La tragica fine dell’eccellenza lombarda

Luigi Ferro
23 min readApr 10, 2020

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L’articolo è un aggiornamento della precedente versione Il virus in Lombardia. Storia di un disastro . Altre considerazioni sul tema in Del virus e delle libertà. Passando per gli sceriffi

“Contro il Coronavirus siamo prontissimi. Abbiamo applicato tutti i protocolli possibili e immaginabili. L’Italia ha adottato misure cautelative all’avanguardia, più innovative di quelle di altri Paesi”.

Scolpitevi queste parole nella memoria perché chi parla è il presidente del consiglio Giuseppe Conte che il 27 gennaio a Otto e mezzo di Lilli Gruber rassicura gli italiani. A noi il Sars Cov 2 (il virus) e Covid 19 (la malattia) fanno un baffo. Sono i giorni dell’epidemia in Cina, ma l’Europa è ancora immune o almeno pensa di esserlo. D’altronde il virologo Roberto Burioni il 2 febbraio parla di rischio zero.

Tutti tranquilli, dunque, anche se il Global health security index dell’ottobre 2019 affermava che l’Italia non era pronta ”ad affrontare un’epidemia o una pandemia”. Ma chi li legge quei report?

IL PROLOGO
La situazione però, preoccupa. Il 31 gennaio la Gazzetta ufficiale pubblica il decreto che istituisce lo stato di emergenza. Un paio di mesi più tardi quella Gazzetta ufficiale sarà sventolata dai complottisti come segnale che il governo sapeva ma non ci ha detto nulla. Ma il Corriere della sera, solo per fare un esempio, il 1° febbraio ha come titolo di apertura a tutta pagina “Virus, è stato di emergenza”. Viene decretato lo stop ai voli per e dalla Cina, una misura che più tardi sarà criticata dagli esperti perché impedì di capire quanta gente arrivasse in Italia dalla Cina. Se uno cambia a Francoforte, come fai a saperlo quando arriva a Linate?

“Ci sono tutte le condizioni per gestire con trasparenza e sicurezza questa emergenza”, dice Speranza. Sta di fatto che da lì al momento in cui scoppia ufficialmente l’epidemia poco si muove. In quel momento in Cina ci sono 258 morti e 10mila infettati, ma si tratta di numeri ufficiali e probabilmente poco attendibili. La realtà è peggiore. In Italia gli unici due ricoverati sono due turisti cinesi finiti allo Spallanzani di Roma dopo avere girato un po’ per la Penisola. Si cerca di ricostruire i loro contatti, si isolano altre persone anche se il direttore generale dell’ospedale romano dice che i malati diventano contagiosi soltanto dopo la comparsa dei primi sintomi. Ma siamo nella prima fase della malattia, le conoscenze sono vaghe. E infatti sul New England Journal of medicine da un primo caso in Germania si capisce che è possibile il contagio senza sintomi.

E’ il momento della paura verso i cinesi. Sale in cattedra il capo della Protezione civile Angelo Borrelli nominato commissario straordinario. Inizia a lavorare a un piano, spiega il Fatto quotidiano, che prevede “L’adozione di sistemi di protezione individuale per tutti gli operatori di sanità che hanno a che fare con l’emergenza”. Ci sarebbe anche un piano contro la pandemia da mettere in atto ma Report spiega che “C’è stato un mancato adeguamento del piano nazionale. L’ultimo risale al 2010, dopo l’aviaria; quando l’Oms aveva raccomandato ai paesi di stilare un piano contro le pandemie era il 2003, con la raccomandazione di aggiornarlo costantemente. Il nostro dopo il 2010 non è mai più stato adeguato”.

Qualcosa di simile succede nella regione Lombardia dove dal 2010 esisteva un piano anti epidemia articolato e complesso messo a punto per reagire all’influenza suina H1N1 che in realtà non ha colpito in modo pesante l’Italia. Il piano, spiega il Corriere della sera del 29 marzo, non è stato ripreso, aggiornato e messo in pratica dalla Regione guidata da Attilio Fontana. Ma c’è dell’altro. Come racconta Business insider la Lombardia aveva rilevato le carenze del sistema già nel 2010 con un audit che non ha avuto seguito. “Sia perché non si erano mai sanati gli errori e le disfunzioni palesatesi durante la pandemia di H1N1 del 2011 — allora appena conclusa senza le devastanti conseguenze del Corona virus, ma, pur sempre una pandemia –, sia perché il vuoto lasciato dalla medicina di prossimità non è stato occupato da nessuno”. Alla voce “definizione delle modalità di incremento dell’assistenza domiciliare integrata” (cioè quella che tutt’oggi la Lombardia non fa, ma che tutti indicano come fondamentale per contenere il contagio e non intasare gli ospedali), già allora registrava “un’assenza di azioni specifiche”.

