esattamente Olivia Rodrigo?

Olivia Rodrigo nasce nel 2003 a Temecula, in California, di origine filippina da parte di padre, e fin da giovanissima incomincia a cantare — su YouTube si può trovare un video di una Olivia Rodrigo settenne che canta “Don’t Stop Believin’” — e a recitare — nel 2015 è protagonista, al suo esordio cinematografico, di “An American Girl: Grace Stirs U Success”, in cui interpreta una ragazza che… cucina dolci? Perdonatemi lo scetticismo — ottenendo il suo primo grande ruolo nella serie di Disney Channel “Bizaardvark”, sul cui set impara a suonare la chitarra e si ritrova a lavorare con l’ormai pugile professionista [sic] e vincitore nel duello sul ring con Nate Robinson [ancora più sic] Jake Paul. Pur essendo un buon successo, la serie si rivela essere solo un antipasto di qualcosa più grande, tanto che a partire dal 2019 è tra i protagonisti — siamo sinceri, la protagonista — di “High School Musical: Il Musical: La serie”, in cui interpreta una ragazza, Nini Salazar-Roberts, a cui viene assegnato il ruolo di Gabriella all’interno della produzione del proprio liceo di “High School Musical” — lo so, è più meta di un episodio di “Community”, ma tant’è — e in cui ha modo di mettere in mostra per la prima volta ad un pubblico più ampio di quello — sempre in continua crescita comunque — del proprio canale YouTube e del proprio profilo Instagram le proprie capacità di cantautrice. Scrive infatti per la colonna sonora della prima stagione della serie — la seconda è in questo momento in produzione, tant’è che la stessa Rodrigo ha vissuto il successo di “drivers license” da un appartamento nello Utah dove si trova il set della serie Disney — due brani, uno dei quali, “All I Want”, si rivela essere senza troppi problemi la canzone di maggior successo della soundtrack. Questo successo — disco di platino in Canada e d’oro in Stati Uniti e Norvegia — spinge la Geffen Records — che tecnicamente è ancora la casa che produsse i vari Elton John, Madonna, Nirvana e Aerosmith, ma che di fatto non è altro che una sussidiaria della Universal — a firmarla al suo primo contratto discografico, facendola iniziare a lavorare con il produttore Dan Nigro — frontman della band indie rock As Tall As Lions, passato nella cabina di regia arrivando nell’ultimo decennio a collaborare con artisti come Kylie Minogue, Carly Rae Jepsen, FINNEAS, Lewis Capaldi e Caroline Polachek — in vista del suo primo singolo.

Quel singolo è, come abbiamo ormai capito, “drivers license”, una canzone che nei suoi primi otto giorni ha battuto i record di streaming in una singola giornata per una canzone non natalizia — definizione che è riassumibile come “il lodo Mariah Carey” — ed è arrivata al primo posto delle classifiche sia americane che britanniche — di tutto il mondo a dir la verità, ma limitiamoci a questi due pesi massimi per il momento — battendo il record di precocità per un’artista donna stabilito nei due paesi rispettivamente da Billie Eilish con “bad guy” e da Lorde con “Royals”, diventando poi la canzone più veloce di sempre a raggiungere quota cento milioni di stream, al suddetto traguardo dell’ottavo giorno. E nel nono giorno si ripos…. no, non esattamente. “drivers license” è ancora al numero uno più o meno dappertutto, continua a battere record, e in un periodo storicamente sonnacchioso per l’industria musicale è diventata senza dubbio il fenomeno culturale più rilevante di questo inizio di 2021. Perché? Ok, la questione è complessa e comprende una serie di elementi che spaziano dal fatto che sia, a tutti gli effetti, una canzone fantascientifica, uno di quei brani che fa pensare al camp di un* artist* non *se* avrà successo, ma piuttosto *quanto* ne avrà, a questioni certo non altrettanto affascinanti di gossip, dagli ormai ultra-analizzati metodi di consumo culturale della Gen Z — indizio: ascoltate due secondi le lancette del vostro orologio — alle influenze evidentissime tanto nel songwriting quanto nella produzione del brano. Partiamo da un punto: “drivers license” è una canzone triste. Che vuole farti sgorgare le lacrime. Una power ballad classica — neanche troppo, ma questa è una questione che affronteremo dopo — che racconta della fine di una relazione e degli apparentemente innocui avvenimenti che di fatto funzionano come trigger per farci ricordare quanto ancora ci faccia soffrire, e neanche poco, in questo caso la patente di guida appena presa che ricorda a Olivia