Usa, il COVID e l’iniezione letale

Marco Bardazzi
11 min readJun 6, 2020

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“Gentile Mr. Smith, avevamo in programma di ucciderla il 4 giugno. Purtroppo il COVID ha cambiato i nostri piani. Le diamo un nuovo appuntamento per ucciderla il 4 febbraio 2021. Cordiali saluti”.

Il testo della Corte Suprema del Tennessee che riporto qui non dice esattamente così, ma il senso è quello. Uno degli effetti collaterali positivi del COVID negli Usa, è che ha messo in crisi anche la sempre prolifica macchina delle condanne a morte. Ma gli Stati si stanno riorganizzando e presto riprenderanno a uccidere i vari Mr. Smith in attesa nei bracci della morte (qualche Stato non si è lasciato intimorire neanche dal coronavirus: per esempio il Missouri, che il 19 maggio, in piena emergenza, ha eliminato con un’iniezione letale il condannato Walter Barton). Oscar Franklin Smith adesso ha altri 8 mesi da vivere in attesa di morire, che vanno ad aggiungersi ai 30 anni già passati da quando fu condannato a morte per l’assassinio della ex moglie e dei loro due figli.

Oscar Franklin Smith

Ormai è un settantenne che la società potrebbe tranquillamente lasciar morire in cella all’ergastolo (o anche valutare se non si sia guadagnato la possibilità di attendere la morte fuori da un carcere). Ma l’America della pena di morte non arretra di un millimetro. Il COVID ha frenato il ritmo delle esecuzioni, come si vede dal grafico del Death Penalty Information Center, ma è solo una temporanea battuta d’arresto: nei bracci della morte americani ci sono 2.620 persone in attesa di essere terminate con un’iniezione letale e gli arretrati dovranno essere recuperati in fretta. Anche se i ritmi non sono più quelli di fine anni Novanta-inizio anni Duemila, quando le camere della morte lavoravano a pieno ritmo.

In quegli anni del picco di esecuzioni vivevo e lavoravo come giornalista negli Usa. E nessuno tra i tanti temi che ho seguito e raccontato mi ha mai colpito di più della pena di morte. Tra le tante contraddizioni di un Paese che vive di contraddizioni, nessuna sconvolge più dell’incapacità di rinunciare alla pena capitale, di non considerare mai chiuso un caso fino a quando non si è data ai familiari delle vittime la possibilità di quella che viene chiamata “closure”. La presunta pace che porterebbe il sapere che finalmente vendetta è fatta.

Per chi è interessato a capire a fondo la pena di morte e cosa significa essere un condannato in attesa di esecuzione, non c’è libro migliore di quello che scrisse anni fa il mio amico Richard Michael Rossi, La mia vita nel braccio della morte (TEA Edizioni). Purtroppo temo sia ormai introvabile, ma per ricordare Richard — che alla fine ha fregato lo Stato dell’Arizona e i suoi carcerieri, morendo di epatite invece che di iniezione letale — e per non dimenticare il tema della pena di morte, propongo qui l’introduzione al libro che scrissi a suo tempo. Buona lettura.

FLORENCE, ARIZONA

Il deserto costellato di cactus che ancora resiste all’esplosivo sviluppo urbano di Phoenix, cambia volto d’improvviso per la comparsa di un gigantesco massiccio montuoso. Le Superstition Mountains dividono le villette della più grande città dell’Arizona dalle riserve degli Apache più a est e con la loro imponente presenza rappresentano un promemoria quotidiano, per gli abitanti del posto, di quanto possa essere pericolosa la sete di ricchezze dell’uomo. Intorno al 1870 due tedeschi, Jacob Waltz e Jacob Weiser, sostennero di aver trovato una leggendaria miniera d’oro su quelle montagne. I due uomini si presentarono più volte in un vicino villaggio, Florence, mostrando minuscole pepite d’oro e raccontando di un ricco giacimento a cui avevano accesso.
Ben presto i tedeschi presero a litigare sul possesso della presunta miniera e quando Waltz morì, nel 1890, si dice avesse sulla coscienza l’uccisione di Weiser e di altri sette uomini che avevano cercato di scoprire i suoi segreti. Innumerevoli spedizioni, da allora, partirono da Florence per cercare il mitico giacimento su quelle che ben presto cominciarono a venir chiamate le Montagne della Superstizione. Una trentina di avventurieri non fecero mai ritorno.

