La migliore pubblicità è sapersi raccontare

Marco Bardazzi
8 min readFeb 10, 2019

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(Questo è il primo capitolo della guida “Content Strategy” che ho scritto con Marco Alfieri e Corrado Paolucci. Se vi piace, il resto lo trovate qui)

Solo qualche anno fa, parlare di media company evocava l’immagine di alcuni colossi della produzione audiovi­siva o grandi realtà del giornalismo: Disney, CNN, Time Warner, Mediaset, Rai. Oggi vengono subito in mente anche protagonisti più recenti come Netflix. Ma la verità è che la rivo­luzione digitale sta trasformando ed espandendo a dismisura il concetto di media company. Grandi aziende come General Electric o IBM oggi pubblicano più contenuti di quanti non fos­se possibile trovarne su un magazine storico come Time nei suoi anni d’oro. E non sono certo le sole.

È stato calcolato che ogni minuto nel mondo vengono pro­dotti e diffusi 211 milioni di nuovi contenuti: testi, foto, video, infografiche, graphic novels, GIFs animate, meme e molto altro ancora. Una piccola fetta di questi contenuti, soprattutto quel­li di maggiore qualità, continuano a venir realizzati in redazioni tradizionali e centri di produzione professionale riconducibili alle grandi società del giornalismo o dell’entertainment. Ma la stragrande maggioranza sono il frutto della creatività che passa attraverso i 5 miliardi di smartphone e cellulari oggi at­tivi sulla Terra.

Su una popolazione mondiale di 7,5 miliardi di persone, sono già 3 miliardi quelle che si muovono dentro i social me­dia. E cresceranno. In Italia, 40 dei nostri 60 milioni di abitanti accedono al web ogni giorno e frequentano i social: trascorria­mo 13 ore al mese in media su Facebook, 9,40 su WhatsApp e 2,51 su Instagram.

Il prossimo miliardo di persone che sta entrando adesso sulla rete ha peraltro caratteristiche molto particolari: in gran parte è costituito da persone a basso tasso di alfabetizzazione in India e in Africa. Che cosa significa? Che sui loro smartpho­ne (che cominciano ad avere l’accesso al traffico dati e quindi al web) non esiste la mail, non girano testi scritti, quindi nep­pure post di Facebook. Questo nuovo miliardo comunica solo con file audio su WhatsApp e su app simili e ricerche video su YouTube. Rappresentano una nuova ondata che nei prossimi anni cambierà ancora una volta gli scenari.

Inevitabile che in questo gigantesco rumore di fondo pla­netario, in questa enorme conversazione globale che cresce con l’aumento della capacità di trasferire dati, la grande scar­sità emergente sia l’attenzione delle persone. C’è troppo a disposizione istantanea di ciascuno di noi. E ci sarà sempre di più, con l’arrivo di accelerazioni tecnologiche come le co­municazioni in 5G.

Un nuovo ecosistema

Non c’è però da spaventarsi. Occorre invece stare di fronte a questo nuovo ecosistema cercando di capirlo e intuirne le possibilità. Perché una cosa è certa: le nuove opportunità of­ferte a chi comunica sono enormi e in gran parte ancora da scoprire. Siamo in un’epoca che sta facendo saltare quelli che erano i punti di riferimento tradizionali della comunicazione del XX secolo. Primo tra tutti l’approccio broadcast, che ha caratterizzato la nascita e l’esplosione dei grandi network radiotelevisivi nel secolo scorso e che ora è sempre più in discussione: i contenuti non si consumano più seguendo la rigidità di un palinsesto o di uno sfoglio di giornale, ma a buffet, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. In paral­lelo, ha sempre meno senso parlare del pubblico in termini di audience e degli organi d’informazione come mass media, perché quella «massa» sta assumendo caratteristiche e com­portamenti nuovi.

Se il broadcast era la mentalità della comunicazione del XX se­colo, lo sharing (condivisione) sembra essere quella del XXI e il suo campo d’azione non è un’audience indistinta, ma tante comunità che si creano intorno a interessi comuni. I nuovi luoghi di questa conversazione e condivisione planetaria sono i social network, che sfuggono alla catalogazione tradizio­nale di media e si stanno rivelando invece degli «ambienti» da abitare e da imparare a scoprire.

