REVOLT IN TECHNOPATRIARCHAL TIMES

maddalena fragnito
26 min readMar 16, 2019

--

di Paul B. Preciado
traduzione della talk: 1.3.2019 — PERFORMING PAC deGENERE

Buonasera, prima di tutto vorrei ringraziare tutte le persone che hanno reso possibile la mia venuta qui al PAC, in particolare a Diego Sileo che tempo fa mi mandò un invito così entusiasta che risultava impossibile non esserci, all’Istituto Cervantes che ha contribuito economicamente alla mia venuta e anche a chi ha il difficile compito di tradurmi oggi. Abbiamo discusso su quale lingua adottare durante questa conferenza e abbiamo deciso che poteva essere lo spagnolo, anzitutto perché è la mia lingua madre, poi perché magari è una lingua che in fondo capite abbastanza. Abbiamo quindi optato per la possibilità che io parlassi in castigliano e voi in italiano, e che potessimo capirci.

Sono veramente emozionato dalla quantità di gente che è venuta oggi a questo incontro.
Sono anni che parlo e sogno di rivoluzione e, nonostante questi siano tempi controrivoluzionari, sono ancora più emozionato nel vedere tutt* voi: l’importante non è che io sia qui ma che voi siate qui come in un’assemblea costituente di una rivoluzione in marcia. Non pensavo che l’avrei mai detto ma, guardandovi, mi rendo conto che vi amo profondamente perché stiamo vivendo insieme situazioni pesanti e complesse in ogni parte del mondo. Penso che oggi sia più necessario del solito stare vicin* e stabilire nuove alleanze.

Nonostante l’invito e il programma del PAC nominino i termini “identità” e “genere”, mi oppongo a queste due nozioni. Mi oppongo alla nozione di identità perché le cose che proverò a spiegare qui non sono legate a politiche identitarie ma promuovono la pratica di un insieme di micro-politiche di disidentificazione. Non è quindi l’identità il discorso ma, semmai, la disidentificazione! Credo che il problema più grosso degli ultimi 60 anni, dalla seconda guerra mondiale in avanti, è che tutti i movimenti politici si siano strutturati come politiche identitarie e che oggi ci troviamo al limite di questa possibilità, di questa epistemologia della politica dell’identità: in tante e tanti oggi ci riconosciamo in una pratica politica di disidentitficazione. Mi oppongo anche alla nozione di genere perché questo si è convertito nello strumento attraverso cui le istituzioni dominanti parlano di minoranze. D’un tratto si parla di identità di genere, che merda, ma che cos’è?! Parliamo invece di quello che dobbiamo parlare, non d’identità di genere ma di minoranze oppresse. Per essere esplicito, di minoranze di donne, di donne non-bianche, di lavorat* del sesso, di persone trans, di persone con abilità differenti… Le nozioni “differenza di genere” o “identità di genere” sono strumenti della politica neoliberista e credo che tutt* dobbiamo opporci, come istituzioni e come movimenti, all’uso di questi termini.

Mi sembra fondamentale e da tenere in considerazione che la nozione di genere, poi usata dalle femministe negli anni ’70 come strumento di critica, è un termine che nasce nel linguaggio medico. È stato inventato negli anni ‘40/’50 nel contesto diagnostico dei bambini nati intersessuali. Quindi è una nozione che non possiamo utilizzare senza conoscere le conseguenze politiche che questo termine ha avuto nei protocolli medici che si usano per il riconoscimento di tutti i neonati, nel contesto medicalizzato occidentale: questo è ciò che vuole dire “genere”. Pertanto, quando parliamo di identità di genere, dovremmo prestare molta attenzione al fatto che questo sia una tecnologia medica di normalizzazione delle differenze sessuali.

Definisco come lotta “somato-politica” la lotta dei corpi storicamente oppressi, corpi che inglobano il femminismo e lo sorpassano, che lo includono ma vanno avanti. La lotta somato-politica è quella di tutti quei corpi che sono stati oppressi nella storia. Questa è la differenza con una politica identitaria che presuppone un soggetto politico “donna”, “nero”, “trans”, “operaio”, “omosessuale”… che presuppone quindi un soggetto che struttura la lotta, che crea le sue strategie politiche. In opposizione a questa politica delle identità, propongo un insieme di alleanze somato-politiche che si strutturano nella critica radicale alle tecnologie di oppressione. Pratiche sempre sperimentali di disidentificazione e non di produzione identitaria. Per me il punto è mettere in crisi tutte queste identità e creare alleanze trasversali tra corpi oppressi: questo è il cambio di segno che dobbiamo essere in grado di fare. Infatti, anche nel discorso egemonico e maggioritario, c’è una produzione di politiche identitarie che reagiscono alle nostre politiche identitarie degli anni ‘70/’80/’90. Quello che stiamo vivendo sono le politiche identitarie etero-patriarcali.

