Sulla vocazione politica della scienza

Marco Mattei
9 min readOct 9, 2019

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La scienza, come tutte le pratiche sociali, ha una vocazione politica, che però viene — consciamente o inconsciamente — nascosta, taciuta. Cosa vuol dire? Stanley Aronowitz, filosofo statunitense, inizia la sua opera Science as Power dicendo ‹‹Il potere [politico] della scienza consiste nell’aver fatto confluire la conoscenza con la Verità›› (Aronowitz 1988). È già nei corsi di filosofia del primo anno: sapere qualcosa significa avere una credenza vera e giustificata su qualcosa. Al di là delle problematiche filosofiche sulla questione, va da sé che io non posso sapere che la luna è fatta di formaggio se la luna non è fatta di formaggio: non si possono sapere cose false, si possono solo credere (o credere di sapere) cose false. Il momento di potere della scienza è stato appropriarsi della facoltà di decidere cosa è vero e di aver sconfitto tutte le altre pretendenti storiche, come la Rivelazione o la filosofia. E tuttavia, nel tracciare una nuova distinzione tra chi sa e chi non sa, la prassi scientifica ricrea un gradiente di micropotere nella società dove non solo c’è chi sa e chi non sa, ma c’è anche chi può parlare, e chi non ha diritto d’opinione — come sosteneva il dottor Burioni. Siccome, infatti, l’istruzione scientifica non è gratuita e checché se ne dica le classi più basse della popolazione sono sistemicamente incapaci di proseguire nell’alta formazione per una mancanza materiale sia di capitale economico che di capitale cultrale, ecco che la distinzione operata dalla conoscenza scientifica diventa immancabilmente una distinzione classista ed elitaria. Si espone l’intera società a quel fenomeno che la filosofa Miranda Fricker chiama “ingiustizia epistemica”: non si permette alle persone che non hanno certi requisiti di poter sapere (Fricker 2007). Questa, ovviamente, non è una feature della praxis scientifica, ma un bug: ed è qui che si cela l’importanza della comunicazione scientifica con il pubblico non esperto. Silvia Federici direbbe che la scienza ha operato una enclosure of knowledge: ha “recintato” la conoscenza, ponendone i confini sul modello della conoscenza scientifica (Federici 2004). Ed infatti, questo modello conoscitivo è stato esportato a tutte le altre discipline, soprattutto alla politica: è noto sui social il fenomeno dei debunker come David Puente, che inizialmente si occupavano di smascherare le bufale scientifiche ma che molto presto hanno finito ad occuparsi di presunti inganni politici (sulle ONG, sul clima) da una prospettiva profondamente conservatrice, animati dalla pretesa di conoscenza scientifica (i famigerati “fatti e logica” di cui si legge sui forum alt-right americani ma anche in Italia, grazie al localissimo Luca Donadel). È il fenomeno del “blasting”, pratica per cui anche il giornalista Enrico Mentana è noto.

La divulgazione al grande pubblico si configura dunque — se praticata correttamente — come una prassi davvero collettivizzante dove viene data a tutti la possibilità di conoscere; si fa partecipare tutti quanti al processo conoscitivo, annullando l’ingiustizia epistemica e ripagando, per quanto possibile, le differenze materiali cognitive. La comunicazione scientifica non è quindi un’attività esterna alla scienza, relegabile a scienziati in fallimento, ma una parte integrante e fondamentale della prassi scientifica. Fondamentale perché la scienza procede se tutti sanno. Un punto centrale, che bisogna tenere bene a mente, è che la divulgazione non deve essere diretta a chi è già curioso, ma deve rivolgersi a chi di scienza non si interessa minimamente (Bensaude-Vincent 2001).

Non si può però comunicare la scienza annunciandone solo i risultati come fossero dettami di una voce divina: la predicazione fideista serve solo ad allontanare i non-addetti ai lavori. Burioni è il più grande nemico della divulgazione scientifica. Fateci caso: sotto i suoi post a idolatrarlo sono sempre studenti di medicina, o persone già informate sul tema; a dargli contro sono sempre coloro che dovrebbero essere l’obiettivo della divulgazione. Questo perché tratta le persone che dovrebbe convincere come degli ignoranti. Ciò di cui non si rende conto — o di cui si rende conto perfettamente ma è in malafede — è che l’imposizione bruta di risultati presuppone la fiducia nella scienza, fiducia che chi non è stato educato non ha mai sviluppato (e che mai svilupperà se viene trattato come un minus habens). Questo è un grande problema: l’atteggiamento di alcuni scienziati — tendenzialmente uomini bianchi — verso quelle persone che loro stessi sono chiamati a educare ma che troppo spesso denigrano.

