Proust e l’apprendimento delle lingue straniere

Il lessico traballante del direttore del Grand-Hôtel di Balbec

Mario Mancini
6 min readJun 16, 2023

Vai agli altri articoli della serie “Grandi pensatori”

Il Grand-Hôtel di Cabourg la località costiera della Normandia che è la Balbec de “La Ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust.

In questi passi tratti dal primo capitolo, Le intermittenze del cuore, della Parte seconda del libro Sodoma e Gomorra della Ricerca del tempo perduto di Proust, lo scrittore si burla amabilmente del direttore del Grand-Hôtel di Balbec. Questi, nello sforzo di imparare le lingue straniere, inizia a confondere e a travisare il lessico della propria madrelingua, il francese. In una serie di piccoli quadri Proust riporta e commenta gli strafalcioni del solerte direttore dell’albergo.

Sotto riportiamo alcuni di questi passi.

Una clientela titolata

Il mio secondo arrivo a Balbec fu molto diverso dal primo. Il direttore era venuto di persona ad aspettarmi a Pont-à-Couleuvre, e in continuazione mi ripeteva quanto ci tenesse alla sua clientela titolata, il che mi fece temere mi attribuisse qualche titolo nobiliare fino a quando non ebbi capito che, nell’oscurità della sua memoria grammaticale, titolata, significava semplicemente accreditata.

Del resto, man mano che imparava nuove lingue, parlava sempre peggio le precedenti.

Mi annunciò che mi aveva assegnato una camera all’ultimo piano dell’albergo. «Spero» mi disse «che non vediate in questo una mancanza di cortesia, non volevo darvi una camera che non fosse degna di voi, ma l’ho fatto per via del rumore, perché così non avrete nessuno sopra a rompervi i “trapani” (per timpani).

State tranquillo, farò fissare le finestre perché non sbattano. Su questo sono “intollerabile”.» (Parole che non esprimevano il suo pensiero, cioè che a questo proposito sarebbe stato assolutamente intransigente, ma forse quello dei camerieri del piano.) Le camere, d’altronde, erano quelle del mio primo soggiorno. Non erano più modeste, ero io ad essere salito nella stima del direttore.

Avrei potuto accendere il fuoco, se mi faceva piacere (infatti per ordine dei medici ero partito subito dopo Pasqua), ma temeva ci fosse qualche “fissura” nel soffitto. «Soprattutto aspettate prima di accendere una fiammata che la precedente sia “esausta” (per “estinta”). L’importante è evitare di dar fuoco al camino tanto più che per rallegrare un po’ l’ambiente ho fatto mettere un grande vaso di “procellaria” (per porcellana) cinese che potrebbe rovinarsi.»

Mi annunciò con molta tristezza la morte del presidente dell’Ordine degli avvocati di Cherbourg. «Era un vecchio “impiastro”» (probabilmente per furbastro), disse, e mi fece capire che la sua fine era stata affrettata da una vita piena di insuccessi, che significava di eccessi.

«Già da qualche tempo avevo notato che si “accoccolava” nel salone (probabilmente: si appisolava). Gli ultimi tempi era talmente cambiato che se non si fosse saputo che era lui, a vederlo era appena “riconoscente”» (per riconoscibile, con ogni probabilità). Felice compensazione, il primo presidente di Caen aveva ricevuto la fascia di commendatore della Legion d’Onore.

«Sicuro e certo che abbia delle capacità, ma sembra gliela abbiano data soprattutto a causa della sua grande “impotenza”.» Si tornava, del resto, sull’argomento di questa decorazione sull’Echo de Paris del giorno prima, di cui il direttore non aveva letto che «la prima parafrasi» (per paragrafo).

La politica di M. de Caillaux ne era stata bistrattata per bene. «Trovo comunque che abbiano ragione» disse «ci mette troppo sotto il “gioco” dei tedeschi» (sotto il giogo). Siccome quel genere di argomento trattato da un albergatore mi sembrava noioso, smisi di ascoltare. Pensavo alle immagini che mi avevano indotto a tornare a Balbec. […]

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Rizzoli, Edizione del Kindle, pp.2140-2141

Un bella presentazione

[…] Mi distolse dalla mia fantasticheria la voce del direttore, alle cui dissertazioni politiche non avevo prestato ascolto. Cambiando argomento, mi riferì quanto si fosse rallegrato il primo presidente alla notizia del mio arrivo e che sarebbe venuto a trovarmi nella mia camera la sera stessa.

Il pensiero di quella visita mi terrorizzò al punto che lo supplicai (infatti cominciavo a sentirmi stanco) di cercare di impedirglielo (cosa che il maître mi promise di fare) e mi assicurò che per maggior sicurezza avrebbe fatto montare la guardia per la prima sera ai suoi dipendenti.