Da una parte c’è una forte rivoluzione che è la critica al “tecno-patriarcato”, dall’altra, c’è un’altrettanto forte controriforma, una reazione controrivoluzionaria agita dalle egemonie tecno-patriarcali. In questi anni assistiamo a una grandissima frizione tra questa rivoluzione somato-politica — la definisco così perché non si riduce solamente al femminismo o a un soggetto specifico — e la contro-reazione patriarcale che pretende di conservare un sistema di potere. È vero che siamo davanti a un pessimismo generalizzato, del tutto normale dato il contesto di controriforma storico globale (basti pensare a ciò che accade in Ungheria, Uk, Grecia, USA, Brasile, Italia, …), però è anche vero e importante che non perdiamo mai di vista come questa reazione sia anche dovuta alla profondità e all’ampiezza del nostro movimento rivoluzionario. Questo è ciò che dobbiamo capire e sapere collettivamente, perché se non ci rendiamo conto di questo aspetto, entriamo un uno stato di depressione collettiva che non farebbe altro che favorire questa controriforma globale.

La frizione tra rivoluzione e controrivoluzione è la guerra per la proprietà dei mezzi di riproduzione e non per i mezzi di produzione. Uno dei problemi della filosofia politica del ventesimo secolo è che si è concentrata sui mezzi di produzione. Questa è una critica tanto al marxismo quanto al liberismo, infatti, entrambi i discorsi, hanno naturalizzato la riproduzione: hanno pensato che la riproduzione fosse un ambito naturale e si sono concentrati solo sui mezzi di produzione, di appropriazione e di espropriazione della merce. Invece il luogo centrale della produzione di valore, e intorno a cui si produce oggi la più violenta guerra, è la proprietà e l’uso dei mezzi di riproduzione. Possiamo dire che il corpo nel ventunesimo secolo occupa lo stesso luogo che la fabbrica occupava nel diciannovesimo secolo. Il corpo è il luogo in cui agiscono i più grossi processi di appropriazione, espropriazione e lotta politica. Per questo parlo di “somato-politica” — una nozione originariamente di Foucault — come il luogo centrale di questa lotta. Di una lotta che nasce nella tradizione femminista ma la supera attraverso questa espansione che ci chiede di disidentificarci.

La domanda centrale della filosofia contemporanea è: cosa sta succedendo? Non è ovvio né semplice capire e rispondere ma, se lo facciamo, possiamo elaborare nuove strategie di lotta politica. Quindi: cosa sta succedendo?

Quello che sta succedendo è l’estensione della logica della frontiera contro l’apparente libera circolazione di merci del neoliberismo.

Quello che sta succedendo è l’apparizione di campi profughi come nuove forme di urbanismo senza città, quindi nuove forme di spazio sociale totalmente sprovviste di sovranità.

Quello che sta succedendo è l’urbanizzazione della totalità del pianeta.

Quello che sta succedendo è la sperimentazione di tecniche di procreazione assistita per ottenere la riproduzione a partire da due corpi con cromosomi XX, quindi senza il cromosoma Y — quello che fino a oggi è stato identificato come maschile. Mi chiedo, d’altra parte, se i cromosomi abbiano un sesso o un genere… Vedete come in un tempo non troppo lontano, era il 18 ottobre 2018, in un laboratorio cinese si ottiene la riproduzione di un nuovo topo da due topi femmina, cioè da due topi XX.
Mi soffermo su questa immagine perché possiate vedere il nostro più vicino alter-ego contemporaneo, quello su cui e con cui hanno condotto le più importanti ricerche tecno-scientifiche intorno al corpo che conosciamo come umano. Uno degli animali che Donna Haraway definisce come “cyborg”.

Quello che sta succedendo è un’assidua ricerca per lo sviluppo di un utero artificiale, ovvero la meccanizzazione totale e conseguente esternalizzazione del processo riproduttivo. Questa non è letteratura sci-fi è un progetto di ricerca reale dentro ai laboratori israeliani, americani, cinesi ed europei.

Quello che sta succedendo è l’apparizione di forme inedite di parentele, ovvero uomini trans in gestazione e donne trans donatrici di sperma. Quello che sta succedendo è dunque una disidentificazione totale tra corpo, genere, fluidi e processo riproduttivo. Come dire, sperma maschile che si converte in luogo di maternità e ovociti femminili che si convertono nella possibilità di una paternità: una disidentificazione radicale tra ciò che intendiamo con il genere e i processi riproduttivi.

Quello che sta succedendo è che con l’estensione di Internet (rete informatica di connessione del mondo permanente 24 ore su 24) e la sua connessione diretta al corpo, si producono nuove forme di soggettività ultra-connesse e appare qualcosa di assolutamente affascinante — cosa che ho scoperto essere definita come “eroina elettronica” nel mio ultimo viaggio in Cina: ci siamo sempre alimentati di flussi materiali e semiotici ma ora ci alimentiamo di flussi informatici ed elettronici, senza i quali non saremmo più capaci di vivere.

Quello che sta succedendo è l’apparizione incessante di applicazioni digitali che permettono la gestione totale della vita, dalla fertilità, della gravidanza, dall’alimentazione, del peso, dall’assunzione di farmaci, fin delle nostre prestazioni sessuali.