Florence non è mai diventata la capitale di una corsa all’oro, come sperava. Tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione sull’asse Phoenix-Tucson, priva di attrazioni turistiche o di particolari bellezze naturali, con il passare del tempo la piccola città comprese che per sopravvivere in mezzo al deserto poteva puntare solo su un business molto particolare: quello delle prigioni. Svaniti i sogni di raccogliere facili ricchezze di miniere perdute, venne il momento di accontentarsi di custodire anime perse di balordi e criminali. Chi arriva oggi nella cittadina di 5.700 abitanti in mezzo al niente, viene riempito di eleganti brochure patinate e colorati depliant realizzati dall’ente del turismo e dalla camera di commercio locali. Vi si descrivono brillanti prospettive di sviluppo e opportunità imprenditoriali di ogni genere per chi sceglie Florence per fare affari. Ma la realtà che non trova spazio nelle pubblicazioni destinate agli scarsi turisti che si avventurano da queste parti, è ben diversa: Florence si regge su un’economia penitenziaria. Lo Stato ha concentrato qui le proprie prigioni di ogni livello di sicurezza, trasformandola in una sorta di Alcatraz nel deserto dove i motel, i ristoranti, i distributori di benzina e quant’altro fanno affari solo grazie alla continua, triste processione di parenti e amici di detenuti.

Florence, Arizona. Main Street (photo Steve Minor, 2009, via Flickr)

E’ dalla fine dell’800 che l’Arizona custodisce i detenuti a Florence. Durante la Seconda Guerra Mondiale, vi vennero realizzati anche campi di detenzione per i prigionieri nemici e ancora oggi, visitando il McFarland State Historic Museum, si possono ammirare foto ingiallite di volti siciliani, rosari, vecchi quaderni, immagini della costiera amalfitana e divise militari logore: sono le reliquie che ricordano la prigionia dei molti italiani che trascorsero lunghi mesi, talvolta anni di detenzione nel deserto. Dal 1910 a Florence l’Arizona ha anche cominciato a giustiziare i propri condannati a morte. Una faccenda che un tempo si sbrigava in fretta, con le impiccagioni (i cappi e le foto degli impiccati sono una delle maggiori attrazioni in un altro museo locale, quello della contea di Pinal). Ma nel 1930 la prima donna a venir giustiziata, Eva Dugan, restò decapitata durante l’impiccagione e l’orrore per l’accaduto spinse le autorità a passare alla più ‘civile’ sedia elettrica. Oggi lo Stato ammazza con l’iniezione letale, ma lascia aperta anche l’opzione della camera a gas.

Le prigioni di Florence sono più o meno accessibili secondo la pericolosità dei loro ospiti. Il carcere più nascosto e protetto di tutti è l’Eyman Complex e al suo interno l’unità più isolata e blindata è la Special Management Unit II (SMU-II), dove convivono circa 500 detenuti di massima pericolosità e i 128 condannati a morte dell’Arizona. Nel marzo 2004 sono entrato nella SMU-II per andare a incontrare, dopo tre anni di scambi di lettere e qualche complessa telefonata, una di quelle 128 persone in attesa di essere ammazzate: Richard Rossi, il detenuto numero 50337 del sistema dell’Arizona State Prisons.

Il complesso penitenziario di Florence, Arizona

A Richie, come vuole essere chiamato dagli amici, sono arrivato per uno strano giro che passa dalla Virginia, dall’altra parte degli Stati Uniti. Una tiepida sera del settembre 2000, un gruppo di giornalisti italiani tra cui chi scrive, insieme al fotografo Oliviero Toscani, protagonista delle campagne contro la pena di morte firmate Benetton, si sono ritrovati in un luogo insolito: il parcheggio all’esterno del Greensville Correctional Center, a Jarratt, il luogo dove la Virginia mette a morte i propri dead men walking. Un posto sperduto in mezzo ai boschi, dove siamo arrivati in tanti per l’esecuzione di un italoamericano, Derek Rocco Barnabei.