E’ un peccato che nessuno abbia ripreso in mano quei vecchi piani perché mentre ci si accanisce sui cinesi, nella comunità di Prato a fine marzo non c’erano ancora contagiati, il virus è già presente in Italia. Ma nessuno lo sa.
Capire come sono andati quei giorni è importante non tanto perché finalmente si potrebbe scoprire il paziente zero (a questo punto ha poca importanza) ma per rendersi conto che il sistema di sentinelle piazzato sul territorio (medici di base, ospedali) non ha funzionato. Il sistema non era preparato.

Di certo si sa che a Piacenza a fine anno c’è stato un picco dei casi di polmonite e lo stesso è successo a Milano. Non una rarità in quel periodo, ma questo è l’anno del virus. Ma provate a verificare nella vostra cerchia di conoscenze quanti hanno avuto una tosse che non se ne andava, un’influenza pesante. Il virus era già fra noi, in molti sembra lo abbiano curato con sciroppi per la tosse, ma non si era ancora palesato nel modo devastante che vedremo.

Stabilire però il momento di arrivo non è cosa facile. Enrico Bucci docente di Biologia dei sistemi alla Temple University di Philadelphia sul blog Cattivi scienziati ha sostenuto che il virus fosse già presente in Italia dall’inizio di dicembre (https://bit.ly/33XYy81) e un primo paziente ci sarebbe stato già a inizio gennaio. A sua volta Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, conferma questa tesi anzi racconta che polmoniti gravi sono state registrate in novembre e dicembre, mentre un altro studio (https://bit.ly/33Y0kpH) segnala la presenza del virus in Italia il 1° gennaio. Massimo Galli, infettivologo del Sacco, però è categorico. “Stiamo studiando le sequenze bergamasche, ma al momento escludo in Italia un ingresso antecedente al 26 gennaio”. Secondo Galli “L’ipotesi abbastanza ovvia è che almeno gran parte, se non tutta l’epidemia” emersa il 21 febbraio nel Lodigiano “sia partita da qualcuno che si è infettato in Germania verosimilmente intorno al 24, 25 o 26 di gennaio e che poi è venuto in quella zona dove ha seminato l’infezione, del tutto inconsapevolmente o perché completamente asintomatico o perché ha scambiato i sintomi di Covid-19 per quelli di una normale influenza”. Tutti gli indirizzi scientifici raccolti — sottolinea il primario del Sacco di Milano e docente di Malattie infettive alla Statale — permettono di ipotizzare una pista genetica che porta dritta al focolaio di coronavirus scoppiato in Baviera, dopo che un’impiegata cinese dell’azienda Webasto aveva partecipato a un meeting di lavoro a Monaco. Allora asintomatica (i primi malesseri li ha accusati nel viaggio di ritorno), durante la permanenza in Germania la donna ha contagiato un collega bavarese all’origine di quello che il mondo della ricerca ha già confermato come il primo focolaio Covid-19 d’Europa. E’ da lì che il contagio sarebbe arrivato in Italia.

A suffragare la tesi della presenza precoce del virus arriva il rapporto degli esperti dell’Unità di crisi della Regione. Lo racconta Davide Milosa sul Fatto quotidiano del 1° aprile. “La ricerca si basa sull’analisi delle prime due settimane di contagio studiando 5.830 casi positivi rilevati alla data del 5 marzo a partire dal primo identificato il 20 febbraio a Codogno. È attraverso lo studio di questi soggetti e delle loro relazioni strette che gli esperti sono tornati indietro nel tempo dividendo la linea cronologica in tre periodi: quello prima del 19 febbraio, quello tra il 20 e il 25 febbraio e l’ultimo dal 26 al 5 marzo. Il periodo che colpisce è certamente il primo: fissa un possibile contagio ai primi di gennaio. Di più: fino al 19 febbraio nelle province lombarde più colpite sono ben 385 i possibili contagiati rilevati dagli investigatori dell’Unità di crisi. Qui il grafico indica una lenta progressione fino alla metà di gennaio, dopodiché lo sviluppo si fa più consistente per esplodere a ridosso del 20 febbraio. Da quel momento e in meno di 72 ore i contagi si allargheranno a tutte le province lombarde”.

A gennaio la progressione è già veloce con 91 casi in provincia di Bergamo, 132 nel Lodigiano, 59 a Cremona, 38 a Brescia. Ma è la zona della Val Seriana a correre più degli altri con contagi arrivati subito dopo il 20 febbraio a 307 rispetto ai 258 del Lodigiano. Mattia, indicato come il paziente uno, sarebbe in realtà, con un calcolo a spanne, il paziente 386. Ma tutto è successo in silenzio, senza che nessun allarme scattasse. E il virus nel silenzio dilaga.