Rodrigo di quando discuteva con il suo ex la possibilità di passare l’esame. Ecco, io vorrei evitare gli aspetti gossippari della questione, sono veramente poco interessanti e risultano un poco morbosi nel momento in cui si occupano di adolescenti o comunque non più tali da poco tempo, che per di più in almeno un caso tra quelli coinvolti in questa storia sono anche minorenni — proprio Olivia Rodrigo, che ha compiuto diciotto anni lo scorso 20 febbraio e che quindi almeno all’inizio degli articoli sull’argomento era ancora minorenne — ma siccome è quasi impossibile ignorare l’aspetto narrativo del brano, il suo racconto di un apparente triangolo amoroso, proviamo quantomeno a toglierci questa parte della storia velocemente così da poter parlare delle cose veramente stimolanti e belle della canzone. (Prima di iniziare: avendo sentito inizialmente questa storia in maniera superficiale, credevo si basasse su dati certi e evidenti, e che le relazioni analizzate fossero effettivamente vere. Come stiamo per vedere e come ho imparato facendo un po’ di ricerche, ci sono ancora meno dati certi sull’argomento, quindi stiamo veramente montando tutto su un mare di illazioni ma tant’è). Allora, se in “High School Musical: Il Musical: La Serie” Olivia Rodrigo interpreta una ragazza a cui viene fatta interpretare Gabriella, appare normale che debba esserci anche il personaggio del “ragazzo a cui viene fatto interpretare Troy”, e quel ruolo è finito nelle mani di Joshua Bassett, ventenne di Oceanside, sempre California. I due, evidentemente e per ragioni di copione, devono avere una relazione, ma molti fan della serie sui social sono arrivati a credere che, notando i comportamenti dei due nelle occasioni di incontro con la stampa e con il pubblico e i commenti che si scambiavano su Instagram, galeotto fu il copione e chi lo scrisse, e che dunque i due avessero intrapreso una relazione. Relazione che sarebbe giunta al termine e annunciata pubblicamente — mi viene il dubbio sul se si possa annunciare la fine di una relazione il cui inizio non era stato annunciato ma vabbé questa è un’altra storia — in un criptico TikTok in cui la didascalia scritta da Olivia Rodrigo recita “pensi di potermi far soffrire? Ho scritto io questa canzone” mentre l’artista mangia un muffin (??? Credo, non ne sono sicuro) con uno sguardo perso mentre suona la già citata “All I Want”, singolo contenuto nella colonna sonora della serie e, come detto, prima prova autoriale della cantautrice che sia protetta da un copyright. Questo arriva nel momento in cui si vocifera che lo stesso Bassett abbia una relazione con Sabrina Carpenter, altra star Disney di anni ventuno. Anche qui non mi pare ci siano conferme ufficiali: sappiamo che i due sono stati visti insieme ad una manifestazione organizzata da Black Lives Matter, che ad Halloween hanno pubblicato due TikTok con costumi identici, e che i due avrebbero dovuto collaborare in un brano contenuto nel primo EP di Bassett, che però è stato recentemente tagliato per fare in modo che la raccolta “non sia oscurata da qualche altra narrativa”. Ad aumentare le voci sul fatto che “drivers license” si occupi effettivamente a questo presunto triangolo contribuiscono due fatti. 1) il fatto che in una prima versione di “drivers license”, pubblicata da Olivia Rodrigo su Instagram, la “blonde girl” molto più vecchia di lei con cui l’ex si ritrova a passare il tempo sia una “brunette girl” — indovinate di che colore sono i capelli di Sabrina Carpenter — e 2) il fatto che sia Bassett che Carpenter abbiano pubblicato subito dopo “drivers license” dei brani che sembrano inserirsi all’interno della narrativa — solo che se “Lie Lie Lie”, singolo di Bassett, è uscita una settimana dopo “drivers license” ed era già stato pubblicizzato prima dell’arrivo della hit di Olivia Rodrigo, si sa che “Skin” di Sabrina Carpenter è stato scritto e prodotto nella settimana immediatamente precedente alla sua pubblicazione, anche se la stessa Carpenter ha poi dichiarato come non si tratti di una diss track e come non sia basata su eventi realmente avvenuti, quanto più su concetti generali. Ok. Direi che la parte gossip è stata coperta decentemente. Possiamo passare ad altro? Sinceramente mi sento molto poco a mio agio nell’infilarmi così nei cazzi degli altri, cazzi che per di più loro stessi hanno cercato di tenere privati pur essendo figure pubblice molto note sui social, quindi eviterò di andare oltre.