Derek Rocco Barnabei

Avevo intervistato Derek Rocco varie volte nei mesi precedenti, ho seguito la sua vicenda di condannato che fino all’ultimo istante si è proclamato innocente dell’omicidio che gli veniva attribuito e quella sera ero là per raccontare il triste epilogo di una storia che si ripete nelle camere della morte di mezza America. Il copione è più o meno sempre quello: il detenuto disteso sul lettino, gli aghi infilati nel braccio, una dose di sodio tiopentale che entra nelle vene per fargli perdere conoscenza, seguita dal bromuro di pancuronium per paralizzargli i muscoli e infine dal cloruro di potassio per provocare l’arresto cardiaco. La differenza, per me, era che stavolta quel detenuto non era solo un numero, l’ennesima statistica nel macabro conteggio di morti che ha ormai raggiunto quota 1.000 da quando gli USA hanno reintrodotto la pena capitale (1976). Era una persona con la quale avevo scambiato lettere e telefonate, di cui conoscevo la famiglia e gli amici e che mezz’ora prima di morire, parlandomi per telefono dalla cella al fianco della camera della morte, con una voce carica di paura e adrenalina difficile da dimenticare, mi aveva detto: “Fai in modo che non si dimentichino di me”.

Nei mesi successivi, pensando a Derek e riflettendo su come continuare a raccontare la pena di morte dando un volto e una storia a persone che troppo spesso sono solo fantasmi, mi sono messo alla ricerca di altri ‘italiani d’America’ nel braccio della morte. Non che il fatto di avere radici italiane significhi qualcosa di particolare, nel panorama degli oltre 3.400 uomini e donne che negli USA passano il tempo aspettando di essere giustiziati. Ogni vita umana che se ne va per iniezione letale, sedia elettrica, camera a gas o plotone d’esecuzione (un paio di stati lo prevedono ancora), ha un valore in sé in quanto tale, non perché porta un cognome italiano o messicano, una pelle bianca, nera o quant’altro. Ma raccontare la realtà della pena di morte è un’impresa che corre sempre il rischio di sfumare nel generico e di dissolversi nelle statistiche, se non si fanno emergere i volti, le storie, i cuori umani che battono dietro le sbarre. Il caso Barnabei, con le folle in piazza in Italia a seguire in diretta l’esecuzione in Virginia, aveva dimostrato che inevitabilmente negli italiani scattava un motivo di attenzione in più nel sapere che si parlava di un figlio di immigrati delle nostre terre, piuttosto che di un ragazzo messicano di una gang di Los Angeles.

Richard Michael Rossi

E’ così che dalle sterminate liste degli ospiti del braccio della morte, è saltato fuori un ‘signor Rossi’ in attesa del boia in un posto con un nome che a sua volta richiama l’Italia: Florence. Ed è attraverso questo insolito itinerario che ho potuto scoprire il personaggio straordinario che sta dietro le pagine di questo libro.
Richie è il figlio di Andrew Rossi, emigrato negli Usa da Roma (dove probabilmente si chiamava Andrea) e della napoletana Angelina Rossetti. La coppia lo mise al mondo il 30 giugno 1947 a Brooklyn e il piccolo Richard è cresciuto nella vivace comunità italoamericana locale, prima di trasferirsi a Phoenix, in Arizona, dove ha commesso l’errore che è costato la vita a un altro e ha rovinato per sempre anche la sua. La notte del 29 agosto 1983, schiavo degli effetti della cocaina, uccise a colpi di pistola Harold August durante un litigio legato alla vendita di una macchina per scrivere. Una vicina di casa di
August fu colpita a sua volta, ma se la cavò. Dopo un processo nel quale a Rossi fu assegnato un avvocato d’ ufficio incompetente — accade spesso nel sistema giudiziario americano a chi non ha i soldi per permettersi un legale
adeguato -, arrivò la condanna a morte, decisa da un giudice tossicodipendente in seguito arrestato con l’accusa di possesso di marijuana.