IL VIRUS È FRA NOI
’L’allarme scatta con la notizia dell’Ansa. Sono passati 54 minuti dalla mezzanotte quando il 21 febbraio arriva la news del primo contagiato in Lombardia a Codogno nei pressi di Lodi. E’ Mattia, 38 anni, sportivo. Il 14 febbraio accusa un po’ di influenza, il 18 va in pronto soccorso a Codogno dove le lastre evidenziano una leggera polmonite. Torna a casa, ma il giorno dopo va in ospedale. La polmonite è gravissima. “Quello che vedevo — spiega Annalisa Malara, il medico che ha intuito la malattia in un’intervista a Repubblica — era impossibile. Questo è il passo falso che ha tradito il coronavirus. Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l’impossibile non poteva più essere escluso”. Alla moglie viene in mente la cena con il collega tornato dalla Cina, risultato poi negativo. A quel punto il medico forza la situazione chiede l’autorizzazione per il tampone perché i protocolli italiani non lo giustificavano. Mi è stato detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo”.

Vuole dire che il paziente 1 è stato scoperto perché lei ha forzato le regole? “Dico che verso le 12.30 del 20 gennaio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane”.

Questa della violazione delle regole che porta al miglioramento della situazione è una situazione che si ripeterà più avanti in Veneto con l’utilizzo massiccio dei tamponi in barba ai protocolli. Mentre il rispetto delle regole ha permesso lo sviluppo del virus. Scrive il Corriere della sera del 9 aprile che fra il 13 e il 22 febbraio sono arrivati all’ospedale di Alzano alcuni pazienti ricoverati con diagnosi di polmonite/insufficienza respiratoria acuta. Lo dice il rapporto dell’Azienda sociosanitaria territoriale di Bergamo Est relativamente a quanto è successo all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo.

Si trattava di anziani ai quali non sono stati fatti i tamponi perché “nessuno dei pazienti ricoverati in tale periodo presentava le condizioni previste dal ministero della Salute per la definizione di un caso sospetto”. “In data 22 febbraio, in seguito all’evidenza del focolaio nel lodigiano, veniva acquisita la consapevolezza da parte dei clinici che tale criterio epidemiologico non era più da ritenersi totalmente attendibile, sebbene ancora non modificato”.

Sempre Imarisio e Ravizza sul Corriere raccontano che fonti interne hanno raccontato di avere segnalato più volte casi sospetti di polmonite interstiziale a partire dal 10 febbraio. La direzione dell’ospedale riconosce che il tempo trascorso tra l’ingresso e la diagnosi è all’origine della propagazione dell’epidemia.

Secondo l’infettivologo Massimo Galli “da noi si è verificata la situazione più sfortunata possibile, cioè l’innescarsi di un’epidemia nel contesto di un ospedale, come accadde per la Mers a Seul nel 2015”. E aggiunge: “Purtroppo, in questi casi, un ospedale si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio se la malattia viene portata da un paziente per il quale non appare un rischio correlato: il contatto con altri pazienti con la medesima patologia oppure la provenienza da un Paese significativamente interessato dall’infezione”.

Lo stesso giorno si scoprono altri due casi a Vo’ Euganeo e uno dei due muore alle 23,40. Il giorno dopo, 22 febbraio, Conte, con una prontezza che non dimostrerà nei giorni seguenti, chiude il Lodigiano e Vo’ che diventano zone rosse. Nessuno entra o esce. Ma il contagio è già partito e, come abbiamo visto, è arrivato a Bergamo e Brescia grazie anche a due fiere come racconta un articolo della Stampa del 18/3 dal titolo “E’ Brescia il nuovo focolaio Ora pronti a chiudere tutto”. Il virus si sarebbe propagato grazie a una fiera del fieno a Nembro (Val Seriana, Bg) e a una di animali di Orzinuovi (Bs). Le due fiere sarebbero state frequentate anche da contadini che arrivavano da Codogno anche se non vengono citate testimonianze o presenze di cittadini del Lodigiano. Ma, ben più importante, è la fiera di San Faustino del 15 febbraio che potrebbe avere contribuito a scatenare il contagio. Lo racconta, anche se con qualche dubbio, il Giornale di Brescia che parla di circa 250mila persone presenti.

Ma quello che è considerato il detonatore del virus per Bergamo è la partita dell’Atalanta. Il 19 febbraio la squadra di Bergamo gioca a San Siro contro il Valencia gli ottavi di Champions. Come racconta Repubblica oltre 45mila tifosi arrivano da Bergamo a Milano, si fanno un giro in centro e poi vanno allo stadio. Da Valencia ne arrivano altri 2.500 si incontrano con i bergamaschi, in un clima molto amichevole, si scambiano le sciarpe. E il virus. Perché il Sars Cov 2 era già presente anche in Spagna. Il 13 febbraio, nella regione di Valencia è morto un uomo. Il 3 marzo viene riesumato il corpo: era ammalato di Covid-19.