Non sembrava aver molta simpatia per loro: «sono costretto a stargli continuamente appresso perché peccano d’inerzia. Se io non ci fossi non muoverebbero un dito. Metterò il lift di guardia alla vostra porta». Gli chiesi se era diventato finalmente capo dei fattorini.

«No, non è ancora abbastanza vecchio della casa» mi rispose. «Ci sono colleghi più anziani di lui, farebbe scalpore. In tutte le cose ci vuole “granulazione” (per gradazione).

Riconosco che ha una bella “presentazione” (per presenza) davanti al suo ascensore. Ma è ancora un po’ giovane per simili incarichi. Insieme ad altri che sono troppo anziani farebbe contrasto.

Sarebbe poco serio; e la serietà è la qualità “primitiva” (probabilmente la qualità “primaria”, la qualità più importante). Bisogna che abbia un po’ più di sale sulla “coda” (il mio interlocutore intendeva dire “in zucca”).

Del resto non ha che da fidarsi di me. Io me ne intendo. Prima di prendere i galloni come direttore del Grand-Hôtel ho fatto la gavetta sotto il signor Paillard.» Questo paragone mi impressionò e ringraziai il direttore di essere venuto di persona fino a Pont-à-Couleuvre. «Oh, di niente, non ho perso che un tempo “minuzioso”» (per un minimo di tempo). Del resto, eravamo arrivati.

Ibidem, pp. 2144–2145

Siete nel giro?

[…] Pregai il direttore di andarsene e fare in modo che non entrasse nessuno. Gli dissi che sarei rimasto a letto e respinsi la sua offerta di far cercare in farmacia l’eccellente droga. Fu soddisfattissimo del mio rifiuto perché temeva che a certi clienti potesse dar fastidio l’odore del «calypto».

Il che mi valse questo complimento: «Siete nel giro» (voleva dire nel giusto), e questa raccomandazione: «Fate attenzione di non sporcarvi alla porta perché ho fatto “indulgere” d’olio le serrature. Se un cameriere si permettesse di bussare alla vostra camera, sarebbe stato “incaricato” di botte.

E che se lo tengano per detto perché a me non piacciono le “ripetizioni” (evidentemente questo significava: “non mi piace ripetere due volte la stessa cosa”.) Comunque sia, per tirarvi un po’ su non volete un bicchiere di vino vecchio di cui ho in cantina un bauletto? (probabilmente bariletto).

Non ve lo porterò su un vassoio d’argento come la testa di Gionata. Vi avverto che non è un Château-Lafite, ma press’a poco equivoco (per equivalente). E siccome è leggero, si potrebbe farvi friggere una piccola sogliòla».

Rifiutai il tutto ma fui sorpreso al sentire il nome di quel pesce pronunciato a quel modo da un uomo che aveva certo dovuto comandarne molti nella sua vita.

Ibidem, p. 2156

Le ragioni indigenti

Il direttore venne a chiedermi se per caso volessi scendere. In ogni modo aveva vegliato sul mio «piazzamento» nella sala da pranzo. Non vedendomi, aveva temuto che mi avessero colto di nuovo le mie crisi d’affanno di un tempo.

Sperava che non si trattasse che di un leggerissimo «mali» di gola e mi assicurò di aver sentito dire che si poteva calmare con l’aiuto di ciò che lui chiamava il «calypto». Mi consegnò due righe di Albertine.

Non avrebbe dovuto venire a Balbec quell’anno, ma avendo cambiato programma, da tre giorni era, non proprio a Balbec, ma, a dieci minuti di tram, in una località vicina. Temendo fossi stanco del viaggio, aveva rinunciato a venire quella prima sera, ma mi faceva chiedere quando avrei potuto riceverla.

Mi informai se fosse venuta di persona, non per vederla, ma per fare in modo di non vederla. «Ma sì» mi rispose il direttore «ma vorrebbe che fosse il più presto possibile, a meno che non abbiate ragioni del tutto indigenti» (per impellenti). «Vedete» concluse «che qui tutti vi desiderano, in “definitivo”.» Ma io non volevo vedere nessuno.

Ibdem, p. 2154

L’età della purità

Avvertii il direttore perché la facesse attendere nel salone. Mi disse che la conosceva da un pezzo, lei e le sue amiche, molto prima che avessero raggiunto l’età della «purità», ma ce l’aveva con loro per certe cose che avevano detto sull’albergo.

Bisogna che non siano «illustrate» per parlare così. A meno che non si tratti di calunnie. Mi fu facile capire che «purità» stava per «pubertà». Mi trovai in maggior imbarazzo per «illustrate». Forse faceva confusione con «illetterate», intendendo dire istruite.

Ibdem, p. 2168

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.