Quattro anni di mondo selvaggio

The Sad Stork
9 min readSep 27, 2020

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Quattro anni fa — giorno più, giorno meno, la data d’uscita precisa era il nove settembre del 2016 — usciva “Wild World” — secondo album dei Bastille, la band britannica arrivata alla fama in seguito all’uscita del loro primo album “Bad Bloord” e trascinato dal successo del loro singolo “Pompeii” — ovvero il disco che mi ha cambiato la vita. O perlomeno, visto che una dichiarazione del genere potrebbe facilmente essere interpretata come eccessiva, il disco che ha cambiato la mia vita da ascoltatore e fruitore di musica. Ecco, così credo vada meglio. Nonostante fatichi a definire la mia memoria come “fotografica”, ho un ricordo abbastanza preciso dei giorni che hanno preceduto l’arrivo di questo disco, del mio primo ascolto e sopratutto dei mesi che ne seguirono. I Bastille, quando li ho scoperti nel 2014, erano stati proprio il motore che mi aveva spinto a cercare musica al di fuori della radio, di essere consumatore attivo anziché passivo del pop contemporaneo, ma fino a prima dell’uscita di “Wild World” la mia lista di ascolti si concentrava grosso modo a quattro dischi — i lavori d’esordio della band britannica, di James Bay, di George Ezra e di Hozier. All’uscita del disco avevo già visto due volte in concerto Dan Smith e soci, l’ultima delle quali quella stessa estate a Pistoia, quando solo un paio di singoli dal nuovo album erano stati presentati. Si può dire che fossi abbastanza in fissa, sopratutto considerato che quelli erano i primi concerti in solitaria della mia vita, ma difficilmente sarebbe stato pronosticabile il livello di fissazione che avrei presto raggiunto: da quando sono entrato in possesso della mia copia, ho ascoltato “Wild World” almeno una volta al giorno, tutti i giorni fino alle feste natalizie. Questo include i tre giorni spesi in vacanza con la scuola, quando registrai sui memo vocali tutti i diciannove brani dell’edizione deluxe per poterli ascoltare durante i lunghi viaggi in pullman. Spotify sarebbe arrivato pochi mesi dopo, quando spinto dall’interesse incominciai ad ascoltare anche gli altri dischi le cui recensioni avevo letto sui siti in cui ero andato a cercare la recensione di “Wild World”, e incominciai a controllare con attenzione la musica degli artisti a cui Dan Smith periodicamente dedicava messaggi di apprezzamento sui social — grazie a lui ho ascoltato con molto hype e molta attesa “Melodrama” di Lorde, altro disco che sta lì lì nel mio personale Olimpo. Insomma, l’uscita del secondo disco dei Bastille ha segnato uno spartiacque decisivo nella mia vita da appassionato, tanto che si potrebbe dire che non sarei qui a scrivere queste e tutte le altre parole che sono state pubblicate su questo blog non fosse stato per questo lavoro. Pensavo che con il tempo e con la mia crescita in quanto ascoltatore il nodo che mi legava ad esso si sarebbe quantomeno allentato, così come quello per tutta la musica che ascoltavo nel pre-2017 — e tra questo anche molte cose che si potevano trovare nel primo lavoro della band — ma “Wild World” è sempre rimasto là, fermo, immobile, opera più pregiata del mio museo personale, magari non la più imponente ma comunque capace di riempire la stanza come “Seashore by moonlight” di Caspar David Friedrich riempie la sala dedicata al pittore tedesco al museo d’arte di Amburgo, che pur non essendo né l’opera più grande né la più famosa — c’è anche il capolavoro dell’artista, il Viandante sul mare di nebbia che è più o meno immagine del romanticismo in qualsiasi libro di testo del liceo classico sia mai esistito — lì presente è quella che più di tutte si nota appena varcata la soglia della sala. Ancora oggi, se qualcuno dovesse chiedermi che valutazione farei del disco, non esiterei a dargli un punteggio massimo, qualunque sia la scala utilizzata. Sembra incredibile, considerata la quantità di volte che ho ascoltato questo disco — tanto che l’edizione fisica a volte fa le bizze quando provo ad inserirlo nel vano CD — ma ancora oggi riesco a sorprendermi dei particolari che riesco a trovarci e sinceramente non credo mi piaccia un’oncia in meno rispetto alla prima volta. Proprio per queste ragioni ho ritenuto di dovermi confrontare di nuovo con questo lavoro a quattro anni dalla sua uscita, per dare forma fisica a pensieri, emozioni e idee che ho avuto fissate in testa per ormai più di quattro anni.