E allora dobbiamo parlare di “drivers license” in sé e per sé, di quello che c’è nella canzone, di quello che racconta e di come è stato percepito dal pubblico se vogliamo avere maggiori informazioni sul successo di questo brano, anche perché quest’ultimo è stato talmente immediato che alla fin fine risulta essere il background gossipparo che potrebbe, e ci tengo a sottolineare il *potrebbe*, esserci dietro ad essere stato portato sotto la luce dalla canzone, e non viceversa. “drivers license” deve infatti una buona parte della sua immediata e sconvolgente viralità all’unico mezzo che nel 2021 può veramente regalare immediata e sconvolgente viralità a qualcosa, forse a qualunque cosa, ovvero TikTok. C’è in particolare un trend, iniziato da Mel Sommers, ventenne californiana — che inizialmente nessuno aveva creditato come la “mente” dietro questa challenge, e dunque è importante ricordare la sua importanza nella creazione di questo trend — che, modellato sul video del brano, vede il protagonista del video gettarsi sul proprio letto mentre viene ripreso dall’alto nel momento in cui parte l’assurdamente grande, il massimalista esempio di fragilità che è il bridge, un frammento che sembra staccarsi del tutto dagli intimi arrangiamenti del resto del brano eppure complementandoli perfettamente nel dare una qual sorta di circolarità alla narrazione del pezzo. Ma non solo, questo è il trend principale che ha dato origine a una gran varietà di interpretazioni fino alla solita versione con dei cagnolini carini al posto delle persone, ma c’è un altro trend forse ancora più esilarante che è nato dal brano stesso, ovvero la riscrittura di parte o di tutto il testo per raccontare un’altra delle tante prospettive disponibili nella canzone. L’articolo che ho linkato le racconta tutte: c’è ovviamente l’ex ragazzo e “that blonde girl”, ma anche dalla prospettiva degli amici — quelli che, per citare il testo, si annoiano a sentire quanto gli manca l’ex — o addirittura dellA PATENTE DI GUIDA STESSA IO STO IMPAZZENDO. E il fatto è che non è un caso. O meglio. Lo è, perché se c’è una cosa che è certa su TikTok è che non c’è una ragione certa per cui un determinato trend o una canzone vengono premiati dall’algoritmo, ma non lo è nel senso che non solo la stessa Olivia Rodrigo è molto presente sulla piattaforma da ben prima dell’uscita di “drivers license”, ma che lei stessa spiegando la genesi del brano al già linkato “Diary of a Song” del New York Times abbia suonato un passaggio, poi non entrato nella versione finale, che lei stessa aveva pensato avrebbe potuto funzionare bene su TikTok, che avrebbe potuto rappresentare quel movimento nel pezzo in grado di dare un rapido sviluppo narrativo al video costruitoci sopra, che ha bisogno di poter passare in pochi secondi attraverso più fasi emozionali dato il formato di pochi secondi scarsi che caratterizza questo tipo di video.