Quello che sta succedendo è l’apparizione di algoritmi, quindi di intelligenza artificiale, che permettono di individuare le nostre identità sessuali, l’autismo, la depressione, la razza, etc.

Quello che sta succedendo è che, mentre oltre 100.000 persone aspettano dall’altra parte della frontiera, il parlamento dell’Unione Europea discute intorno alla possibilità che i Robot possano essere riconosciuti come persone elettroniche legali. Si comincia quindi a parlare della legalizzazione dei robot sessuali come un’alternativa alla prostituzione.

Quello che sta succedendo è l’invenzione delle stampanti 3D che stanno cominciano a stampare organi con biomateriali elaborati da DNA di cellule madri, dando la possibilità di produrre organi stampati che possono essere installarsi in tessuti vivi. La domanda diventa immediatamente: quali sono gli organi che meritano di essere stampati, di essere riprodotti? È quindi possibile stampare un organo sessuale? Ovvero, è possibile stampare un clitoride e impiantarlo sul petto di un corpo maschile e stampare e impiantare un pene senza dover chiudere una vagina?

Nel frattempo, con l’espansione della tecnologia nucleare, il sarcofago di Chernobyl — ciò che resta di Chernobyl –, come dice Svetlana Aleksievic, sarà l’unica eredità architettonica che resisterà al futuro: il nostro unico pezzo di eternità. Tutto questo, in un orizzonte climatico estremamente caldo…

Siamo davanti a un cambio di paradigma paragonabile solo a quello che si produsse nel quindicesimo secolo con l’avvento della stampa e dell’espansione del capitalismo coloniale.
Sicuramente è un cambio molto diverso perché, oggi, ciò che si sta decidendo è cosa vuole dire essere un corpo vivo. Un corpo per le prima volta non solo organico, un corpo anche inorganico: cosa e chi è un corpo con uno statuto legale e politico? La questione si pone con più urgenza che mai perché, per la prima volta, abbiamo in mano tecnologie capaci di riprodurre la vita e anche di distruggerla, portandoci all’estinzione totale della vita sul pianeta.
Di questo ci si interroga oggi, questa è la sfida; parlare di politiche di genere è quindi assurdo ed estremamente banale. Non stiamo parliamo di politiche di genere, stiamo parlando di politiche di riproduzione della vita sul pianeta, cosa che ci inserisce in un discorso ben più ampio.

Dall’altra parte, quello che emerge è che non abbiamo analisi politiche sulle tecnologie di riproduzione della vita. Il testo su cui lavoriamo e ci confrontiamo da anni che tratta le politiche della riproduzione — il più centrale insieme agli studi femministi — è la “Storia della sessualità” di M. Foucault. Se però studiamo la storia della sessualità su un testo scritto da un filosofo che fu un omosessuale mai dichiarato, che non si confrontò con le nozioni femministe e che ignorò l’archivio coloniale lavorando sulla storia europea del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, abbiamo un problema, ed è un problema grave.

Come filosofo contemporaneo, mi chiedo da dove sia possibile pensare oggi. Il ruolo di filosofo contemporaneo è una posizione che rivendico, ovvero io non mi definisco un esperto di politiche dell’identità ma un filosofo contemporaneo — infatti, non si dice di un filosofo contemporaneo che è un “esperto del diciannovesimo secolo”, lo si definisce in quanto filosofo contemporaneo mentre, se si tratta di una persona trans, la definizione diventa subito “esperto in identità di genere”.
Tornando alla domanda, mi chiedo se sia possibile parlare se si è parte del “lumpen” somato-politico, se si è parte del margine, del rifiuto somato-politico, ovvero se sia possibile parlare dalla posizione delle donne non-bianche, delle puttane, delle frocie, delle proletarie, dei corpi trans, dei corpi colonizzati, dei corpi non abili. Mi chiedo se sia possibile pensare dalla parte delle bambine e dei bambini, dalla parte degli animali, dei vecchi, dei malati, dei poveri, ovvero dalla parte di quei corpi a cui storicamente è stato negato l’accesso alla produzione della conoscenza — come dire che non possiamo parlare producendo conoscenza — ma su cui si è prodotta conoscenza. Dalla parte di quei corpi che non hanno mai avuto accesso alle tecnologie di governo. Cosa significa parlare da questa posizione, è possibile parlare da questa posizione? Possiamo parlare noi che siamo stati esclusi dalla cittadinanza, che non siamo stati considerati come umani o che siamo ancora in lotta per essere riconosciuti come umani e che critichiamo la nozione stessa di umanità e di umanesimo, come linguaggio che fa parte della storia delle oppressioni?
Per me solo da questo luogo, da questo “lumpen” somato-politico, si può produrre pensiero oggi. È l’unico luogo da cui si può pensare, cioè da un insieme di culture di resistenza alla normalizzazione — come il femminismo radicale, le politiche queer, queen, post-porno: pensare fin dall’inizio, per violazione, contro i linguaggi egemonici che ci definiscono in quanto abiett*. Solo così si produce una parola non autorizzata, nonostante prendiamo parola usando proprio quello stesso linguaggio che ci definisce malat* e socialmente abiett*.