Il mondo nel 2016, anno di uscita del disco, già sembrava a molti un regno dell’assurdo, e in questo senso “Wild World” riusciva ad essere conforto per chi si sentiva affogare nel liquido verdognolo e melmoso della realtà, ma il mondo se possibile è diventato ancora più assurdo di quanto non lo fosse quattro anni fa, e forse è con questo che si può spiegare l’appeal continuato indipendentemente dal tempo di questo lavoro. In fin dei conti se c’è una definizione che si può dare della musica dei Bastille e che mi è capitato di leggere più volte nel corso degli anni, è quella di “pop dalla fine del mondo”, che si intenda la fine letterale del mondo-Pompei, ambientazione del singolo più famoso della band, o la lenta e dolorosa fine di mondi come le relazioni interpersonali — per restare con i brani di “Wild World” si veda pure “Fake It”. Eppure non è solamente con l’attualità ancora preponderante di questi brani, questi temi e queste parole che colpisce ancora oggi e che può spiegare in maniera così semplice il perché della mia ancora totale fascinazione nei confronti di questo lavoro. La realtà è che “Wild World” è stato fin dal primo momento uno squarcio aperto a colpi d’ascia all’interno dell’anima più creativa dei Bastille, ma allo stesso tempo un lavoro sublimato da una cristallina e purissima perfezione pop, in cui le melodie da stadio sono variopinte, complesse, spogliate di ogni possibile banalità. Insomma, “Wild World” sembra veramente la tempesta perfetta, un disco forse irripetibile, certo una pietra miliare nella carriera della band, unendo il meglio di ciò che i Bastille hanno fatto prima — il primo album “Bad Blood” ma sopratutto la serie di mixtape “Other People’s Heartache” — e il meglio di quello che avrebbero fatto dopo — il quarto capitolo della loro serie di mixtape e il terzo album, “Doom Days”.

Per capire effettivamente “Wild World”, dunque, è necessario partire dalla serie di mixtape “Other People’s Heartache”, i cui primi due capitoli vennero pubblicati gratuitamente su internet tra il febbraio e il dicembre 2012, e che rappresentano il tentativo di Dan Smith e soci di realizzare “una colonna sonora utilizzando cover”, arrivando a mischiare mondi apparentemente inconciliabili come il compositore Sam Barber e Haddaway, Frank Ocean e Hans Zimmer, TLC e The xx, i Fugees con Enya e i brani originali della stessa band — in “Forever Ever”, che presenta anche alcuni versi dell’incredibile Kae Tempest — tutto questo includendo anche spezzoni presi da film — c’è anche QUELLA linea di Liam Neeson — serie tv, PSA e interviste varie, arrivando a creare un mondo talmente interconnesso, con talmente tante stratificazioni e ispirazioni da prendere forma nuova, unica e mai vista prima, irripetibile nello scenario pop contemporaneo. Potremmo definirla la Bastille formula, ed è quella che, come il Michael’s Secret Stuff di Space Jam, rifornisce di energia “Wild World” e lo rende il disco unico che poi è. In un mondo in cui le differenze di genere musicale, i confini già labili di ciò che da forma al pop si sbiadiscono, si mischiano come due tipologie di sabbie dai differenti colori, “Wild World” diventa un capolavoro del genre-less, nel senso che ci sono talmente tante strade da cui potrebbe provenire che diventa difficile, se non addirittura inutile, cercare una sola linea d’origine.