Abbiamo dunque iniziato qua e là a lasciare per terra alcuni sassolini che se raccolti potrebbero ben spiegare cosa rende “drivers license” non semplicemente un grande fenomeno culturale, ma una grande canzone pop, ancora meglio una grande-canzone-e-basta. Mi pare il momento adatto di allargare il ragionamento e focalizzarsi su questa parte, che poi è, evidentemente, la conditio sine qua non di tutti i record stracciati in questi due mesi scarsi dalla sua pubblicazione. “drivers license” appartiene evidentemente ad un genere musicale molto particolare, quello della power ballad che, attenzione, non va necessariamente confusa con la “musica lenta”, anche perché il brano di Olivia Rodrigo è praticamente l’esatto contrario di lento, viaggiando ad oltre centosettanta bpm, che in termini di una canzone pop è praticamente l’equivalente di rompere il muro del suono. E il perché di questa scelta, che non viene mai nascosta nel brano, semmai piuttosto valorizzata e sottolineata in qualunque occasione valida, è evidente fin dall’inizio. Il brano si apre con il tintinnio ritmato che suona nelle macchine quando viene aperta la portiera in maniera inconsulta, o quando si è in movimento e il sensore rileva che una cintura non è allacciata — non ho ben capito quale delle due situazioni sia, ad essere onesto, però è noto, sempre via “Diary of a Song”, che il tintinnio sia stato registrato in macchina dalla madre di Olivia Rodrigo su richiesta della figlia. Il tintinnio piano piano si tramuta in qualcos’altro, ovvero in una martellante singola nota al pianoforte che imita il cacofonico rumore della vettura, solo ancora più veloce, che viene ripetuta praticamente per tutta la durata del brano. Di fatto, quel suono ci accompagna in un viaggio in macchina, lo stesso viaggio in macchina post-esame della patente che Olivia Rodrigo intraprende per le strade che avrebbe dovuto attraversare con il suo ex. Ogni rintoccare sempre uguale e sempre puntuale di quel pianoforte ricorda ogni singolo tratto della linea spezzata che si trova alla nostra sinistra — o destra, se vivete in luoghi scelti del Commonwealth — quando siamo in macchina e che vediamo scorrere sotto il nostro finestrino quando ci troviamo su un abitacolo. Ogni colpo di quella drum machine il cui suono sembra filtrato da una coperta di lana posta davanti allo speaker, il cui kick ha lo stesso esatto suono che potrete sentire se andate su un divano o su una poltrona di casa vostra e provate a colpirlo con un vostro dito, dicevo ogni suo colpo rimanda ad ogni edificio che ci troviamo a passare mentre giriamo in città, o ad ogni albero che ci troviamo a passare in campagna o ad ogni… insomma, ci siamo capiti. Noi non siamo semplicemente partecipi della prima guida da patentata di Olivia Rodrigo, noi siamo in quella macchina, noi non sentiamo la sua voce che si spezza e che mormora come un rivolo di montagna a ricordare il pianto che ha fatto passando nella strada in cui abita il suo ex, noi sentiamo quel pianto. Siamo là accanto, la vediamo indicarci la casa incriminata. E qui mi fermo un attimo, perché voglio un attimo concentrarmi su quella drum machine di cui sopra, su quel suono così sordo e sfuggente. Non è un suono che ci saremmo aspettati di sentire in un brano così noto appena un anno fa, a dir la verità è ancora adesso un suono raro da sentire in una canzone pop mainstream. Non ha la consistenza, la croccantezza, l’effetto da pugno in faccia dei drum sounds che vanno per la maggiore nella nostra epoca. Non siamo soliti sentire così poco il beat nel pop contemporaneo. Ricorda in parte le scelte di produzione di “bury a friend” di Billie Eilish, ma un paragone con quel pezzo risulta difficile, non fosse altro perché la rilevanza di quello strumento è completamente diversa, e nel brano di Billie Eilish è sempre in primo piano, a volte sembra più importante per lo svolgimento del brano stesso anche della voce stessa dell’artista. La realtà è che quel suono così particolare è il primo segno evidente dell’impatto culturale della doppietta “folklore” “evermore” da parte