Il contagio è già arrivato anche nel Bresciano visto che su Tiscali news Jean Pierre Ramponi, direttore sanitario dell’ospedale di Chiari, racconta che il primo paziente positivo al Coronavirus è arrivato il 23 febbraio anche se non si sa da quale paese. Il 23 è anche il giorno del virus che si palesa in maniera ufficiale ad Alzano Lombardo dove, come racconta un articolo di Tpi qualcosa è andato storto. Dopo che alcuni pazienti sono stati dichiarati positivi il pronto soccorso viene chiuso e poi riaperto senza nessun intervento di sanificazione e senza la costituzione immediata di triage differenziati. Perché? Più di una testimonianza punta il dito verso una decisione presa dall’alto. Ma per trovare i responsabili bisogna andare fino al palazzo della regione Lombardia a Milano.

Qualcuno aveva già cercato di lanciare l’allarme, ma senza esito. E’ Angelo Giupponi, responsabile dell’Articolazione aziendale territoriale del 118 di Bergamo, che al Wall Street Journal racconta come il 22 febbraio avesse scoperto un nucleo di casi di coronavirus a Bergamo. Avrebbe quindi mandato una email alle autorità sanitarie della Regione, per sottolineare l’esigenza di svuotare alcuni ospedali per adibirli esclusivamente alla cura dei casi di coronavirus. “Non abbiamo tempo da perdere per le tue stronzate” è la risposta.

LE PRESSIONI DEGLI INDUSTRIALI
Sono bastati tre contagiati fra i quali un morto nel Lodigiano e Vo’ per decretare le zone rosse, ma gli altri contagi di due giorni dopo non sono stati sufficienti per prendere la stessa decisione in Val Seriana (Bg). Perché?

Colpisce infatti la mano morbida del governo e della regione sulla zona attorno a Bergamo. La situazione era tale che oggi è possibile affermare che mentre gli occhi di tutti erano puntati su Codogno la vera zona pericolosa era la Bergamasca dove i segnali della presenza del virus c’erano da giorni.
Lo racconta il Corriere del 6 aprile che parla della paziente entrata in ospedale per uno scompenso cardiaco e morta di Covid 19, di pazienti positivi che chiacchieravano fra loro e con i famiglia e delle infermiere che improvvisamente iniziano a portare le mascherine ma nessuno spiega perché.
A Codogno si urla al pericolo virus, mentre ad Alzano si insabbia. E infatti è partita l’inchiesta della magistratura. Nella Bergamasca sono ormai evidenti le pressioni e la responsabilità degli industriali locali, ma quello che oggi ancora manca è la parte romana. Cosa è successo in quei giorni a Roma, quali sono state le pressioni di Confindustria, chi nel governo non ha voluto le zone rosse locali, perché si è scelto di chiudere l’intera regione? Il parere dell’industria ha contato di più rispetto alla salute dei cittadini anche in sede governativa? Nessuno nel sindacato ha qualcosa da raccontare?

Che la situazione fosse molto pericolosa era già evidente da qualche giorno. Secondo l’articolo della Stampa “due mercoledì fa”, e quindi il 26 febbraio, la commissione tecnica della Protezione civile aveva dato parere positivo alla chiusura almeno della bergamasca (ci sono verbali della riunione?). Ma quelli sono i giorni in cui nella politica domina la sottovalutazione del fenomeno e le polemiche contro l’ingiustificato allarmismo.

La sera del 23 febbraio Salvini è a cena a Genova con 1.400 leghisti. “Ho sentito Zaia e Fontana, stanno prendendo decisioni importanti, perché la salute degli italiani viene prima di tutto e di tutti — ha detto il leader della Lega poco prima che anche il governatore della Liguria Toti diramasse l’ordinanza di sicurezza — Andando a rileggere i giornali dei giorni scorsi, se invece di accusare me e la Lega di essere sciacalli e allarmisti, qualcuno avesse iniziato i controlli prima, probabilmente ci saremmo risparmiati qualche problema”. Nei giorni seguenti pubblica invece un video dove continua a urlare “Riaprire, riaprire, riaprire”, mentre Attilio Fontana, il governatore della Lombardia, parla di normale influenza.

Non va meglio dalle parti del Pd. Zingaretti viene a Milano a prendere un aperitivo perché la città deve ripartire, Sala si fa fotografare con la maglietta #milanononsiferma e Dario Nardella, sindaco di Firenze, è l’ultimo a capire la situazione visto che annulla in extremis il weekend previsto per il 7–9 marzo con musei aperti e gratuiti.