Si tratta di pensare a partire dal corpo, un corpo non inteso come “naturale” ma come archivio politico vivo, come ciò che io definisco “somateca”, ovvero un archivio che trasporta con sé tutta la storia dell’oppressione e, insieme, è carico di tutta la potenza rivoluzionaria, della sua resistenza. Forse avrete letto in alcuni dei miei libri che ho deciso di trasformare in un processo di scrittura — pratica che intendo come forma di azione diretta — il mio percorso di assunzione di testosterone, ciò che viene definito come un processo di transizione. Io non mi identifico come un transessuale: costruisco la mia soggettività con il testosterone come lo sciamano costruisce la sua con le piante. Di fatto, dal linguaggio medico, ciò che si pensa è che il testosterone sia la cura a una malattia mentale che viene definita come “disforia di genere”. Per questo la mia pratica di assunzione del testosterone è una pratica di disidentificazione, nel rispetto della transessualità. Mi identifico invece come pensatore contemporaneo “auto-cavia” — una nozione che deriva da alcuni medici dissidenti dell’oggettivismo scientifico che decidono di usare il proprio corpo come luogo di sperimentazione. Questa pratica che non è nuova nella storia, c’è tutta una tradizione di pensatori auto-cavia (basti pensare a Freud con la cocaina, a Benjamin con l’hashish, a Burroughs con l’eroina…), una lunga tradizione non di pensatori malati o disforici ma, semplicemente, di pensatori che costruiscono la propria soggettività attraverso piante o testosterone. Parlo di medici dissidenti, di sciamani e di figure simili perché mi interessa il loro agire una resistenza e una critica al discorso scientifico. Lo fanno perché le nozioni moderne di mascolinità, femminilità, omosessualità, eterosessualità, transessualità, intersessualità e genere sono termini che derivano dall’ambito scientifico e, infatti, una delle difficoltà più grosse delle micro-politiche del ventesimo secolo è che lavorano e si confrontano con un discorso, non più religioso o mitico (come quelli anteriori al quindicesimo secolo) ma scientifico: un linguaggio che ci descrive anzitutto come malati e poi come “utenti” di un welfare sociale che non esiste più o dell’industria farmacologica.

Sia all’interno dei femminismi sia nelle lotte queer, è importante renderci conto come i termini e le categorie contro cui lottiamo appartengano originariamente a un linguaggio tecnico-scientifico. La difficoltà è che questo linguaggio si presenta come empirico, di realtà, ci confrontiamo con un linguaggio che pretende di sapere cosa sia un uomo, una donna, un omosessuale, un transessuale, un intersessuale, etc. Non siamo quindi più davanti a una critica dei linguaggio teologici — nonostante questi continuino ad agire — ma ci troviamo in una fase diversa, aperta da pensatrici come Donna Haraway, che produce una critica all’apparato di validazione tecnico-scientifica, una critica al suo realismo naturalista, una critica a ciò che oggi è l’apparato di produzione discorsivo egemonico, o che per lo meno lo è stato fino all’avvento di Internet. Oggi possiamo dire che i due apparati di produzione del discorso dominanti sono il mercato e le reti sociali. Siamo in una configurazione ancora più complessa di quella che Donna Haraway immaginò nel 1984 (Manifesto Cyborg).

Quando parlo di un pensatore auto-cavia, un modo per immaginarlo è come se fosse un hacker che entra in un sistema operativo, che lo buca, un cyborg che apre la sua scatola nera. Negli anni ’80 e ’90, quando la ricerca sull’AIDS si avvicina all’industria farmacologica, ci sono gruppi di pazienti “tester” che non sanno se stanno ingerendo medicine o placebo. Per questo, una rete di movimenti in lotta per richiamare l’attenzione sulle vite dei malati di AIDS, soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Europa, propone di “aprire la pillola” — termine che ho ripreso diverse volte in questi anni –, ovvero si oppongono a essere trattati come consumatori ciechi dell’industria farmacologica e chiedono di sapere ciò che stanno assumendo. Questo è il processo di emancipazione cognitiva che io appoggio, “aprire la pillola” vuole dire decodificare la tecnologie che producono le finzioni politiche che crediamo che siamo, ovvero le tecnologie che ci rendono sicuri di essere maschi, femmine, omosessuali, eterosessuali, transessuali, intersessuali.

