L’ennesimo “manovale d’impresa”

Non diamo – solo – soldi ma diffondiamo nuove conoscenze per farli

Un metodo diverso: valorizziamo le aziende di servizi a valore aggiunto e di consulenza a supporto delle imprese produttive.

È molto più della formazione che si sta dicendo di fare.

Commessa a termine, difficile da rinnovare post-covid. Fiducia pari a zero.

Esiste una fascia di centinaia di migliaia di imprese e imprenditori, che vivono di indotto o in filiere (non quelle di eccellenza, nella maggior parte dei casi), con lavoro quasi sempre solo manuale, da commesse in subappalto, con milioni di addetti al seguito, che insieme ad altri micro imprenditori che hanno qualche prodotto o servizio di proprietà (indipendenti da subappalti) con minimo valore aggiunto, rappresentano almeno 10 milioni di lavoratori dei 17 di forza lavoro privata in Italia. Quella che dovrebbe aiutare a creare valore e pagare tasse, perché non ci finanzieranno all’infinito.

Quello a cui dovrebbero andare molti dei 209 miliardi del piano europeo: siamo sicuri che sapranno farli fruttare come «debito buono»?

Imprese spesso rimaste al ‘900 che sono ancora considerate la spina dorsale ma NON sono le PMI come si intendono:

Perché rimasti al ‘900?

Persone a cui non importa spesso nulla di ciò che si propone, sia dalla politica/istituzioni, sia da colleghi di sevizi KIBS, VAS e consulenza, perché in realtà, tutta questa offerta, sbaglia merito e metodo di proposte.

E qui il problema/causa non è la dimensione e questo maledetto nanismo (che sicuramente ha effetti su capacità produttiva e indipendenza, anche nazionale): la dimensione è la conseguenza di un approccio e di politiche (e modelli di gestione aziendale) che non funzionano, che fanno tutto tranne di prendere il toro per le corna.

Il mondo è ormai un mercato di offerta e non di domanda: la fiducia è così bassa lato utente che i soldi li mette fisicamente sotto il cuscino e li tira fuori davvero solo per cose che funzionano e di grande qualità, dunque una vera offerta per cui ne vale la pena.

Qui parliamo di soggetti che rischiano di investire male perché il mondo è cambiato e non sanno come fare, da una parte; dall’altra, non hanno liquidità per spese correnti parallele, a partire dalla comunicazione che, nei principi IAS e similari, sarebbe il caso la mettano come investimento a tutti gli effetti.

Non offrendo niente di strutturale che sia strategicamente di guarigione oltre che palliativo? Ma siamo matti! Sono buttati come il reddito di cittadinanza per chi non ha lavoro.

Distante come la luna a tali persone a cui serve guardare intanto al dito perché sono rimasti ad una economia 3.0 a chi va bene, la maggior parte ancora al 2.0 senza automazione/pc/sito web/CRM/gestionale etc.

Sperando in un indotto a traino o motivo di spinta di innovazione (che funziona solo in pochi settori come meccanica, elettronica, luxury o farmaceutico e rischia divari ancora maggiori da chi non riesce, in settori e territori diversi – vedi anche questo altro articolo)

Umh…ma anche molta inefficienza e spesa pubblica con “postifici” e clientelismo.

Bello si ma non ci prendiamo in giro, sono nuove imprese di giovani soprattutto che devono crescere e si danno un minimo di autoimpiego, niente a che fare con microimprenditori del ‘900 che di coding, AI, IoT etc non sanno nulla.

Esiste una ricetta unica? Oppure una formula?

Da una parte, una questione di policy.

L’approccio (di partenza) potrebbe essere quello di dare a tutti un ruolo e la possibilità di mettersi in gioco e dire «fai anche tu» perché la soluzione non l’abbiamo (visione Kennediana).

D’altra, strumenti per farlo.

Dare dunque modo di creare, produrre e diffondere valore, in ottica di una scia di responsabilizzazione personale come quella “sanitaria” avvenuta in epoca lockdown (Confucio?…).