Il parere della Protezione civile rimane lì, inascoltato. Intanto il 29 l’Oms eleva il virus Sars-CoV-2 a “minaccia globale molto alta”. Il 1° marzo c’è il primo decreto per il contenimento del contagio nelle regioni maggiormente coinvolte. Ma non ci sono nuove zone rosse. Il 2 marzo una nota tecnica dell’Istituto superiore di sanità evidenzia l’incidenza di contagi da Covid-19 nei due Comuni della Val Seriana, raccomandando l’isolamento immediato e la chiusura. Intanto il 1° marzo si è giocata a porte aperte Lecce-Atalanta. Non si sa quanti bergamaschi siano andati in trasferta, ma probabilmente non pochi visto l’entusiasmo che c’è attorno alla squadra di Gasperini.

Come scrive il Corriere il 2 marzo il forzista Giulio Gallera, assessore al Welfare lombardo, “esprimeva forti dubbi sull’utilità di una zona rossa”. “Lo stesso Fontana mette la sua firma su richiesta molto prudenti”. Ma la regione doveva aspettare l’ok del governo? No, poteva fare da sola come è successo in altre regioni d’Italia come Lazio, Basilicata ed Emilia-Romagna. Medicina nei pressi di Bologna viene dichiarata zona rossa alla metà di marzo visto il numero dei contagi e la decisione viene presa dalla regione.

“Stiamo valutando l’opportunità di estendere la zona rossa sulla base di alcuni criteri epidemiologici, geografici e di fattibilità della misura”, dice il 3 marzo a proposito del bergamasco, il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro. Tra Alzano e Nembro, nella bergamasca, “è un dato di fatto l’impennata di casi positivi al Coronavirus” e per questo “abbiamo chiesto all’Iss” valutazioni su una nuova zona rossa “da suggerire al Governo affinché metta in atto la migliore strategia”. Sono le parole dell’assessore al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera.

Il numero dei nuovi contagiati della zona di Bergamo è il più alto, con 129 nuovi positivi”. E’ sempre il 3 marzo. Non sembra esserci però una grande urgenza nonostante il parere della Protezione civile datato 26 febbraio. Non c’è voglia di polemica da parte della giunta lombarda come sarà invece per il pretestuoso caso delle mascherine.

Il giorno dopo, 4 marzo, non ci sono novità. L’Eco di Bergamo scrive. “Nella Bergamasca — spiega Gallera — i contagi sono leggermente diminuiti, 48 in più rispetto a martedì. Resta comunque una delle zone a maggior presenza di positivi, sono 423. Abbiamo chiesto al ministro Speranza quali orientamenti abbia il Governo e ha detto che nella sera ci sarà la decisione definitiva sulle misure da assumere. Attendiamo le loro valutazioni e siamo pronti ad accogliere ogni misura, anche quelle più rigide, che dovesse decidere il governo”. Sembra ancora una pacata richiesta non un allarme.

Il 4 marzo: chiudono scuole e universitàin tutta Italia.

In Lombardia qualcosa si muove. Report del 6 aprile e il Corriere della sera dello stesso giorno aggiungono un tassello al puzzle. La zona rossa era pronta a partire il 5 e 6 marzo. L’esercito aveva già fatto i sopralluoghi, il sindaco di Alzano Lombardo era sicuro che alle 7 sarebbe partita l’operazione che per due volte invece salta. E non si farà. Perché? Cosa è successo? Chi ha dato l’ordine?

Il 7 marzo è il giorno che ci ricorderemo per tutta la vita chiedendoci dove eravamo. I giornali parlano di una possibile chiusura della Lombardia. Ma mentre l’edizione cartacea del Corriere è tiepida, l’online sembra molto più deciso. Intanto iniziano a circolare bozze del decreto e si diffondono le voci. A sera il Corriere pubblica la notizia della chiusura della Lombardia. Il decreto ufficiale non c’è ancora ma si diffonde il panico. Dalla Liguria e dalla Valle d’Aosta, tradizionali mete del weekend di molti milanesi, si torna a casa di corsa. E dalla stazione Centrale di Milano i treni verso il sud si affollano. Il virus scende lungo la Penisola anche se, visti i dati del Sud dei giorni seguenti, i casi di infezione portati dal Nord non sembrano così numerosi.