Mi chiedo come sia possibile che dentro questa complessità, cioè ancora nel 2019, stiamo utilizzando questi termini (maschio, femmina, omo, trans…) come nozioni valide, ovvero come termini che garantiscono cittadinanza e sovranità. Dovremmo essere dentro una rivolta epistemologica costante, dovremmo protestare davanti ai laboratori farmacologici, alle accademie mediche e a quelle di biotecnologia. Stiamo dando cittadinanza legale, e quindi accesso alle tecnologie di potere e della conoscenza, attraverso l’uso di nozioni che sono fondamentalmente tecniche di oppressione.
Il nostro lavoro non è quello di unirci come “donne” o come “trans”, ma di mettere seriamente in crisi l’epistemologia che ci produce come “donne” e come “trans”. Quando parlo di “aprire la pillola” e di entrare nel sistema operativo non è un parlare metaforico ma concreto tanto quanto lo è prendere il testosterone. L’inflazione del discorso sulla performatività del genere è pericoloso, il punto è la materialità del genere, è lì dove si gioca la vita di ognun* di noi, non nella sua performatività. Ci sono infatti performatività di genere naturalizzate e altre che sono teatralizzate o viste come mere imitazioni, che non sono mai riconosciute. Quindi è importante parlare di tecnologie del genere e non di performatività del genere: la performatività è solo una delle tecnologie del genere. Altrimenti il rischio è di ritrovarci in un contesto dove tutt* teatralizzano il genere limitatamente agli spazi ludici e di sperimentazione, come lo spazio del museo, mentre fuori persiste la cristallizzazione di generi egemonici, dominanti ed escludenti.

Le diagnosi necessarie per fuoriuscire da questa politica dell’identità si costruiscono intorno al concetto di “tecno-patriarcato barocco”. La complessità della condizione contemporanea è che ci sono almeno tre regimi di potere diversi che funzionano con tecniche di corpi diverse, con discorsi di legittimazione politica e sociale diversi e, quindi, con processi di soggettivazione totalmente diversi. L’assemblaggio di questi tre regimi discorsivi del contemporaneo è ciò che definisco come tecno-patriarcato barocco. Questo determina il fatto che molte delle lotte in cui siamo implicat* sono difficili da gestire perché dobbiamo combattere, allo stesso tempo, contro tre forme di produzione del corpo e della soggettività che sono distinte e anche in opposizione tra di loro. Questi tre regimi li identifico a partire dalla loro capacità di aver prodotto storicamente un corpo sovrano come finzione politica. Uso il termine barocco, riferendomi allo stile che nasce tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo in Spagna come simbolo della colonizzazione, lo stile che è l’estetica della colonizzazione, dell’eccesso, dell’eccesso di oro che proviene delle miniere delle colonie (Potosí, Bolivia — Img. 13). Quel barocco quindi che nasconde un profondo processo di oppressione e di espropriazione. Oggi ci troviamo davanti a un nuovo barocco che nomino tecno-patriarcale perché in parte eredita i presupposti dell’estetica coloniale, però li amplia e li implementa all’infinito. Questa condizione tecno-barocca è la condizione della luminosità dello schermo [del cellulare], il nostro oro è diventato la luce dello schermo. Quello che c’è dietro allo schermo, infatti, è la distruzione totale della vita sul pianeta. Questo è ciò che definisco come tecno-patriarcato barocco: il risultato dell’esercizio della politica pensato come la sovranità di un solo corpo sulla totalità del pianeta.

Ci sono quindi tre protagonisti in questa storia, tre finzioni politiche storiche ancora attuali che ci abitano. Stiamo parlando di un materialismo somatico, finzioni politiche materiali che si trasformano in corpi vivi e che si affermano in corpi sovrani, che definiscono le condizioni attraverso cui un corpo accede alla vita. Si tratta quindi di tecnologie di riproduzione della vita. Se accediamo a una certa sovranità, lo facciamo solo perché incarniamo una finzione necropolitica.

La prima figura è il “padre necropolitico”.
Necropolitica è una nozione che è stata utilizzata inizialmente da Michel Foucault e Achille Mbembe. Nessuno dei due, però, ha mai messo a fuoco la relazione strettissima tra necropolitica e mascolinità, questo perché nessuno dei due era femminista e, ancora una volta, ci troviamo davanti a un bel problema. La necropolitica è la condizione attraverso cui la sovranità si definisce in quanto potere di dare la morte. Come per la logica della frontiera, la sovranità degli stati Europei è pura necropolitica. Lo stato italiano è uno stato sovrano nella misura in cui può generare morte nelle frontiere, allo stesso modo, Trump definisce sovranità attraverso la necropolitica. Questa è la tecnica di governo principale di chi definiamo come umanità. Nella storia, non abbiamo fatto altro che governare attraverso la necropolitica.
Il corpo sovrano è il corpo che ha il diritto di uccidere. Per Foucault il corpo sovrano è il corpo del Re, per Mbembe è quello del colonizzatore ma per me, che sono un vecchio femminista, il corpo sovrano è soprattutto il corpo maschile, il corpo del padre. La paternità storicamente non si definisce come il potere di dare la vita ma di dare la morte, di uccidere donne, sudditi, bambini, animali … questa è la definizione necropolitica della sovranità, la più antica e quella che costituisce il corpo mascolino come corpo centrale delle politiche occidentali.
Da sempre il padre necropolitico si inscrive come corpo anatomico unico sovrano, cioè dall’invenzione del linguaggio anatomico nel quindicesimo secolo. Nel linguaggio anatomico-scientifico non esiste il corpo femminile, non esiste la vagina che è infatti rappresentata da Andreas Vesalius nel Cinquecento (“Tabulae Anatomicae Sex” — Img 14) come un pene invertito e interiorizzato, come una variazione degenerata della mascolinità. Vuol dire che fino al diciottesimo secolo l’unico corpo con esistenza politica è quello maschile, un corpo sovrano con una somatizzazione che definisce la sua sovranità: la sua capacità necropolitica.