Tratto evidente ed immediatamente riconoscibile sono ovviamente gli spezzoni audio inseriti all’inizio o alla fine di canzoni e che mettono in mostra lo spirito un po’ da nerd di Dan Smith, con citazioni che passano da Kelly Le Brock in “Weird Science” a film horror italiani di serie Z, che servono a dare il ritmo ai brani e all’intero disco. Proprio la stella del cinema anni ’80 è quella che apre il disco, con la sua voce che ci introduce dentro “Good Grief”, primo singolo estratto dall’album. Difficile raccontare meglio questo brano se non citando il sondaggio che la vorrebbe come canzone preferita da un pubblico di millennials per essere suonata al proprio funerale, battendo canzoni decisamente meno upbeat come “See You Again” di Wiz Khalifa e Charlie Puth e “when the party’s over” di Billie Eilish. Segue “The Currents”, il cui synth martellante finito nelle mani di qualche altro produttore avrebbe potuto tranquillamente essere al centro di un remix dubstep del brano, in cui Dan Smith descrive la reazione più semplice, istintiva e immediata alle parole di personaggi come Donald Trump. “An Act of Kindness”, con le voci che spuntano da ogni parte, la melodia quasi da filastrocca, ricorda più di tutto quanto i Bastille abbiano fatto nella loro carriera il primo materiale solista di Dan Smith. Il ritornello di “Warmth” è forse quello più contagiosamente catchy, l’inno da arena-pop meglio riuscito di tutto il disco. “Glory” rappresenta una delle prestazioni migliori di quello che è forse il punto di forza più evidente dei Bastille, ovvero la voce particolare e immediatamente riconoscibile di Dan Smith. Il frontman della band sembra sempre ansimare, sempre sul punto di crollare, mette in mostra una fragilità intrinseca che contribuisce a rendere queste canzoni appetibili ad un grande pubblico. Nessuno canta come Dan Smith — lui riesce ad imitare le popstar del mainstream odierno, come si sente in “Happier”, mega successo in collaborazione con Marshmello scritto proprio da Smith con in testa Justin Bieber — e tutte le canzoni dei Bastille, quando cantate da qualcuno che non è lo stesso Smith, sembrano perdere forza, risultano essere poco interessanti. Ascoltare Dan Smith è come aprire leggermente il finestrino della propria macchina in autostrada, un gesto fragile, minimo e quasi impercettibile che ti inonda con una potenza e una forza straripante. Particolarmente notevole in questo brano è il falsetto che chiude il bridge e introduce l’ultimo ritornello, il momento di vulnerabilità che interrompe una melodia esaltante, divoratrice di mondi. “Two Evils” mette la voce di Dan Smith ancora al centro, con quella lontana e malinconica chitarra sullo sfondo. Il beat di “Send Them Off” è contagioso, carico di suoni e stratificazioni. “Four Walls (The Ballad of Perry Smith)” riprende il romanzo “A Sangue Freddo” di Truman Capote, ultima opera dello scrittore americano, e racconta su di un beat veramente minimale il lento avvicinarsi di una fine annunciata, ovvero la condanna a morte del protagonista del brano. Il rock contemporaneo di “Blame” ci fa battere il cuore in gola raccontando la storia di una vera e propria esecuzione, dipingendo la storia con tinte rosse e bianche e nere che ricordano la triade di Jack White e degli White Stripes. “Fake It” non cerca di nasconderci il dolore e la difficoltà dell’argomento — una relazione sentimentale che si avvicina ad un baratro senza possibilità di fermarsi prima del vuoto fatale — del brano con un beat uptempo e un ritornello apparentemente allegro. La voce di Rationale che risuona all’inizio del brano è un ululato di dolore impossibile da interpretare male. “Way Beyond” e “Oil On Water”, che aprono l’edizione deluxe del disco, pur presentando notevoli differenze tra di loro — uno dal predominante beat hip hop, l’altro dalla batteria quasi assente, una più naturalmente allegra, l’altra più orientata verso il mondo delle ballad — sono per certi versi brani gemelli, tanto che l’uno sembra fluire nell’altro in una linea unica, senza discontinuità, e raccontano entrambe la realtà dei social media, pur da un paio di prospettive differenti. “The Anchor”, che chiude definitivamente il disco, è, lo devo ammettere, la mia canzone preferita in assoluto, un brano su cui non credo di poter avere opinioni che non sfocino nell’irrazionalità.

Credo sia impossibile dire come sarebbe cambiato il mio futuro da consumatore di musica se questo disco non fosse mai esistito, e mi viene difficile pensare sarebbe potuto essere così massicciamente diverso da come è adesso. L’unica cosa che posso sapere per certo è che è così, in questa particolare maniera, perché quel disco è arrivato, nella sua edizione fisica, dentro casa mia. E questo mi basta per interrogarmi su come il mio rapporto con questo disco sia cambiato nel corso del tempo. L’amore è rimasto lo stesso, ma la capacità di riconoscere meglio il perché di questo interesse non ha fatto altro che avvicinarmi a “Wild World”, piuttosto che allontanarmene. Insomma: un disco perfetto.

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