Il decreto arriva in piena notte e viene firmato la mattina dell’8 marzo. La Lombardia e 14 province del nord sono zone rosse.C’è anche un pezzo del Veneto. Zaia protesta. Ma è già troppo tardi il virus ha trovato delle praterie e ha dilagato. Perché nel frattempo in Val Seriana e nel Bresciano, nulla è cambiato.
“Noi — racconta al Fatto quotidiano il 17 marzo il sindaco di Brescia Emilio Del Bono — come 12 sindaci dei capoluoghi lombardi, il 7 marzo avevamo chiesto sia alla Regione che al governo di chiudere le attività produttive, tenendo aperte solo la filiera di igiene per la casa e quella alimentare. Oltre alla manutenzione dei servizi pubblici essenziali”.
E’ il governo che è stato troppo timido o la Lombardia?
“Fontana ha sempre tenuto una posizione severa, ma il peso del mondo industriale sia su Roma che su Milano si è sentito” dice Emilio Del Bono. Risale al 28 febbraio il video dell’Associazione degli industriali di Bergamo, “Bergamo is running”. Più tardi Stefano Scaglia, presidente degli industriali locali, si giustifica così e chiede scusa: “Quando è nata l’idea del filmato, volevamo comunicare ai partner esteri che le nostre aziende stavano lavorando normalmente. Le cose sono precipitate di lì a poco. Faccio notare che fino alla prima settimana di marzo le persone uscivano a fare l’aperitivo o andavano a sciare. E politici ed esperti invitavano a fare lo stesso. Oggi, per quel video, chiedo scusa. Mi scuso se ha urtato e se ancora urta la sensibilità di tante persone. È stato un errore, sì. Questa tragedia accomuna tutti, qui, nella Bergamasca”. Scaglia ha ragione, in quei giorni, nessuno ci aveva ancora capito nulla, ma questa ignoranza diffusa non aveva impedito di chiudere subito dieci paesi del Lodigiano e Vo’ Euganeo in Veneto, mentre, grazie anche alle forti pressioni degli industriali non è stata chiusa la Val Seriana. Su questo Scaglia si limita a dire: “Pressioni? In una società complessa come la nostra ogni soggetto è portatore di una visione”.

In Val Seriana però si sono mossi anche se con un comportamento che non appare lineare. E’ il sindaco di Alzano Lombardo (Val Seriana) che al Corriere il 15 marzo dichiara: “Dirlo adesso è facile — risponde Camillo Bertocchi sindaco del paese — . Fin dal 23 febbraio abbiamo capito la gravità della situazione. Ed eravamo tutti per la linea rigida, ribadita anche il giorno 25, nonostante gli allentamenti a livello nazionale. Da noi bar chiusi anche dopo le 18. Ma vuol sapere una cosa? Non solo siamo stati criticati dagli operatori, ci è arrivato pure il richiamo dal ministero degli Interni tramite una circolare della prefettura che vietava ai sindaci di prendere misure. Chiedevamo rigore e chiarezza, non volevamo disorientare il cittadino. Il territorio va ascoltato: non era il segnale di un sindaco, ma di sette, da Torre Boldone ad Albino”. Nembro compreso.

Anche qui qualcosa però non quadra. Il 4 marzo sul Giornale di Brescia, sempre il sindaco di Alzano Lombardo spiega: “La zona rossa di fatto da noi è già operativa ma far diventare l’area off limits con il divieto di entrare e uscire creerebbe un danno incalcolabile per il nostro territorio”. Un territorio ricco di attività con aziende, tra l’altro, di peso come le cartiere Pigna, Persico group e la Polini Motori. “Certo — aggiunge — la diffusione del virus è importante e il dato è sicuramente destinato ad aumentare. Quindi non voglio dire che non ci sia l’emergenza e che non bisogna fare di tutto per contenerla ma creare una zona rossa sarebbe un enorme dramma per il nostro tessuto economico”.
Ma di cosa stiamo parlando? Lo spiega l’Eco di Bergamo che dà qualche numero sulle imprese dell’area. 3.700 dipendenti in 376 aziende, per complessivi 680 milioni l’anno di fatturato. L’articolo aggiunge anche un particolare illuminante: “Tra i problemi da risolvere ci sarebbe innanzitutto quello dei dipendenti non residenti nei due comuni, per cui le aziende stanno pensando di affittare i pochi alberghi in zona, in modo da consentire di lavorare”. Decine di lavoratori sarebbero concentrati in strutture alberghiere che diventerebbero potenziali focolai del virus.