Se il corpo mascolino è stato definito per l’uso delle tecniche di violenza, mi riferisco qui e ora a chi è nato o si definisce come “maschio” o a chi come me agisce una finzione politica per apparire come maschile: qual’è la nostra relazione con le tecniche della violenza? Se storicamente la mascolinità si è definita attraverso l’uso di queste tecniche necropolitiche, oggi, una pratica somato-politica radicalmente femminista è un movimento di disidentificazione con la mascolinità necropolitica da parte di tutti quei corpi a cui è stato assegnato il sesso maschile. Fino a quando ciò non succederà, non si avanzerà di un solo passo: siamo d’accordo?
Certo è difficile immaginare un processo radicale di disidentificazione che porti tutt* quelli che sono o si identificano come maschi a mettere in crisi la definizione necropolitica della mascolinità. Questa però è la questione centrale del movimento #metoo e di @Non Una di Meno, perché le tecniche della violenza sono l’oppressione, l’espropriazione e chiaramente anche l’abuso sessuale. L’abuso sessuale non è un’estensione, è la legge stessa della mascolinità necropolitica, è terribile da sentire ma è così: l’abuso sessuale è la conseguenza diretta della definizione necropolitica della mascolinità nella modernità. Non basta quindi un processo di ribellione, come il #metoo e Non Una di Meno che producono una restrizione della definizione necropolitica della mascolinità. Non basta che i corpi a cui è stato assegnato il sesso femminile chiedano la redistribuzione delle tecniche della violenza, ovvero dicano “dividiamoci le armi”, questo può funzionare solo all’interno di un movimento somato-politico. Se un femminismo “naturalizzato” chiedesse il riconoscimento solo delle “donne”, attraverso il restringimento delle tecniche della violenza nei loro confronti, il discorso tornerebbe a non funzionare, ad avere anche qui un grosso problema…

C’è bisogno quindi anche di un movimento di disidentificazione e questo può nascere solo da quei corpi che sono stati definiti in quanto maschi e da un loro un processo di disidentificazione anti-necropolitica. Per esempio, se io accetto di andare dal giudice fingendo un’infermità mentale per poter continuare a interpretare questo mio corpo, ovvero questa somateca che non rientra tra le finzioni politiche del governo spagnolo, perché non è possibile un movimento di apostasia collettiva dalla mascolinità, di apostasia dal genere?

Voglio tornare però al femminismo, cancellato sistematicamente dalle istituzioni che producono conoscenza. Ci sono persone che escono da scuole, università e centri di ricerca senza aver mai letto la produzione teorica e politica femminista e questo fa sì che siamo davanti a una precarietà cognitiva tremenda. Gli incontri come oggi sono importanti perché noi dovremmo prenderci e riprenderci le istituzioni costantemente.
Nel 1871 la parola “femminismo” fu usata per la prima volta da un giovane medico francese di nome Ferdinand-Valère Fanneau de La Cour nella sua tesi di dottorato “Sul femminismo e l’infantilismo nei malati di tubercolosi”. Qui è intesa come una patologia degli uomini affetti da tubercolosi per cui si produce una femminilizzazione del loro corpo. Questi furono i primi femministi della storia: rivendico un movimento di nuovi femministi!
Pochi anni dopo, Alexandre Dumas, uno giornalista, utilizzò di nuovo la parola femminismo per insultare gli uomini che appoggiavano la causa delle cittadine che chiedevano di votare. Le suffragette lottavano per il diritto al riconoscimento delle donne e quindi per un loro accesso alle tecniche di governo. Gli uomini che si affiancarono alle loro lotte vennero definiti femministi, ovvero infermi, deboli e femminilizzati. Solo oltre quarant’anni dopo le suffragette si identificarono come femministe, è interessante sapere come storicamente questa nozione di femminismo sia stata creata in campo medico e applicata agli uomini come un insulto. Per questo è importante e radicale pensare alla storia come una storia di lotte trasversali, dobbiamo smettere di guardare alla storia come successione di identità e cominciare invece ad assumere una prospettiva trasversale. Quindi il padre necropolitico è la prima finzione politica viva che l’occidente inventa, un soggetto che come sappiamo ha creato e crea diversi problemi sociali.