Richard Rossi ha sbagliato e non lo nega. Ma si è trovato chiuso per sempre in un luogo che non ammette la possibilità che un uomo possa cambiare, neppure dopo più di 20 anni di cella. Un posto dove non c’è spazio per il perdono e per una seconda possibilità. L’unico modo in cui lo stato dell’Arizona vuole che Rossi lasci il carcere di Florence, è disteso in una cassa di zinco. Dopo avergli tolto tutto, non solo la vita, ma anche l’eventuale possibilità di donare organi per salvarne altre: ai condannati a morte è vietato, perché il veleno dell’esecuzione danneggia in modo irreparabile il corpo.

Richie, da quel processo celebrato quando ancora alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, aspetta di morire e riempie il tempo scrivendo a un gran numero di amici o mettendo su carta pensieri e analisi sul sistema carcerario, sotto forma di saggi o di poesie. La raccolta di scritti di questo libro offre adesso la possibilità a tutti di scoprire la lucidità e l’umanità delle sue descrizioni su come si vive nella Death Row USA.

“E’ giusto che il mondo presti così grande attenzione in questo periodo a ciò che accade in posti come Guantanamo— mi ha detto la prima volta che ci siamo finalmente visti -,ma è anche importante che l’Europa non dimentichi che quello che stanno facendo là, lo hanno già sperimentato in questi anni su di noi, i condannati a morte”.

Per 23 ore e mezzo, il mondo di Richie è una tomba di cemento di 3 metri per 2 metri e 20, senza finestre e con una porta di metallo traforato che non concede niente alla privacy. La mezz’ora restante è quella d’aria, in una gabbia solitaria all’aperto nei 40 gradi dell’Arizona, con l’unica compagnia di una pallina di gomma da tirare contro il muro, per fare esercizio. Dal 1997, con l’apertura di unità speciali come la SMU-II, i detenuti dell’Arizona sono diventati le cavie di nuovi metodi di detenzione che li vedono costretti a condividere la stessa struttura dei carcerati in regime di massima sicurezza. Le tute arancione, le porte blindate traforate, i servizi igienici aperti in cella, i letti saldati alle pareti sono in tutto e per tutto gli stessi di Camp Delta, la famigerata prigione per terroristi a Guantanamo Bay (Cuba).

La stanza delle esecuzioni a Florence

Per parlare con Richie e gli altri detenuti, nella grande sala colloqui del carcere, occorre quasi urlare con la bocca appoggiata a una sottile intercapedine metallica, l’unica fessura attraverso la quale i suoni possono raggiungere l’interlocutore, dall’altra parte di un vetro antiproiettile che separa detenuti e visitatori. Prima di entrare nella sala, occorre sottoporsi alla lunga trafila dei controlli attraverso barriere di filo spinato e cemento, dopo essersi assicurati di aver rispettato tutti gli articoli del regolamento. L’elenco dei divieti è lungo due pagine e prevede, tra le altre cose, l’obbligo di non indossare jeans e di lasciar fuori soldi, gioielli, oggetti metallici di ogni genere, persino carta e penna.

Eppure quando superi le lunghe trafile burocratiche e arrivi finalmente di fronte a Rossi, trovi un uomo sorridente, che racconta barzellette e sembra sapere del mondo esterno più cose di chi vive la quotidianità senza vincoli e sbarre, ma in modo distratto.

Da tempo Richie ha preso l’abitudine di spedire per posta alle mie figlie figurine di carta fatte a mano nelle sue lunghe ore vuote. Sono uccelli, angeli, quasi sempre creature con le ali. E’ il suo modo di esprimere la voglia di volare di chi è costretto dentro una gabbia.

Washington, D.C., Dicembre 2005

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Marco Bardazzi

Co-Founder & CEO at Bea-Be a Media Company. Journalism & Strategic Communications. Alumnus Eni, La Stampa, Ansa, NYC, DC. Writer and geek.