Il PNRR come la sanità lombarda?
Ma dovremmo trovare metodi per fare come quella veneta
È risaputo: la regione Lombardia ha avuto un gran successo negli anni passati per la sua gestione lato sanità, soprattutto per la sua capacità di accentrare e industrializzare i servizi.
Se da un lato questo è stato ottimo per alcune politiche, dall’altro ha reso più facile però il diffondersi del Covid.
Dall’altra parte della barricata, altre sanità come quella del Veneto sono meno virtuose economicamente e come servizi ma hanno una capillarità territoriale che permette ancora una pervasività degli stessi, soprattutto per persone che hanno meno possibilità anche di spostarsi.
Parto da questo esempio perché mi sembra fortemente che la politica del PNRR e della finanziaria di questo anno, sia molto più lombardo-accentratrice e «industrializzante», rispetto alle reali necessità imprenditoriali legate al territorio.
Se la concentrazione dei progetti in grandi realtà o in centri innovativi (vedi DIHs – EDIHs – siti/ecosistemi innovativi come nei bandi Agenzia Coesione – leggi e sistemi di reindustrializzazione etc) potrebbe dare vita anche ad una positiva viralita’ delle aziende che sono fisicamente dentro, nelle vicinanze fisiche o di rete/filiera di tali centri, dall’altra parte trovo difficile arrivare ad una marea di aziende fuori da associazioni, ecosistemi, dai centri urbani, fuori spesso dal web, sparse nei territori, non solo del Sud Italia.
Imho, bisognerebbe mettere in atto un modello di sviluppo capillare e pervasivo che faccia da collante con tali centri “industriali” di innovazione e che possa mettere a disposizione le opportunità ai piccoli imprenditori – sia soprattutto di manifattura in subappalto (quelli senza marketing e senza prodotto spesso, solo braccia) e sia di servizi a basso valore aggiunto (quelli spesso con solo prodotto e neanche la forza di fare marketing) – come tutte quelle occasioni e modalità di approccio al cambiamento che possono fare la differenza, per poi magari attrarlo verso centri, ecosistemi e modelli di aggregazione industriale.
Un metodo che possa rendere commodity la consulenza, i servizi a valore aggiunto, la comunicazione, il credito veloce, la tecnologia «as a service» per dare spazio ad una cultura di piccoli test e cambiamento (necessaria a tutti i soggetti più piccoli sparsi nei territori per fare il primo passo soprattutto), di esercizio e running, piuttosto che quella cultura di setup, macchinari, investimenti (sempre più difficile in una Italia avversa alla messa a terra di grandi cambiamenti) fatta per quelle aziende tecnologiche o con capacità di investimento finanziario.
Prova pratica ne sono la riduzione del credito di imposta in ricerca e sviluppo (cioè meno test, MVP, cambiamenti: dunque meno territorio e capillarità unità a velocità di credito e tecnologia as a service) e il cambio del Patent Box da mercato running ad investimenti/setup con il combinato disposto di dare molto più spazio a nuova Sabatini o superammortamento.
Ragioniamo bene, il mondo del ‘900 riproposto con i modelli industriali centralizzati e investimenti a monte (legati si a quell’Italia che investe in export ma che si allontana sempre più dall’altra), non è la soluzione capillare per arrivare alle aziende del Sud senza infrastrutture, come però neanche a quelle della pianura padana fuori dal territorio e senza ecosistema.
Mario, meditiamo bene, grazie.