La seconda finzione, il secondo corpo politico vivo inventato non solo dall’occidente ma dall’occidente capitalista e colonialista, è la “madre biopolitica”.
Per la prima volta, a partire dal diciottesimo secolo, un corpo femminile — però, attenzione, capace di riprodursi, ovvero di essere utero di nuova vita — viene riconosciuto come soggetto anatomico e legale. Tutto ciò avviene in tempi estremamente recenti, per questo le lotte in cui siamo coinvolte sono battaglie giovanissime oltreché enormi. L’apparizione della finzione della madre biopolitica nasce in contemporanea con l’espansione del capitalismo e della colonizzazione. Con il corpo della schiava delle piantagioni come luogo centrale di produzione di valore.
Si parla di Adam Smith come il fondatore dell’economia liberale (Wealth of Nations, 1876), fondamento delle democrazie parlamentari europee e americane. Quello però che sta dietro a Smith e al liberalismo non è che il “codice negro”, il codice degli schiavi, il primo trattato che dà potere agli stati europei e americani di comprare e vendere corpi vivi. Questo è il fondamento del liberalismo. Quindi la vera macchina del capitalismo moderno non è la macchina a vapore ma il corpo umano vivo e, sopratutto, il corpo della schiava procreatrice. Ciò ci permette di rigirare quasi completamente il marxismo, cosa succederebbe al plusvalore di Marx, infatti, se egli avesse dato attenzione non solo alle merci e alle macchine, ma anche ai corpi in cui si produce valore?

Le finzioni politiche vive si inventano costantemente — io stesso sono il risultato di una finzione politica che non esisteva cinquanta anni fa, non era infatti possibile fino a poco tempo fa essere transessuali, cambiare statuto legale, costruire soggettività intorno all’assunzione di testosterone. Un aspetto politico interessante è quello di prendere coscienza di quale sia la finzione politica viva che incarniamo e rappresentiamo, quali sono le tecnologie che ci costituiscono come soggetti: siamo tutti costruiti da tecnologie di finzioni politiche che ci costituiscono. Una persona trans non è più costruita di un maschio bianco eterosessuale di classe media. La differenza sta nello statuto legale delle tecnologie che ci costituiscono e nell’accesso che abbiamo a queste tecnologie. Nessun* è più naturale di qualcun*, siamo ugualmente naturali e viv*, però, alcune condizioni di vita sono mediate da una epistemologia estremamente restrittiva che continua a mettere in questione la nostra sovranità politica e legale. Mi auspico una chiamata collettiva verso un processo di emancipazione cognitiva. Mi chiedo come sia possibile ancora credere di essere uomini, donne, etero, etc, quando sappiamo — oggetto di dibattiti scientifici senza sosta dagli anni ’40 in avanti — che almeno 4 neonati su 100 nascono definiti “intersessuali”, neonati che non possono essere subito incasellati come maschi o come femmine in accordo con le teorie della differenza sessuale. Visto che ci sono altre opzioni, il discorso medico potrebbe facilmente cambiare l’epistemologia sessuale, “aprirla”. In questi ultimi decenni c’è un dibattito accesissimo nel campo scientifico sul genere, se siano due, tre, quattro o infiniti; se il sesso debba essere definito cromosomicamente, geneticamente o anatomicamente. Ma davanti a tutte queste possibilità di modifica dell’epistemologia sessuale, ciò che realmente succede è che si produce una continua patologizzazione dei corpi che non possono essere incasellati in questo binarismo, e la loro relativa esclusione dalla legalità. Ai neonati intersessuali, per esempio, si applicano le stesse tecniche di transizione che agisco io in modo consapevolmente.
L’insieme del discorso medico, genetico, cromosomico, endocrinologo è totalmente consapevole oggi dello iato epistemologico che produce il sistema binario. Allora perché si preserva questo binarismo epistemologico? La risposta è ovvia: il binarismo corrisponde alla distribuzione sociale del potere tra un insieme di istituzioni. Modificarlo vorrebbe dire portare al collasso tutte le istituzioni che conosciamo senza lasciarne nessuna in piedi: la famiglia, la scuola, lo Stato, gli ospedali… Tutte le istituzioni oggetto della critica istituzionale a partire dagli anni ’70 crollerebbero se fosse messa in crisi e modificata l’epistemologia binaria dell’attribuzione del sesso. Dal mio punto di vista, questo dovrebbe essere il centro delle lotte di un movimento somato-politico e non la conquista del matrimonio gay! Sempre parlando di strategie, allo stesso modo, mi chiedo come sia possibile che i corpi a cui è stato assegnato il sesso femminile stiano chiedendo le quote rosa negli ambiti istituzionali: abbiamo bisogno di una rivoluzione totale non di alcune quote nelle istituzioni dominanti. Com’è possibile che i corpi maggiormente oppressi dalle tecnologie di governo, come lo sono le donne nella società contemporanea, “stiamo” chiedendo di essere riconosciute come donne? Sottolineo il fatto che mi includo in questa riflessione perché sono stata cresciuta come femmina e tutte le cellule del mio corpo mantengono questa memoria. Il fatto che abbia transitato verso la finzione maschile mi ha permesso di osservare qualcosa che dovrebbe essere il solo motivo di una rivoluzione globale, qualcosa di totalmente inimmaginabile: transitare alla sovranità necropolitica è molto peggio di ciò che si possa pensare. Questa è la distorsione da cui parto quando affermo che un’emancipazione cognitiva non passa per le quote rosa o per i matrimoni, ma per la trasformazione radicale dell’epistemologia sessuale in cui siamo immers*.

