L’ennesimo “manovale d’impresa”
Non diamo – solo – soldi ma diffondiamo nuove conoscenze per farli
Non è più possibile pensare di fare impresa con basso valore aggiunto, solo di «manovalanza»; è arrivato il momento in cui tutti dobbiamo creare valore e proporlo nel proprio ambito, in ottica di responsabilizzazione, così come abbiamo fatto per il lockdown, dove ognuno ha fatto la sua parte, mettendosi in gioco.
Un metodo diverso: valorizziamo le aziende di servizi a valore aggiunto e di consulenza a supporto delle imprese produttive.
È molto più della formazione che si sta dicendo di fare.
Piemonte, 4 dipendenti più lui e moglie, indotto Fiat: produce (anzi taglia e assemblea con altro pezzo) mini cilindri di plastica che fanno da cuscinetto per parasole auto:
- prezzo basso e volumi alti
- ripetitività ma con commesse che non giustificano automazione
- margine inesistente
In subappalto:
- iva non pagata
(non per mancati pagamenti o investimenti non finanziati, lavora sotto margine!)
- cassa minima (con basso capitale sociale)
- basso appoggio bancario
- nessun accesso al credito agevolato
- nessuna partnership
5 dipendenti con se stesso.
Alcune idee ma senza sapere cosa, come, quando, a chi rivolgersi, da dove partire.
Commessa a termine, difficile da rinnovare post-covid. Fiducia pari a zero.
L’ennesimo; eccone alcuni altri incontrati negli anni passati:
- indotto appalto Lottomatica, assemblaggio macchinari
(sotto costo con iva non saldata);
45 dipendenti.
- indotto appalto Banca D’Italia con sviluppatori piazzati a margine quasi zero;
50 dipendenti.
- comunicazione per grande gruppo concorrente di Ikea: operatori spremuti all’osso, dall’alto.
20 dipendenti.
E tanto altro…
Esiste una fascia di centinaia di migliaia di imprese e imprenditori, che vivono di indotto o in filiere (non quelle di eccellenza, nella maggior parte dei casi), con lavoro quasi sempre solo manuale, da commesse in subappalto, con milioni di addetti al seguito, che insieme ad altri micro imprenditori che hanno qualche prodotto o servizio di proprietà (indipendenti da subappalti) con minimo valore aggiunto, rappresentano almeno 10 milioni di lavoratori dei 17 di forza lavoro privata in Italia. Quella che dovrebbe aiutare a creare valore e pagare tasse, perché non ci finanzieranno all’infinito.
Quello a cui dovrebbero andare molti dei 209 miliardi del piano europeo: siamo sicuri che sapranno farli fruttare come «debito buono»?
Imprese spesso rimaste al ‘900 che sono ancora considerate la spina dorsale ma NON sono le PMI come si intendono:
sono micro/piccole aziende, anzi no.
In realtà, sono imprenditori con qualche collaboratore è una serie di operativi a «fisarmonica».
Perché rimasti al ‘900?
Tuttavia:
- o solamente “manovali d’impresa”,
- buoni venditori,
- o inventori di prodotti/servizi,
sono tanti e diffusi i micro e piccoli imprenditori italiani con grande forza, peculiarità ed elementi distintivi: insomma delle “macchiette” con ognuno il suo merito, la sua volontà di produrre, spesso la sua visione, oggi arrabbiati e sfiduciati con una capacità produttiva del lavoro e del capitale così bassa da essere il vero problema del nostro paese.
Un mercato che definisco «off», contrapposto ad uno «on».
Persone a cui non importa spesso nulla di ciò che si propone, sia dalla politica/istituzioni, sia da colleghi di sevizi KIBS, VAS e consulenza, perché in realtà, tutta questa offerta, sbaglia merito e metodo di proposte.
E qui il problema/causa non è la dimensione e questo maledetto nanismo (che sicuramente ha effetti su capacità produttiva e indipendenza, anche nazionale): la dimensione è la conseguenza di un approccio e di politiche (e modelli di gestione aziendale) che non funzionano, che fanno tutto tranne di prendere il toro per le corna.
Non sono neanche problemi/divari del Sud, qui ci sono territori nelle aree interne o nella nebbia più sommersa della “padania” che sono isolati fisicamente e imprenditorialmente e a cui non si risolve mai alla radice il problema con tutto ciò che indico sotto:
- detassazione per far ripartire i consumi? Penso di no.
