Il risveglio incosciente di conscienze assenti.

Laetitia Ingrid M.
5 min readJun 2, 2020

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Il caso di violenza poliziesca negli Stati Uniti, che ha portato alla morte di George Floyd, il 46enne afroamericano di Minneapolis (Minnesota) ucciso lo scorso 25 maggio e le conseguenti proteste scoppiate in molte città del paese, hanno fatto il giro del mondo, smuovendo persone ed associazioni a livello globale. La protesta iniziata per dire basta alla brutalità della polizia nei confronti dei neri, si è ben presto trasformata in una lotta di classe, una protesta contro un sistema basato su e creato per l’oppressione.

La notizia approdata in Italia è stata accolta, a livello mediatico, da due fazioni principali: da una parte coloro che si ostinano a circoscrivere il problema ad una semplice questione di abuso di potere, di cui potrebbe essere vittima chiunque, dall’altra chi riesce ad andare oltre cogliendone le origini nella discriminazione sistematica ed istituzionalizzata degli afroamericani, che si manifesta anche sotto forma di profilazione razziale.

Molti sono gli italiani che, per mezzo dei social, hanno denunciato la situazione, condividendo contenuti volti a creare consapevolezza al grido di “Black Lives Matter”: le vite dei neri contano. A Milano, nei giorni successivi all’omicidio, si è addirittura radunato un gruppo di attivisti davanti al consolato americano, per protestare contro l’uccisione dell’uomo.

E mentre ti chiedi se questo “risveglio delle coscienze” sul razzismo d’oltreoceano rimarrà vigile anche sulle vicende che riguardano la penisola, la risposta arriva dagli stessi a conferma della dilagante mancanza di consapevolezza della nostra realtà, quell’ignoranza che si delinea in frasi come “ringrazio di essere nato/a in Italia” et similia, pronunciate con toni altezzosi, puntando il dito verso le politiche dell’altro e ignorando completamente le problematiche di casa.

Da ragazza nera cresciuta in Italia questa retorica di deresponsabilizzazione è estenuante. Se il problema in America è un sistema che ha origine nell’oppressione, si è sviluppato nell’oppressione e ha operato grazie all’oppressione, in Italia il veicolo primo della discriminazione rimane l’ignoranza, frutto di una mancanza di ascolto alle minoranze, che traduce l’assenza di un reale interesse alle problematiche degli stessi e si concretizza in un rifiuto di mettere in discussione i propri preconcetti, accettare le critiche dei diretti interessati e prendere una posizione attiva nelle dinamiche che li coinvolgono.

La spettacolarizzazione mediatica di una lotta senza nessun approfondimento delle cause e dell’oppressore che l’ha scatenata è uno strumento fine a sé stesso – utilizzato generalmente per scopi autocelebrativi – che non giova in alcun modo agli oppressi. Tutto ciò che sta succedendo negli Stati Uniti ha senso per noi solo se ci fermiamo ad analizzare il modo in cui razzismo e colonialismo agiscono nella nostra cultura. Ciò che si perde nell’attivismo antirazzista in Italia è la critica strutturale del razzismo, che non riguarda solo i leader populisti e le loro esternazioni esplicitamente discriminatorie. Il razzismo in Italia dilaga da anni, non è finito con Mussolini né iniziato con Salvini, e credere a questa illusione è conseguenza del sopracitato disinteresse. Il razzismo in Italia fa parte dell’esperienza di ogni immigrato, che sia di prima, seconda o terza generazione, quasi come fosse una relazione intrinseca, e diventa una sfida quotidiana se la tua origine è facilmente individuabile dal colore della tua pelle. Parlare di razzismo in Italia, specialmente se fai parte di una minoranza, è quasi un taboo. Quante volte mi sono sentita dire che la mia critica alle microagressioni, agli atteggiamenti che anche involontariamente promuovono la disparità, alle battutine, fosse “esagerata”, che “vedi razzismo ovunque”? In qualche modo risulta più sensibile la persona a cui cerchi di spiegare il razzismo, di te che subisci quotidianamente. Vivere nella negazione non aggiunge nulla alla discussione, ma dà ancora più spazio alla discriminazione, che viene allora percepita come normalità, rendendo chi preferisce la cecità esso stesso parte integrante del problema.

Ma il velo di Maya che ognuno si crea per deresponsabilizzarsi, non cancella la realtà a cui devono far fronte le minoranze. La disumanizzazione dei neri, lo sfruttamento, il disprezzo delle minoranze permangono. Il razzismo è prevalente anche qui, incorporato nel tessuto della società. Si manifesta quotidianamente, quando la gente non si fa problemi a perpetrare ignoranza e xenofobia davanti a te perché non si stanno riferendo a te, perché tu sei diversa, tu “non sembri africana”, perché non incarni lo stereotipo di persona africana che hanno dipinto nella mente. Quando entri in un ufficio e la prima cosa che ti chiedono è “parli italiano?”, anche qualora tu in Italia ci fossi nato, perché il nero è ovviamente solo l’immigrato, quello venuto in barca, non integrato, che non può avere una conoscenza adeguata della lingua. Quando ad una ragazza con il velo viene dato della terrorista per strada, tra le risate di chi ascolta. Il razzismo è mediatico quando gli stessi giornalisti portano avanti la narrazione dell’immigrato venuto a rubare il lavoro agli italiani (chi sono gli italiani?). Il razzismo è culturale quando la storia del “primo avvocato nero” fa notizia. Il razzismo è istituzionalizzato, quando un Senatore della Repubblica si permette di andare a citofonare a casa di un ragazzo tunisino in diretta televisiva, per chiedergli se spaccia, senza nessuna prova, commettendo diversi reati, ma è affiancato e sostenuto dalla polizia.

“Black Lives Matter” vale anche quando c’è da parlare di politiche migratorie e diritti degli immigrati. “Black Lives Matter” vale anche quando queste vite stanno nel Mediterraneo a morire sotto gli occhi della Guardia Costiera, diventando cibo per coscienze assenti e ipocrite e per le speculazioni di politici che ne fanno strumenti da propaganda, a destra come a “sinistra”. La vita dei neri è importante anche quando si parla dei braccianti, dei lavoratori sfruttati che subiscono abusi ogni giorno su suolo italiano e della regolarizzazione degli stessi, quando si parla di una politica che li riconosca in primo luogo come esseri umani e non come semplici mezzi di produzione o risorsa.

Puntare il dito, verso gli altri, ignorando le voci che vi richiama da vicino è mera ipocrisia. Troppo facile prendere posizione per vicende sulle quali non abbiamo influenza, quelle lontane da noi, sulle quali possiamo permetterci grandissima indignazione, e basta. Condividere questi contenuti permette di creare consapevolezza, ma questa consapevolezza deve partire da sé stessi e non serve a nulla se non viene associata ad una presa di posizione attiva nella vita quotidiana.

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