Con la politica che “offre” però sempre fantomatiche e facili soluzioni che svoltano velocemente, vincerà una fazione o un’altra che farà da «papà» fino alla delusione successiva: fino a quando andrà avanti la questione del «one-man-solution» che elargisce contributi, rottamazioni, euro, condoni per appoggio politico e fini elettorali?

Il problema è che il ruolo e la possibilità di essere “creatori di valore” si hanno quando qualcuno offre opportunità sotto forma di strumenti che hanno costo basso di accesso, sia economico che di effort o anche emotivo!

Il primo strumento tra tutti è la «diffusione della conoscenza» di come brutalmente si «fanno i soldi» e non la «politica della (finta) soluzione e del ci penso io» che genera l’approccio «dammeli per andare avanti»

Il punto focale e centrale della mancanza di produttività, di basso valore aggiunto, di poca liquidità e indipendenza è la conoscenza (nuova) di fare impresa e produrre valore da parte dei milioni di imprenditori, soprattutto comodity, sopra citati.

Non e più possibile dire ai produttori di latte di essere dietro a filiere che li sottomettono da un lato; dall’altro, non è più possibile attendere dall’alto contributi palliativi su formule di lavoro senza valore aggiunto o normative che impongono prezzi ai mercati.

Il modello di innovazione, di comunicazione, di digitalizzazione e soprattutto trasformazione digitale deve essere diffuso capillarmente: gli imprenditori di piccolo taglio devono uscire fuori dalla «logica manuale» e di indotto del ‘900 e abbracciare logiche di creazione di valore ed esperienza, comunicazione, community, valore aggiunto e, possibilmente di asset da creare, perché altrimenti saranno sempre sotto scacco di filiere che li spremono o di politici che promettono!

Ci sono buone possibilità per fare una azione capillare per diffondere conoscenza di metodi, di persone, di strumenti, di realtà, di azioni che possano, in 3–5 anni, fare il salto del micro e piccolo imprenditore.

Tra tutte quante le scelte e i canali di diffusione, propongo non di passare per istituzioni o direttamente per le imprese, ma per qualcuno che possa far capire il nuovo modello di riprogettare.

Come sarà possibile diffondere strumenti e soldi di innovazione/digitalizzazione se prima non si insegna a farla?

La consulenza direzionale in Italia è fatta da oltre 23.000 imprese e 45.000 addetti, per non parlare di un mondo di consulenti, business designer, innovation manager, ma anche dottori commercialisti giovani su cui puntare: perché non pagare e responsabilizzare (dare spazio e fondi) loro su come diffondere consulenza di strategia, riorganizzazione e progettazione con un bando/misura della portata economica e capillare dei navigator che non servono a nulla proprio perché non hanno a priori nessun campo su cui lavorare come quello che si potrebbe creare con questo approccio?

Va assolutamente offerta di nuovo una nuova possibilità di fare impresa dove il digitale, il lavoro smart, l’innovazione e la tecnologia, ma soprattutto i contributi, la parte finanziaria etc sono componenti di un mondo più complesso che bisogna sapere gestire congiuntamente, in maniera interdisciplinare e non singolarmente, a compartimenti stagni, in divisione di aree o di argomenti.

Non si possono dunque dare strumenti per innovare senza diffondere il modo e la conoscenza di innovare.

Ma attenzione, se tante volte, azzeccano qualche misura di grande numero, valore, di “sistema” come si dice, allora sarà compito di tutti utilizzare i fondi del programma Next Generation con criterio e senza spreco, con investimento per il ritorno di valore e cassa, altrimenti chi paga il prestito mega di questi anni?

Ognuno la sua parte, diamogli un senso, iniziamo dalla conoscenza di come fare, grazie.

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"Un uomo non vale i soldi che ha, ma il credito di cui gode" W. Churchill

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Marco Travaglini

"Un uomo non vale i soldi che ha, ma il credito di cui gode" W. Churchill