Il mondo è ormai un mercato di offerta e non di domanda: la fiducia è così bassa lato utente che i soldi li mette fisicamente sotto il cuscino e li tira fuori davvero solo per cose che funzionano e di grande qualità, dunque una vera offerta per cui ne vale la pena.
- Contributi a fondo perduto per investimenti?
Qui parliamo di soggetti che rischiano di investire male perché il mondo è cambiato e non sanno come fare, da una parte; dall’altra, non hanno liquidità per spese correnti parallele, a partire dalla comunicazione che, nei principi IAS e similari, sarebbe il caso la mettano come investimento a tutti gli effetti.
- Assistenzialismo statale a pioggia di agevolazioni anche in conto esercizio?
Non offrendo niente di strutturale che sia strategicamente di guarigione oltre che palliativo? Ma siamo matti! Sono buttati come il reddito di cittadinanza per chi non ha lavoro.
- Allora 4.0. Innovazione, DIH, Competence Center.
Distante come la luna a tali persone a cui serve guardare intanto al dito perché sono rimasti ad una economia 3.0 a chi va bene, la maggior parte ancora al 2.0 senza automazione/pc/sito web/CRM/gestionale etc.
- Export come politica industriale.
Sperando in un indotto a traino o motivo di spinta di innovazione (che funziona solo in pochi settori come meccanica, elettronica, luxury o farmaceutico e rischia divari ancora maggiori da chi non riesce, in settori e territori diversi – vedi anche questo altro articolo)
- Aziende di Stato che creano indotto?
Umh…ma anche molta inefficienza e spesa pubblica con “postifici” e clientelismo.
- Parliamo allora di startup e restart tecnologico.
Bello si ma non ci prendiamo in giro, sono nuove imprese di giovani soprattutto che devono crescere e si danno un minimo di autoimpiego, niente a che fare con microimprenditori del ‘900 che di coding, AI, IoT etc non sanno nulla.
Tutto questo, più o meno mixato a se stesso e ad altro, funziona poco se il divario è enorme tra chi sa’ fare impresa e chi non la sa’ fare: non si vedono risultati immediati con nessuna di queste soluzioni se non per pochi ed è difficile che svolti lavoro e macroeconomia, soprattutto a breve termine, in una società impaziente e incapace di costruire in anni.
Esiste una ricetta unica? Oppure una formula?
No, non esiste una ricetta unica e probabilmente neanche una formula ma, un punto di partenza, per urgenza, importante e come perno centrale, secondo me, si.
Due facce di una stessa medaglia.
Da una parte, una questione di policy.
L’approccio (di partenza) potrebbe essere quello di dare a tutti un ruolo e la possibilità di mettersi in gioco e dire «fai anche tu» perché la soluzione non l’abbiamo (visione Kennediana).
D’altra, strumenti per farlo.
Dare dunque modo di creare, produrre e diffondere valore, in ottica di una scia di responsabilizzazione personale come quella “sanitaria” avvenuta in epoca lockdown (Confucio?…).
Con la politica che “offre” però sempre fantomatiche e facili soluzioni che svoltano velocemente, vincerà una fazione o un’altra che farà da «papà» fino alla delusione successiva: fino a quando andrà avanti la questione del «one-man-solution» che elargisce contributi, rottamazioni, euro, condoni per appoggio politico e fini elettorali?
Il problema è che il ruolo e la possibilità di essere “creatori di valore” si hanno quando qualcuno offre opportunità sotto forma di strumenti che hanno costo basso di accesso, sia economico che di effort o anche emotivo!
Il primo strumento tra tutti è la «diffusione della conoscenza» di come brutalmente si «fanno i soldi» e non la «politica della (finta) soluzione e del ci penso io» che genera l’approccio «dammeli per andare avanti»
La logica è quella di uscire da un assistenzialismo che è palliativo da un lato ma è soprattutto logica di sottomissione dall’altro!
Il punto focale e centrale della mancanza di produttività, di basso valore aggiunto, di poca liquidità e indipendenza è la conoscenza (nuova) di fare impresa e produrre valore da parte dei milioni di imprenditori, soprattutto comodity, sopra citati.
Non e più possibile dire ai produttori di latte di essere dietro a filiere che li sottomettono da un lato; dall’altro, non è più possibile attendere dall’alto contributi palliativi su formule di lavoro senza valore aggiunto o normative che impongono prezzi ai mercati.