di Taylor Swift, il primo ramo venutosi a creare dal tronco formatosi sulla collaborazione in lockdown di TS con la produzione sparsa, liquida e che incrocia acustico ed elettronico di Aaron Dessner. E non dovrebbe neanche sorprendere troppo. Olivia Rodrigo non ha mai negato, anzi, ha ampiamente sottolineato la sua appartenenza al fandom di Taylor Swift, venendo favorevolmente ricambiata dall’ormai collega popstar, che prima ha commentato una foto messa da Rodrigo su Instagram e poi le ha inviato una lettera scritta a mano con un anello identico a quello indossato da Swift ai tempi della scrittura di “Red”. Olivia Rodrigo stessa, attraverso un video caricato sul proprio canale YouTube, ha raccontato come “folklore” sia uno dei suoi album preferiti e come abbia “cambiato completamente il modo in cui pensa alla musica”. E in fin dei conti non è solo nella produzione folkloresca, nell’arrangiamento asciutto di “drivers license” che si sente l’influsso di Taylor Swift sulla musica di Olivia Rodrigo, ma questo permea anche nello stesso stile di scrittura verboso e puntuale, la stessa poetica così ampia, così descrittiva e così ambiziosa che sembra caratterizzare tanto la trentunenne nativa di West Reading quanto la diciassettenne di Temecula. “drivers license” non è una collezione di immagini, è una narrazione completa, una vera e propria storia con la sua trama, i suoi personaggi ben definiti, la sua conclusione — che, nel caso ve lo steste chiedendo, non è a lieto fine, o meglio, non rappresenta la fine del percorso emozionale che segue al termine di una relazione, fermando il racconto sempre all’interno dello stesso stato di disperazione da cui, e l’accordo finale su cui Olivia Rodrigo ripete per l’ultima volta “guess you didn’t mean what you wrote in that song about me”, che fa tutto tranne darci la soddisfazione di risolversi lo dimostra, ancora non è il caso di uscire. Il conto delle sillabe, la formula matematica della perfetta canzone pop maxmartinesca qui non esiste. E lo dimostra il fatto che le tre strofe hanno tre metriche completamente diverse tra di loro, e fare una comparazione verso per verso dimostra che questi vengono accentati in punti sempre diversi. La struttura è quanto più leggera sia possibile in una canzone senza che questa arrivi a risultare disarmonica. Strofe e ritornello di “drivers license” sono scenografie desertiche, quasi monastiche, in cui ogni singola punta di imperfezione viene amplificata, in cui la singola voce può risuonare ancora più forte di quanto non farebbe normalmente in uno scenario più affollato. E qui la voce che si prende la scena è, ovviamente, quella di Olivia Rodrigo, e data la rilevanza che l’emozione, lo sconvolgimento interiore hanno all’interno di questo pezzo, è normale, anzi sacrosanto, la migliore se non unica scelta possibile che tanto l’artista quanto il produttore Dan Nigro abbiano optato per non sfruttare il falsetto nel ritornello. La salita ventouxiana che apre il ritornello — “and I know we weren’t perfect… / and I just can’t imagine how you…”, per capirci — non può essere così incisiva e così memorabile se passando da nota a nota si decidesse di ammorbidire il tutto con il confortevole abbraccio del falsetto. Sarebbe come se uno scalatore decidesse di ridurre il ritmo delle proprie pedalate nel tratto più pendente della salita. Considerato il rapporto che sta usando, sarebbe un suicidio tattico, sarebbe come fermarsi e mettere il piede a terra rinunciando alla possibilità di ripartire, non può far altro che scavare un buco con ogni metro sempre più profondo tra ciò che è e ciò che sarebbe potuto essere. Quel passaggio può essere reso solo facendo massimo uso dei propri polmoni, solo prendendosi il rischio della più grande stonata della propria carriera. Per usare le parole di Jesper Stuyven sulla riviera ligure: “it’s all or nothing”. Ma “drivers license” presenta un’altra particolarità, ovvero che contiene un passaggio in cui tutto quello che ho detto fino ad ora si invalida. Il bridge infatti abbandona lo stile di produzione del resto della