Messo così il grido di dolore del sindaco non appare lacerante. Sarà anche per questo che rimane inascoltato. La Regione infatti non spinge più di tanto e a Roma riflettono. Da Conte, Speranza e Borrelli nessun segnale. Nelle due aree intanto il virus banchetta. Viene il dubbio (eufemismo) che non si tratti di mera inefficienza, ma che qualcuno abbia dovuto fare fronte a forti pressioni (Assolombarda, Confindustria Lombardia). A Bergamo come a Brescia. La conferma arriva dallo stesso Gallera che a Repubblica del 19 marzo ha dichiarato “Quando abbiamo chiesto di chiudere tutto, sono stato sommerso da telefonate: amici di una vita, imprenditori che mi urlavano contro, mi dicevano di non chiudere”. L’elettorato di riferimento non voleva cedere, ma il virus è stato più forte di loro e anche la Regione ha dovuto alzare bandiera bianca. Però è a causa anche di tutte queste pressioni che fra il governo e la regione Lombardia in particolare, anche in questi giorni, si gioca la partita su chi deve prendersi la responsabilità di chiudere le fabbriche? Fontana dice di voler chiudere tutto ma non lo fa, abbaia ma non morde.
Che la zona rossa sarebbe stata utile lo pensa anche Giuseppe Remuzzi che ha passato anni all’ospedale di Bergamo Papa Giovanni XXIII e ora guida l’istituto di ricerca Mario Negri. Intervistato dal Corriere (https://bit.ly/2QoF1bh ), dice : ”Come ormai tutti sanno, abbiamo due zone colpite. Nembro e Alzano. Già a dicembre i medici di base di quest’ultimo comune si sono trovati di fronte a polmoniti mai viste. Ma hanno pensato che fosse una evoluzione del ceppo annuale dell’influenza”.
Hanno sbagliato?
“È difficile capire che sei di fronte a qualcosa di nuovo se non l’hai mai visto prima. Anche noi studiosi eravamo convinti che il virus non fosse così aggressivo”.
Poi cosa è successo?
“Alzano Lombardo è una piccola capitale industriale. Contatti di ogni tipo. Vai e vieni da ogni parte del mondo. Nembro è una delle città più vive e frequentate della zona. Un posto da movida, a farla breve”.
C’era qualcosa di diverso che si poteva fare?
“Una zona rossa. Subito, come a Codogno”.
Perché non è stata fatta?
“Non lo so. Dico solo che l’assenza di una zona rossa ha peggiorato una situazione già grave”.

Bisogna arrivare ad aprile per vedere una prima timida ammissione di colpa. In una fenomenale dichiarazione Gallera dice “Ho approfondito ed effettivamente la legge c’è“. In aprile, a più di un mese di distanza l’assessore riconosce che in realtà la regione Lombardia avrebbe potuto decretare subito la zona rossa, senza aspettare il governo che ha comunque una parte di colpa. Ma avrebbe dovuto farlo, è bene ricordarlo, non dopo il parere tecnico del 3 marzo ma immediatamente il 23 o 24 febbraio così come è stato fatto a Codogno. Ma Codogno a livello industriale non conta nulla mentre la Val Seriana è ben altra cosa. E qui arriva il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, che all’ottima Francesca Nava di Tpi.it che gli chiede conto di una riunione svoltasi in regione ai primi di marzo con i rappresentanti delle industrie lombarde, il presidente Fontana e alcuni tra i principali imprenditori della bergamasca per parlare della zona rossa, spiega:Ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse. Non si poteva fermare la produzione. Le faccio un esempio: se oggi la Dalmine non lavorasse, io ho insistito per tenerla aperta, le bombole per l’ossigeno non ci sarebbero. Ma le bombole per l’ossigeno sono una filiera che parte dall’acciaio, alla calandratura, dalla saldatura, alla meccanica. Per fortuna che sono rimaste aperte certe attività. Se non ci fossero state le imprese aperte con l’utilizzo e lo sfruttamento dell’ossigeno che diamo agli ospedali, la gente sarebbe morta”.

“Noi eravamo contrari a fare una chiusura tout court così senza senso”. Perché, aggiunge, “Codogno è un paesino, capisce che non fa testo”.

E sui motivi del gran numero di morti in Lombardia. “Ci sono diverse ragioni: innanzitutto qui c’è una presenza massiccia di animali e quindi c’è stata una movimentazione degli animali che ha favorito il contagio, parlo degli allevamenti, e questa potrebbe essere una causa”.

L’immagine simbolo è la fila di camion militari che portano fuori da Bergamo le bare.

IL VIRUS l’ARMA PER ABBATTERE CONTE. A TUTTI I COSTI
Fin dall’inizio di questa storia è apparso chiaro che la Lombardia è la regione più pronta a seguire la linea salviniana di attacco deciso al governo Conte. L’obiettivo è chiaro e persino logico. In una situazione drammatica per il paese le forze politiche devono unirsi e formare un governo di unità nazionale con qualcun’altro al posto di Conte che comprenda quello che una volta si chiamava l’arco costituzionale. Insomma, tutti i partiti in modo tale che chi rimane fuori non cerchi di cavalcare la crisi. Passato il periodo difficile si andrebbe direttamente a elezioni senza governi tecnico o altro di passaggio. In questo modo Conte non avrebbe potuto prendersi il merito della vittoria contro il virus , sparirebbe dalla scena politica, con grande gioia di Salvini e Renzi, e il leader della Lega avrebbe un palcoscenico più ampio per le sue intemerate contro l’Europa.
L’idea, che non piace alla Meloni, muore sul nascere anche perché la situazione non è così drammatica da richiedere l’unità nazionale. Il governo per quanto debole non appare particolarmente diviso, abbiamo visto di peggio, e Renzi abbaia ma non morde. Non può certo cercare la crisi in questo periodo. Parla tutti i giorni ma in realtà non tocca palla. E i sondaggi lo puniscono.