Siamo immers* in un processo di produzione materiale di corpi, non simbolica. Il genere non è una performance o una categoria, è un congiunto di relazioni di potere che crea i corpi. Quando si inventa la madre biopolitica, la femminilità come differenza e verità anatomica, si inventa un nuovo corpo che anche la biologia comincerà a sostenere. Attraverso questo riconoscimento viene dato così statuto a nuovi organi e questa è una questione importantissima: le battaglie in cui siamo immers* parlano sempre della ridefinizione degli organi. Lo sanno bene le femministe degli anni ‘70/’80/’90 che hanno lottato per la riappropriazione dell’utero, ovvero di un organo che è sempre stato dentro il loro corpo ma non gli ha mai appartenuto. Anche dopo il riconoscimento della cittadinanza tramite voto, un organo interno è rimasto nelle mani della gestione necropolitica della storia. Torno a dire che questa è la battaglia dei movimenti #metoo e Non Una di Meno, una lotta molto materiale che ci mostra chiaramente chi gestisce cosa.

La costruzione della finzione di un corpo è lenta, pezzo dopo pezzo, come accade ora con i corpi trans e intersex: riscontro direttamente come le battaglie dei discorsi medici e mediatici agiscono sul mio corpo. Quello che succedeva tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo è che l’utero progressivamente si andava incorporando dentro il corpo femminile. Dove stava l’utero infatti? L’utero stava nell’ambito della gestione patriarcale, non esisteva un soggetto femminile e quindi era disincorporato. Poco a poco, in maniera estremamente maldestra, l’utero si incorpora fino a produrre la finzione politica della madre biopolitica, del corpo femminile riconosciuto come utero e come soggetto legale e sovrano nella misura in cui è capace di procreare. Un totale allineamento con la legge necropolitica patriarcale, ovvero con una legge di occupazione e di espropriazione: ciò che si produce nell’utero non appartiene alla madre ma al padre. La battaglia per l’incorporazione dell’utero e per il possesso della sua produzione è tutt’oggi una questione aperta.

Abbiamo quindi due battaglie e due linguaggi totalmente distinti: la prima di restrizione della sovranità delle tecniche necropolitiche mascoline, la seconda, di riappropriazione del corpo femminile come un corpo con utero.
L’eterosessualità — per come la conosciamo da quando è stata inventata nel 1868, cioè la finzione della normalità — è ciò che io definisco come l’incontro impossibile, la storia d’amore assurda tra il padre necropolitico e la madre biopolitica: l’incontro tra Alien e RoboCop. Solo un* figli* cybernetico può uscire da questa unione…

Dopo il 1950 comincia a prodursi una nuova forma di governo della sessualità. Si introduce infatti la nozione di “genere” — cosa che non esisteva nella biopolitica del diciannovesimo secolo — a partire dall’invenzione e dalla commercializzazione della pillola anticoncezionale. Questo crea un segno totalmente diverso dalla biopolitica precedente. Separare tecnicamente sessualità e riproduzione, infatti, fa esplodere letteralmente il concetto di eterosessualità con cui lavorava tutta la biopolitica del diciannovesimo secolo. Mi chiedo come sia possibile il fatto che continuiamo a considerarci eterosessuali e omosessuali dentro una società che consuma, come oggetto farmacologico, tante pillole per il dolore allo stomaco quante pillole anticoncezionali. Se non c’è più una connessione stretta tra sessualità e riproduzione non c’è più eterosessualità! Questo vuole dire che pensiamo la sessualità contemporanea con nozioni obsolete che appartengono alla gestione della riproduzione biopolitica del diciannovesimo secolo, in un momento in cui la necropolitica patriarcale, cioè il padre necropolitico, si confronta con l’industria farmacologica per poter continuare a controllare la riproduzione femminile. Questa è la battaglia che si sta consumando in tutti i laboratori del mondo mentre noi chiediamo le quote rosa dentro alle istituzioni: insomma siamo confuse.

Nei laboratori stanno inventando l’utero artificiale, quindi l’utero che ha incontrato un corpo riconosciuto legalmente come donna nei secoli diciotto, diciannove e venti, nel giro di poco abbandonerà questo corpo femminile. Siamo in un momento di esternalizzazione delle funzioni riproduttive e di tecnicizzazione dei fluidi riproduttivi. Stiamo vivendo una battaglia tra la sovranità necropolitica e l’era, come la chiamo io, farmacopornografica. Il peggiore dei futuri immaginabili, in parte già in corso, è un’alleanza strategica tra i poteri necropolitici patriarcali e quelli farmacopornografici.
È davanti a quest’alleanza che dobbiamo articolare risposte che non possono più essere pensate come politiche identitarie: non ha senso parlare di uomini e donne, non ha senso parlare di omosessualità ed eterosessualità. Stiamo ancora organizzando i nostri movimenti sociali come movimenti di donne, di omosessuali… quando il movimento più interessante dovrebbe essere un movimento di disidentificazione collettiva, fatto di alleanze trasversali che mettono in crisi le diverse epistemologie che alimentano il tecno-patriarcato barocco.
Questo però ci impone di uscire dai luoghi in cui facciamo politica in modo “naturale”, dovremmo disidentificarci da questi luoghi e cercare altre e nuove alleanze.

--

--