Dimentichiamo troppo spesso che i social hanno poco più di 10 anni. Facebook nasce nel 2004 ma si apre al grande pub­blico solo nel 2006, lo stesso anno in cui muove i primi passi Twitter. Sono ancora degli adolescenti e per questo in buona parte entità misteriose, dal potenziale non ancora pienamente intuito. La generazione nata a cavallo dell’anno 2000 entra­va alle elementari mentre nascevano i social e sta diventando maggiorenne adesso, muovendosi con naturalezza in questi ambienti di cui è in pratica coetanea. C’è un futuro ancora tut­to da inventare, quando si parla dei social.

Le comunità di esperti

Tutto questo offre a istituzioni, aziende, associazioni, persona­lità politiche l’opportunità di una straordinaria disinterme­diazione. Gli organi d’informazione tradizionali continueran­no a esistere e a essere l’asse portante della produzione di contenuti e della costruzione di narrative condivise. Le «comu­nità intellettuali» che vivono nelle redazioni restano il punto di riferimento insostituibile della comunicazione aziendale o istituzionale, e quindi gli interlocutori degli apparati di media relations. Ma oggi un’azienda ha la possibilità anche di rac­contarsi in prima persona a un pubblico più vasto, diret­tamente, senza mediazioni. Può creare intorno a sé le proprie comunità di riferimento, ingaggiandole non più con il filtro di una «comunità intellettuale», ma attingendo alle proprie com­petenze interne e al proprio mondo narrativo. Le aziende sono «comunità di esperti» destinate tra l’altro ad avere un ruolo importante nella produzione di contenuti credibili e autorevo­li, di cui sta emergendo un bisogno crescente in una stagione caratterizzata dalle «fake news».

Su questo fronte, il mondo delle imprese ha ben chiara una cosa che può essere un contributo per tutti: le bugie sono pessime per il business. Non c’è bisogno di citare casi recen­ti come quello di Volkswagen per dimostrarlo. Trasparenza e verità sono la migliore comunicazione a cui può ricorrere l’azienda. È per questo che nel 2017 la Public Relations So­ciety of America ha diffuso una dichiarazione di condanna di pseudo-concetti come post truth e alternative facts: so­no pratiche che danneggiano il business e sono sempre una strada sbagliata. E per lo stesso motivo il colosso delle pub­bliche relazioni Edelman, nel proprio annuale rapporto Trust Barometer 2017, nel registrare il più alto crollo della fiducia da parte dell’opinione pubblica da quando diffonde la ricerca, ha sottolineato che il mondo del business è «the last retai­ning wall» per frenare l’emergere di un mondo di post-verità.

Le aziende per questo motivo saranno alleati importanti dei professionisti dell’informazione nel diffondere informazioni di cui fidarsi. Per farlo, però, occorre riconoscere che ogni impre­sa, ogni istituzione, ogni Ong potenzialmente può agire come una media company. Una trasformazione che richiede nuove competenze e soprattutto una content strategy.

Le pagine che seguono provano a tracciare un rapido per­corso in questa direzione, attingendo a una recente esperien­za particolare, quella di Eni, ma anche a una serie di contributi e best practice internazionali.

Saltare da una piattaforma all’altra

L’ecosistema dell’informazione richiede un approccio mul­tipiattaforma, la capacità cioè di creare contenuti che pos­sono essere distribuiti su touchpoint diversi, digitali o cartacei che siano. È inutile infatti costruire elaborati siti web aziendali, sofisticate piattaforme di storytelling e molteplici profili so­cial, se poi non si ha a disposizione l’alimentazione per nutrir­li, cioè il contenuto. E quest’ultimo non può essere prodotto in serie, in maniera automatica. La sfida per l’attenzione richiede di essere affrontata tenendo presenti due punti di riferimento imprescindibili: la qualità e l’autenticità. Siamo abituati a «consumare» video e immagini di altissima qualità in ogni istante soprattutto sui nostri dispositivi mobili, e non siamo disposti a concedere il nostro tempo a qualcosa che non ne vale la pena. Soprattutto, non siamo interessati a condividerlo con le persone e le comunità che non ci stanno a cuore.

