Avere gusto è una questione culturale?

Cosa determina la sensibilità estetica, e perché alcuni ne sono più dotati di altri

Ludovico Pincini
6 min readJan 17, 2019

So bene che parlare di questo argomento – tanto più assumendo la cultura come discriminante – equivale a scoperchiare il mitologico vaso di Pandora, ma proverò comunque a fare una riflessione sulla questione. Da cosa dipende il buon gusto? Per chi lavora come me in un settore come il design, che fa della bellezza uno dei propri punti di forza, è importante sapere se le capacità di discernimento estetico (chiamiamole pure buon gusto) siano innate, addestrabili, o solo prerogativa di pochi eletti. Se siano, insomma, un prodotto di qualcos’altro oppure al contrario già presenti in ognuno di noi.

Da sempre i filosofi dell’estetica si sono scontrati circa la natura soggettiva o oggettiva del bello, fornendo le teorie tra loro più contraddittorie. Ci si chiede se il gusto, se il giudizio estetico e la capacità di cogliere e apprezzare la bellezza debbano essere imputati a fattori personali (dunque soggettivi) o piuttosto a fattori collettivi (oggettivi).

[Nascita di Venere, Botticelli, 1482]

La questione a mio avviso è squisitamente culturale, ma non nello sterile senso nozionistico con cui siamo solitamente abituati a intendere il termine. Piuttosto nell’accezione antropologica che ruota attorno al concetto di cultura, intesa come il complesso degli usi e dei costumi sociali che appartengono a una comunità di individui, in relazione al periodo storico-evolutivo in cui questa si trova. È proprio come ci insegna Rousseau nell’Emilio: tutto ciò che gli essere umani fanno è il risultato di ciò a cui essi sono stati educati. E se la cultura è l’insieme degli usi e dei costumi dei gruppi sociali, allora il nostro agire e il nostro essere altro non è che un prodotto culturale. Compreso il buon gusto.

L’estetica è antropologicamente un prodotto della “cultura”, intesa come insieme di usi e costumi di una comunità.

Proviamo a fare un esempio concreto proiettandoci per un attimo nel mondo dei graffitari. Un quartiere interamente imbrattato (o decorato, a seconda dei punti di vista) di graffiti sarà di cattivo gusto e simbolo di vandalismo per alcuni, mentre per una comunità di graffitari sarà un quartiere bello, colorato, e a suo modo espressivo. È abbastanza logico e naturale che venga apprezzato quasi esclusivamente in una cultura graffitara. Forse non è immediato, però il centrismo culturale con cui giudichiamo la bellezza o la bruttezza delle cose ci porta spesso a non vedere l’altro lato del “gusto”. Parafrasando Leibniz, giudicare una persona che appartiene a un differente gruppo sociale e che ha dei gusti diversi dai nostri sarebbe come mettersi a criticare i cinesi solo perché non parlano francese.

Date queste premesse, il problema assume allora una natura di stampo relativistico: non c’è un’unica cultura alla quale rapportarsi in maniera assoluta e fare riferimento per dare un giudizio estetico, infatti ogni cultura o sottocultura ha i propri canoni, che sono diversi tra loro e che peraltro evolvono nel tempo. Ma riconoscere un grado di autonomia estetica alle singole culture non significa estendere ai singoli individui la capacità di operare esteticamente con criterio solo banalmente per il fatto che, come si suol dire, ognuno ha i suoi gusti. Questa, al più, è anarchia estetica. È bieca retorica, nei secoli supportata dall’aulico suono latino del de gustibus non disputandum est. Mai locuzione fu più sbagliata: le culture, non le singole persone, hanno i propri gusti, perché all’interno di comunità culturalmente omogenee vi sono sensibilità e tendenze comuni che determinano di conseguenza in modo condiviso cosa è bello e cosa no.