Un altro dettaglio importante è che l’“uomo della strada” nota un’evidente contraddizione sul piano economico-sociale: se i vaccini, ad esempio, sono davvero indispensabili allora dovrebbero essere disponibili a tutti in maniera totalmente gratuita. Il fatto che costino molto e che i cosiddetti “scienziati” non si battono per la loro gratuità, fa interpretare le loro teorie più come un’imposizione politica: il linguaggio scientifico, viene interpretato da costoro, come un tentativo di persuasione e non di educazione. Questo fenomeno è particolarmente interessante, e si nota ad esempio nell’eresia della terra piatta: i terrapiattisti, infatti, sostengono che i governi ci stiano nascondendo qualcosa, e che gli scienziati li coprano per ritorni economici; ciò che motiva il loro scetticismo è un motivo politico. Qualsiasi divulgazione che ignora questa causa sociale del dubbio sarà destinata a fallire. Ciò ci porta all’ultimo grande ostacolo da affrontare e forse il più sottile: la esplicita connotazione politica di certe scoperte. Alcune scienze, come la psicologia, la medicina, la biologia, la chimica, l’economia hanno un’influenza diretta sulla società. Tuttavia, viene fatta divulgazione come se queste tesi fossero “pure” e completamente slegate dall’attività umana: i nodi di questa contraddizione vengono al pettine, sono esemplari le discussioni su Facebook tra scettici radicali. Si pensi soltanto al fatto, ormai noto in biologia, che non esistono solamente due sessi nella specie umana (Fausto-Sterling 1992), ma soprattutto a come l’opinione pubblica recepirebbe questa notizia. O all’eliminazione della disforia di genere dal DSM soltanto pochi anni fa. I vaccini sono indispensabili? Allora sono innanzitutto gli scienziati che devono battersi e devono spingere gli altri a battersi per la loro gratuità, pace tutte le scemenze sul libero mercato dei medicinali. Il riscaldamento globale è reale e bisogna sensibilizzare le persone alla tutela per l’ambiente? Sono gli stessi ricercatori che in prima persona dovrebbero criticare tutte le stupidaggini sul non usare le cannucce di plastica o di comprare cibo Bio a km 0 — che va nuovamente a colpevolizzare le classi meno abbienti dato l’alto costo delle alternative — perché l’impatto ambientale del singolo è sostanzialmente nullo e se si vuole fare qualcosa di utile bisogna agire a livello di governi, aziende, mercati e sistema politico, tassando a dismisura le grandi corporazioni come Amazon e scoprendo le dinamiche coloniali che l’Europa stessa tanto condanna ma segretamente perpetra. Queste sono informazioni che sul web passano benissimo tramite la produzione memetica.

Voglio però parlarvi di come si può comunicare la scienza efficacemente al grande pubblico e di come i social media abbiano creato lo spazio perfetto per farlo. In una recente intervista per Il Tascabile, Latour afferma ‹‹[D]ovete […] insegnare il modo in cui la scienza è prodotta, in modo realistico, e i frutti si vedranno col tempo. Più si spiega come la scienza è prodotta, meglio è. Prima di tutto per gli scienziati stessi: non c’è paragone tra l’idealizzazione della scienza che viene ancora venduta da qualche parte e la pratica che ogni dottorando impara sul campo. […] La seconda ragione è che è meglio per il pubblico, perché dopo aver spiegato come si produce la scienza si può ripartire dalle basi del concetto di autorità, e la fiducia nella ricerca può tornare a crescere. […] [I]n alcuni ambienti accademici, molte persone hanno ancora un’idea di scienza come di qualcosa di etereo e perfetto, ed è molto difficile dire cerchiamo di avere un’idea laica, o per così dire “mondana”, della scienza. Eppure la scienza non è fatta di idee filosofiche cristalline […] È un sistema davvero affascinante e che non ha nulla a che vedere con l’idea pura di “razionalità”›› (Cinini 2019). Il punto è che il rifiuto della scienza non ha nulla a che fare con i “fatti”, bensì è un problema più generale con il concetto di autorità (scientifica), la fiducia e gli scopi dei singoli scienziati. Come scrive sempre Latour ne “La scienza in azione”, la pubblicazione di uno studio scientifico risponde a bisogni che superano il semplice progresso della conoscenza, entrano in gioco anche fattori quali la necessità di pubblicare studi per ricevere fondi universitari, la reputazione dello scienziato, accordi politici per posti di lavoro e ricerche future ecc. Lo scettico radicale vedrà sempre e solo questi motivi come propellenti la scienza, e si rifiuterà quindi di farsi persuadere dalla retorica dello scienziato. Latour proponeva, come ultima istanza, di far entrare lo scettico nei laboratori, negli uffici dei ricercatori, per far toccare loro con mano la scienza in azione appunto, fargli vedere i risultati direttamente dalle macchine, render tutti partecipi delle politiche di comunità (Latour 1988), (Latour e Woolgar 1979). Da un lato, questo è utile per lo scettico radicale, perché si confronterà con un mondo che per certi versi gli è alieno e vi familiarizzerà, imparando a fidarsi di quello che pian piano conosce, vedendo che la vita nel laboratorio non è molto dissimile in forma da quella dell’uomo d’ufficio (Latour e Woolgar 1979); dall’altro lato, questo nuovo modo di divulgare è utile anche a chi già ha questa fiducia nella prassi scientifica perché rende l’intero racconto della scienza più avvincente, più umano e meno idealizzato; dà un’idea reale di che cos’è la prassi scientifica più che annunciare vaghi e astratti risultati che in pochi davvero capiscono (Latour 1988). Se però l’eventualità di far entrare le persone nei laboratori ai tempi di Latour era un’utopia, oggi è possibile: YouTube, ad esempio. Prendiamo i due canali scientifici che attualmente hanno più iscritti (complessivamente ca. 15mln): SmarterEveryDay e Veritasium. Entrambi fanno divulgazione: il primo si occupa specialmente di ingegneria e di questioni tecniche; il secondo di fisica, anche se ultimamente si sta concentrando su nuovi materiali ed energia. Cosa hanno in comune questi due canali che li rende così popolari? Realizzano il sogno di Latour! Destin e Derek (i rispettivi creatori) vanno sul campo: intervistano e riprendono gli scienziati che stanno lavorando in prima persona sul tema della puntata direttamente nei loro laboratori, mentre lavorano, li criticano, anticipando le domande dell’ascoltatore medio, provano loro stessi a utilizzare quegli strumenti, mostrano errori e paure di chi sta lavorando, scoprono gli interessi “celati” dietro la ricerca… insomma, mostrano il lato umano della scienza. Il fruitore scettico, a questo punto, per la sua stessa logica non può che accettare le conclusioni, perché viene presentato tutto onestamente.