Il modello di innovazione, di comunicazione, di digitalizzazione e soprattutto trasformazione digitale deve essere diffuso capillarmente: gli imprenditori di piccolo taglio devono uscire fuori dalla «logica manuale» e di indotto del ‘900 e abbracciare logiche di creazione di valore ed esperienza, comunicazione, community, valore aggiunto e, possibilmente di asset da creare, perché altrimenti saranno sempre sotto scacco di filiere che li spremono o di politici che promettono!
Ci sono buone possibilità per fare una azione capillare per diffondere conoscenza di metodi, di persone, di strumenti, di realtà, di azioni che possano, in 3–5 anni, fare il salto del micro e piccolo imprenditore.
Metodologie e strumenti non tecnici o solo tecno ma soprattutto (a monte, a priori, insomma prima di tutto) manageriali, gestionali, progettuali, organizzativi, di come (ri)organizzare molteplicità di soluzioni, di settori e di aeree, di come, quando, perché fare scelte più complesse e di trade-off rispetto al passato nel quale bastava volontà, poca specializzazione, una idea di prodotto/servizio, una saracinesca e l’amicizia con direttore di banca senza alcuna Basilea.
Tra tutte quante le scelte e i canali di diffusione, propongo non di passare per istituzioni o direttamente per le imprese, ma per qualcuno che possa far capire il nuovo modello di riprogettare.
Alcuni spunti:
- politiche di avvicinamento (diminuzione di distanza fisiche e sociali, abbassamento dei costi per servizi a valore aggiunto) a società di consulenza e direzione aziendale, di strategia e di visione globale e di lungo termine perché i micro non hanno capacità dimensionale oggi e molti specializzati di valore aggiunto perché NON HANNO MAI FATTO strategia e pianificazione prima, propedeutiche e fondamentali come approccio, imparando delle grandi imprese o quelle più smart-innovative e digitali;
Come sarà possibile diffondere strumenti e soldi di innovazione/digitalizzazione se prima non si insegna a farla?
- strumenti, persone e situazioni per facilitare la capacità di creare e progettare nuovi prodotti-proposte-esperienze e saperle comunicare (business designer, esperti digital e comunicazione, metodi di design thinking etc…), e saperle produrre (tecnologhi, ingegneri, esperti digitale, reti, IoT etc.): siamo ancora il paese che finanzia i macchinari e non l’idea di utilizzarli e mixarli “al lavoro e al consumo” che vale di più di un pezzo di ferro, nel mondo immateriale di oggi;
- realtà pubbliche o private con un “braccio armato” di migliaia di manager adatti che possano aiutare i soggetti in questione a gestire il cambiamento, i progetti per ampliare, riconvertire, sviluppare le priorità: non solo formazione 4.0 ma soprattutto modalità di progettazione congiunta di aree di impresa mixate rispetto agli strumenti (comunicazione, finanza, ricerca e sviluppo etc sono parole di tutti e non solo dei grandi…).
La consulenza direzionale in Italia è fatta da oltre 23.000 imprese e 45.000 addetti, per non parlare di un mondo di consulenti, business designer, innovation manager, ma anche dottori commercialisti giovani su cui puntare: perché non pagare e responsabilizzare (dare spazio e fondi) loro su come diffondere consulenza di strategia, riorganizzazione e progettazione con un bando/misura della portata economica e capillare dei navigator che non servono a nulla proprio perché non hanno a priori nessun campo su cui lavorare come quello che si potrebbe creare con questo approccio?
Va assolutamente offerta di nuovo una nuova possibilità di fare impresa dove il digitale, il lavoro smart, l’innovazione e la tecnologia, ma soprattutto i contributi, la parte finanziaria etc sono componenti di un mondo più complesso che bisogna sapere gestire congiuntamente, in maniera interdisciplinare e non singolarmente, a compartimenti stagni, in divisione di aree o di argomenti.
Non si possono dunque dare strumenti per innovare senza diffondere il modo e la conoscenza di innovare.
Ma chi vuole tutto questo?!
Molto pochi: al resto piacciono, e servono, logiche vecchie e improduttive.
Ma attenzione, se tante volte, azzeccano qualche misura di grande numero, valore, di “sistema” come si dice, allora sarà compito di tutti utilizzare i fondi del programma Next Generation con criterio e senza spreco, con investimento per il ritorno di valore e cassa, altrimenti chi paga il prestito mega di questi anni?
Ognuno la sua parte, diamogli un senso, iniziamo dalla conoscenza di come fare, grazie.