Prendiamo ad esempio le immagini qua sotto. Perché piacciono? Perché forniscono un’esperienza estetica che soddisfa gli occhi e l’anima di chiunque le guardi? Il piacere che deriva da queste immagini non è certo casuale, ma risponde ad alcuni canoni estetici che la nostra società ci ha insegnato essere di buon gusto. Mi riferisco alle geometrie, ai perfetti equilibri compositivi, all’assuefacente precisione con cui le forme sono tra loro tangenti, alla sinuosità delle curve, ai colori gentilmente sfumati: un mix perfetto che ai nostri occhi ci dà l’idea di bello. Già, “ai nostri occhi” perché non si potrebbe dire lo stesso però se fossimo, per dire, in una cultura sudamericana piuttosto che africana, i cui criteri estetici sono completamente diversi dalla nostra cultura europea.

Contenuti tratti dalla pagina Instagram @ludovico.pincini — Design by: Christos Tsoleridis; Sergey Yark; FRANC FRANC.

Il mix perfetto è quell’ideale di bello quasi platonico a cui tutti inconsapevolmente facciamo riferimento quando produciamo un giudizio estetico. È anche il criterio che come designer ci troviamo ad applicare quando dobbiamo progettare qualcosa che fa leva sulla variabile estetica per convincere potenziali utenti. L’ho realizzato solo dopo due anni di inconsapevole attività di ricerca e selezione di progetti di graphic design che giornalmente pubblico per un’appassionata community di cultori del bello, sperando di fornire nuove ispirazioni ogni giorno (per gli interessati, li trovate su Instagram → @ludovico.pincini ). A ben pensarci, il gusto è intuizione, nel senso etimologico del termine: «in-tueri» dal latino significa “guardare dentro, guardare in profondità”. Un compito senz’altro nobile, quello di andare oltre la superficie per cogliere l’essenza più nascosta, ma non certo facile.

Saper scegliere il bello non è affatto un’attività automatica, e va coltivata allenando l’occhio critico della mente. La capacità di un buon designer consiste nell’avere una sensibilità investigativa e culturale per “detectare” ciò che può piacere o meno all’interno di una comunità di persone, e progettare di conseguenza. Questo è il motivo per cui le cose cosiddette di design piacciono, perché nel loro contesto culturale sono esteticamente appropriate, impeccabili e sempre opportune. In maniera provocatoria potremmo dire che un designer è sostanzialmente un bravo ruffiano. Sa cosa piace alla gente e lo eleva ad un livello superiore. I designer sono abili solleticatori dei piaceri altrui, sanno quali corde toccare per conquistare i cuori e l’attenzione dei propri pubblici. Ovviamente questo è solo il lato estetico di un progetto di design, al quale sempre si deve affiancare un lato funzionale. Ma questo articolo tratta del gusto, non della funzione, motivo per cui in questa sede prendiamo in considerazione solo l’estetica.

E dunque, avere gusto è una questione culturale? Sì, perché il gusto è conoscenza. Conoscenza della nostra società e della cultura del nostro tempo. Che non dipende dalle nozioni proprie di ognuno, ovvero da quanto “siamo studiati”, bensì dalla capacità di sentire ogni giorno la bellezza, dalla sensibilità verso scelte stilisticamente appropriate ai contesti progettuali. Dipende poi dalla nostra intuizione e dall’abilità di guardare alle cose con occhio critico, scandagliando le tendenze dell’oggi per anticipare quelle del domani. Dipende, in breve, dalla cultura estetica a cui veniamo esposti e che cerchiamo di volta in volta di replicare e migliorare aggiungendoci del nostro.

Nella mia esperienza professionale di tutti i giorni mi capita spesso di dover spiegare che gestire la bellezza non è appannaggio di tutti, e che ciò che vuole il committente di un progetto di design non necessariamente piacerà anche al suo cliente. È l’eterna lotta tra le opinioni estetiche (ammetto che sul retro del mio biglietto da visita campeggia il motto “Fighting everyday against ugliness”), che riesce a spuntare solamente chi alla fine dimostra di avere una maggiore sensibilità culturale. Concludo con un augurio riservandomi, per pudore, l’autore della citazione: come diceva il presentatore di un tanto noto quanto trash programma televisivo, «che il buon gusto sia con voi!».

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Ludovico Pincini

Graphic designer based in Milan 🇮🇹 Fighting everyday against ugliness.