Un altro importante punto, presente nei video di Veritasium, e affrontato anche da un articolo di ValigiaBlu in Italia, è la partecipazione attiva che i social permettono nella discussione online (Ciccone 2019). Se io non sono d’accordo con un punto sostenuto in un video, ho una domanda su qualcosa che non mi è chiaro, sono incuriosito da una teoria ma non ne so molto, posso commentare, suggerire, chiedere. Sta qui la bravura del comunicatore, che deve praticare quello che viene chiamato il gioco del credere (da contrastare al gioco del dubbio, tipico della razionalità scientifica old school): ossia prendere sul serio quello che il commentatore dice, senza trattarlo con condiscendenza né da ignorante, e rispondergli seriamente, facendolo sentire un partecipante attivo della comunità. La scienza è democratica, sempre e soprattutto in questo. È il segreto della comunicazione scientifica perfetta: ma non solo YouTube, anche Instagram o Facebook prevedono dinamiche “diaristiche”, che permettono di implementare questi due elementi nella divulgazione: 1) mostrare il processo, 2) far partecipare i consumatori. Di enorme importanza, poi, è anche il libero accesso per tutti ai giornali dove le ricerche vengono pubblicate: attualmente, gli abbonamenti alle riviste scientifiche specializzate sono inarrivabili a livelli di costo: si parla anche di spese di milioni di euro. Come pensiamo di fare divulgazione davvero quando non possiamo nemmeno andare a leggere i testi? Per questo, un’altra grande battaglia, portata avanti anche qui a Torino è quella per gli open access journal. Bisogna garantire a tutti l’accesso alle riviste scientifiche.

Io non credo nella nozione di verità; ritengo sia inutile e fuorviante e debba essere sostituita dalla nozione di utilità. E tuttavia, se davvero il modello conoscitivo scientifico continuerà a far da modello per la conoscenza in generale, allora tocca davvero ripensare a un ethos per la comunicazione scientifica, da far seguire attentamente a tutti gli scienziati e i comunicatori. Un ethos che preveda il libero accesso alla conoscenza a tutti, la partecipazione collettiva alla divulgazione e una esplicita connotazione politica della scoperta scientifica.

Riferimenti

Aronowitz, Stanley. Science as Power. University of Minnesota Press, 1988.

Bensaude-Vincent, Bernadette. “A genealogy of the increasing gap between science and the public .” Public Understanding of Science, 2001: 99–113.

Ciccone, Arianna. Comunicare la scienza: i social media come grande occasione democratica. 16 Settembre 2019. https://www.valigiablu.it/scienza-cicap-social-media-valigia-blu/?fbclid=IwAR2RaFAgIRTwxAp_HYW8qfxomZlJz_IhujibIqHP87ZagM9O7y2KKpOxC1M (accessed Ottobre 9, 2019).

Cinini, Giancarlo. La vita delle scienze. 29 Agosto 2019. https://www.iltascabile.com/scienze/latour-scienze-intervista/ (accessed Ottobre 9, 2019).

Fausto-Sterling, Anne. Myths of Gender. New York: Basic Books, 1992.

Federici, Silvia. Caliban and the Witch. New York: Autonomedia, 2004.

Fricker, Miranda. Epistemic Injustice: Power and the Ethics of Knowing. Oxford: Oxford University Press, 2007.

Latour, Bruno. Science in Action. Boston : Harvard University Press, 1988.

Latour, Bruno, and Steve Woolgar. Laboratory Life: The construction of scientific facts. Princeton University Press, 1979.

Longino, Helen. “Social dimension of Scientific Knowledge.” Stanford Encyclopedia of Philosophy. Summer 2019. https://plato.stanford.edu/cgi-bin/encyclopedia/archinfo.cgi?entry=scientific-knowledge-social (accessed Ottobre 9, 2019).

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Marco Mattei

Marco Mattei — Scrivo cose quando c’ho voglia: raramente.