canzone, abbandona la prosa narrativa in favore di immagini ferme e connettendole attraverso pause e non congiunzioni e un discorso unitario, abbandona Taylor Swift e finisce in un’altra grande ispirazione — per sua stessa ammissione — di Olivia Rodrigo, ovvero Lorde, addirittura abbandona i bpm che caratterizzano il resto del brano dimezzandoli. Il rischio enorme di una scelta del genere è quello di spezzare la canzone in due entità differenti che non si parlano e che non hanno molta ragione d’essere unite, ma la realtà è che il rischio paga. E non solo perché è possibile che una scelta del genere sia stata fatta con TikTok in mente, per dare appunto al brano quella sensazione di differenza, di movimento che è necessaria ai content creators per creare narrazioni intere su pochi secondi di un brano, e che poi, come già detto in precedenza, proprio su questo passaggio sia stato costruito il trend che ha occupato molti TikTok intorno alla data di pubblicazione del brano, ma anche perché in realtà la transizione riesce molto bene. Sarà perché il tempo è più lento e sarà perché ormai mi sono infilato nella metafora automobilistica come suggerisce la canzone e non ne posso uscire, ma si ha l’impressione di vedere una di quelle scene da film in cui per rendere al meglio la drammaticità di un incidente stradale si usa lo slow-motion per sottolineare i capelli che si muovono come tentacoli, i piccoli frammenti di oggetti rotti che sembrano fiocchi di neve, la testa si muove come inanimata. Il bridge rappresenta inoltre il secondo momento veramente catartico del brano dopo il ritornello, ma risulta essere di atmosfera completamente opposta. Sarà perché ogni parola che sia uscita dalla bocca di Lorde e ogni suono contenuto in una sua canzone ha sempre avuto un che di generazionale e di comunitario, il bridge di “drivers license”, che deve molto sopratutto a certi passaggi di “Melodrama”, riempie lo spazio lasciato libero dal resto del brano spostando sull’estremo opposto la manopola del riverbero, aggiunge tracce vocali e fa armonizzare Olivia Rodrigo con sé stessa, facendo così diventare la nostra partecipazione al suo dolore non semplicemente un’iniziativa personale, quanto più un’azione collettiva, una manifestazione di piazza.

Su BuzzFeedNews.com Tanya Chen ha sostenuto che “drivers license” sia diventata la canzone più importante del momento semplicemente perché ha permesso agli adolescenti di “sentire delle cose”, di provare emozioni forti e darci l’impressione di condividerle con l’intero mondo in un momento storico in cui semplicemente non possono farlo. Non so se condivido a pieno questa sensazione. O meglio, non credo si possa far ricadere semplicemente il tutto sulla situazione pandemica. In Nuova Zelanda e Australia, dove si sono vissuti mesi senza particolari restrizioni e addirittura senza mascherina in paesi con contagio zero, “drivers license” è rispettivamente quinto e quarto nella classifica dei singoli, avendo superato in entrambi i casi la quota per diventare disco di platino. Se certe restrizioni sanitarie portano certamente a rendere alcuni bisogni di questa età — e di quella immediatamente successiva in cui il sottoscritto, personalmente, si trova — ancora più necessari a causa dell’astinenza, quelli sono sempre esistiti e sempre si è cercati di soddisfarli attraverso la musica. “drivers license” non si trova in una situazione culturale significativamente differente rispetto a “Smells Like Teen Spirit”. Il suo successo non arriva per il mondo in cui ci troviamo, anche se certo ne è influenzato. Ma arriva dal fatto che ci troviamo di fronte ad una meraviglia pop perfettamente costruita, ad uno sfogo necessario e assolutamente autentico che anziché venire ingabbiato nel pop si è unito ad esso in maniera complementare, adattandosi l’uno ai bisogni dell’altro. Semplicemente, “drivers license” è uno di quei prodotti culturali talmente grandi e talmente rilevanti che, se ti interessa l’argomento, non puoi esimerti dal parlarne, o quantomeno dal pensarci.

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