La Lombardia è così l’arma in mano a Salvini per attaccare il governo e il forzista Gallera, che tutti i giorni in Tv scandisce le cifre dell’avanzata del virus, è l’uomo che in quel momento viene indicato come il candidato sindaco per il centrodestra a Milano. Lui ci prova e lo fa chiaramente capire con un’intervista a repubblica del 25 marzo. Siamo nel pieno del dramma lombardo, la battaglia per Milano come l’ha chiamata l’infettivologo Galli è già iniziata e Gallera dice: “Se servirà candidarmi non mi tirerò indietro”. Un tempismo non proprio azzeccatissimo che però non solleva commenti nel centrodestra dove nel frattempo sale la candidatura del rettore del Politecnico Ferruccio Resta.

Una nota divertente. Il Giornale del 7 gennaio parlava dei dubbi di Sala per la ricandidatura e scriveva: “Ipotizzando la non candidatura di Sala, il rettore del Politecnico Ferruccio Resta potrebbe essere l’ideale staffetta nel centrosinistra. Uomo, così come Sala, forse più di centrodestra, ma certo non disponibile a mettere la sua immagine nelle mani di una campagna elettorale che sarà a trazione leghista e quindi dai toni accesi”.

Gallera poi ha un altro problema. La regione Lombardia sbaglia praticamente tutto nella gestione del Coronavirus tanto da diventare un caso negativo a livello mondiale come testimonia questo articolo (nella traduzione del Foglio) dell’Harvard business review. Difficile presentarsi come il salvatore della patria. Anche la scelta di Bertolaso come responsabile della realizzazione del nuovo ospedale in fiera è un siluro contro il governo che non va a segno. Bertolaso arriva quando i lavori sono già partiti, intanto accetta anche di collaborare con la regione Marche, si ammala, finisce fuori gioco e l’ospedale va avanti senza di lui. A Bergamo gli Alpini, senza fanfare, realizzano un altro ospedale da campo che entra in funzione senza la conferenza stampa di presentazione con centinaia di persone organizzata dalla Regione Lombardia. In quella occasione Gallera dice: ” “La distanza è fondamentale per non essere contagiati, ma quando abbiamo tutti la mascherina, siamo protetti e non è necessario essere ad un metro e mezzo di distanza”. Intanto gli italiani sono chiusi in casa.

Con la gestione Fontana la Lombardia diventa la punta di lancia del salvinismo contro il governo. Non si perde un’occasione per fare polemica, si dice di essere stati abbandonati tanto che il Corriere del 3 aprile titola “La Lombardia: lasciati soli” anche se le spese sostenute dalla Regione saranno però rimborsate dal governo se rendicontate. La verità è che è stato facile chiudere Codogno dove non c’erano interessi particolari, ma molto difficile resistere alle pressioni degli industriali per la zona di Bergamo dove ci sono aspetti molto poco chiari tanto da provocare l’intervento della magistratura.

E oggi non ci fosse la Lombardia i dati italiani sarebbero in linea con quelli di molti altri paesi europei. La presunta eccellenza del sistema sanitario lombardo è andata in frantumi e la regione è diventata una zavorra per il Paese.

E’ un problema solo lombardo visto che il leghista Zaia, quello dei cinesi che mangiano i topi vivi, ha seguito tutta un’altra strada. Forse con Salvini non si prende più di tanto, forse vuole rimanere concentrato sul suo ruolo locale senza ambire a un ruolo nazionale, ma Zaia parte male chiedendo anche lui di aprire zone che il governo aveva chiuso e cambia poi idea proseguendo molto meglio con una strategia del tutto diversa fatta di tamponi e minore ricorso all’ospedalizzazione. In Veneto funziona la sinergia con l’università di Padova in Lombardia invece trionfa il legame con l’industria.
Al momento in cui finisco di scrivere, 10 aprile, i morti in Italia sono 18.279. In Lombardia 10.022.

L’articolo è un aggiornamento della precedente versione Il virus in Lombardia. Storia di un disastro . Altre considerazioni sul tema in Del virus e delle libertà. Passando per gli sceriffi

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Luigi Ferro

Giornalista. Mi sono occupato di tecnologia, economia e varia umanità. Dalla cronaca dell’Unità a Società civile, riviste tecniche, Corriere, Mondo e altro