Per questo servono «belle storie», che da sempre sono la forma più efficace di comunicazione dell’umanità. Intere ge­nerazioni cresciute con Star Wars, Lord of the Rings o Games of Thrones, non si lasciano certo catturare da video aziendali o narrazioni che non sappiano colpire, emozionare, stupire.

«I mercati sono conversazioni»

Le aziende da sempre raccontano belle storie, ma per molto tempo le hanno confinate dentro il perimetro delle campagne pubblicitarie o degli eventi di brand. Ambiti peraltro di stra­ordinaria efficacia e creatività, che hanno contribuito a crea­re l’immaginario collettivo non solo su prodotti e servizi, ma persino sui luoghi (pensiamo per esempio al successo della «Milano da bere»). Oggi però si può andare oltre, per ef­fetto soprattutto della rivoluzione digitale di questi anni. La disintermediazione apre strade nuove.

Torna in mente una definizione celebre e provocatoria, an­che se un po’ inflazionata: «I mercati sono conversazioni». È la più famosa tra le 95 tesi che nel 1999 quattro teorici americani racchiusero in un documento per molti versi profetico, il Clue­train Manifesto, redatto in anni in cui il web e l’universo digita­le erano ancora agli inizi. Molte tra le 95 tesi non hanno retto il confronto con ciò che è venuto dopo: il boom di Google e dei social network, la nascita di nuove modalità di comunicazione e il mutamento dei vecchi media tradizionali. Ma l’intuizione che i mercati siano conversazioni, e l’emergere di nuovi si­gnificati per termini come comunità e condivisione, si sta rivelando solida.

In termini di comunicazione aziendale, questo significa at­trezzarsi a parlare di più agli stakeholder, oltre che agli sha­reholder, ed essere non solo argomento della conversazione, ma protagonisti del dialogo. Un approccio che si potrebbe riassumere con un proverbio che varie etnie africane si traman­dano da generazioni: «Finché i leoni non cominceranno a rac­contare le loro storie, i cacciatori saranno sempre gli eroi». Se ai leoni fossa data la possibilità di raccontare la loro versione dei fatti, non solo molte storie di caccia apparirebbero sotto una di­versa luce. Soprattutto, si scoprirebbero i mille piccoli e grandi eventi meravigliosi che segnano l’esistenza di leoni e leonesse, e non solo il momento traumatico dell’incontro con il cacciatore. Il momento in cui d’un tratto la vita del leone «fa notizia».

Usciamo dalla savana e dalla metafora. Sostituite a «leo­ne» una qualsiasi categoria che ha bisogno di comunicare — impresa, politica, economia — e a «cacciatore» i tradizionali mediatori — giornali, tv, pubblicità — ed ecco emergere il nuovo ecosistema della comunicazione nell’era digitale.

Un mondo dove molte regole sono ancora da scrivere e nel quale la disintermediazione provoca anche una inevitabile disruption, che impatta su modelli di business consolidati co­me quelli dei mass media. Con tutte le conseguenze del caso, certo non tutte positive. Il secolo che stiamo vivendo del resto sembra fatto di continue disruption e di schemi che saltano, con scenari ancora tutti da disegnare. Pensiamo per esempio alla potenziale disintermediazione che le criptovalute e le reti che ne favoriscono le transazioni, come la blockchain, posso­no creare nel sistema finanziario globale. Con quali effetti, an­cora non lo sappiamo.

Dar voce ai leoni però è senza dubbio positivo. Per farlo occorre intraprendere un cammino. Che come tutti i viaggi co­mincia individuando una meta e definendo il percorso.

Nel nostro caso, realizzando un piano editoriale.

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Marco Bardazzi

Co-Founder & CEO at Bea-Be a Media Company. Journalism & Strategic Communications. Alumnus Eni, La Stampa, Ansa, NYC, DC. Writer and geek.