«Fervet opus redolentque thymo fragrantia mella» Virgilio, Eneide

La cultura (non) paga

È grave che non si paghi chi lavora. Perché alla cassa al supermercato non prendono le buone intenzioni: vogliono i soldi

Matteo Bordone
4 min readMay 18, 2015

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di Matteo Bordone

a cultura è un prodotto del lavoro. La cultura non è, come si pensa a volte in questo strano paese a forma di stivale, espressione filantropica di uno stato d’animo, di una sensibilità, della cultura stessa che si diffonde tramite i suoi alfieri come un fungo con le spore. La cultura non è nell’uomo, non è una dote né un pregio di carattere. La cultura non è generosità. La cultura non è nemmeno impegno, lotta, sfida infernale tra un Davide volenteroso e il Golia dell’incultura. La cultura è un ambito delle attività umane che si espleta tramite il lavoro e produce reddito. Non sempre, ma insomma. L’Italia è piena di notai, avvocati, ma non solo professionisti benestanti, che pubblicano qualche libro per passione, in economia, per pochi lettori affettuosi. Anche loro devono onorare gli impegni con i fornitori.

In ragione di quel pensiero strisciante e assurdo per cui i libri sono lodevoli esempi della virtù umana e non foglietti incollati con delle scritte sopra, probabilmente facendo un filino sponda sul pensiero cattolico si arriva a credere che l’editoria sia un’attività caritatevole, un servizio per la società. Non è così. Come nel lavoro di un giardiniere ci sono tanti gesti di routine che non fanno la differenza ma allo stesso tempo tengono in ordine il parco, e poi ci può essere quel momento in cui bravura e passione ricadono sulle persone che le sfiorano appagandole, così chi ha una casa editrice sarà importante per i singoli, per il proprio conto in banca, per il dibattito culturale nazionale o solo per le fatture della tipografia in misura variabile, a volte di più, a volte meno, a volte per niente.

La cultura senza lavoro non esiste.

Ci sono, come quasi tutte le attività umane (ad esempio non la neurochirurgia), contesti amatoriali, contesti professionali e una ampia fascia di mezzo. Può esserci tanto denaro, poco denaro, può a volte anche non essercene per niente, ma c’è sempre lavoro. Il lavoro, se non per attività di beneficenza, in fasi di apprendistato o in rari casi particolari concordati prima, si paga. Se qualcuno non ha pagato molti collaboratori per via della sofferenza economica dell’azienda che ha diretto, è fisiologico che questi chiedano i soldi che spettano loro. Se però questi sono tanti, decine, e non solo alcuni, significa che forse c’è stata una certa leggerezza nel mettere in cantiere libri e lavori senza avere la copertura economica. Può essere che siano stati tentativi di risollevare la casa editrice, ma si intravede della mancanza di rispetto, al limite anche della furberia nell’arrivare a coinvolgere così tante persone in una attività economica che non paga, e soprattutto nel sottovalutarne i diritti. Il rischio di impresa resta sempre degli imprenditori.

È quindi normale, normalissimo, che i creditori si lamentino per riavere i loro soldi. Siccome questi creditori — ne conosco diversi — non hanno ricevuto risposte soddisfacenti alle loro richieste (mail, lettere, telefonate), a un certo punto i toni si sono accesi. Sui social network sono volati un po’ di stracci. Gli stessi social network che quotidianamente salutano con urla di giubilo qualsiasi piccolo gesto di un profilo con tanti seguaci, e che blandiscono chiunque abbia un po’ di visibilità con un’attenzione che fa piacere, possono a tratti comportarsi in modo meno appagante, più infantile, anche sciocco e volgare. Ma sono sempre loro, i social network. Quindi il piagnisteo di rimbalzo sul linciaggio via socialini mi sembra proprio una sciocchezza. Perché niente è per sempre, men che meno un vattelappijanderculo via twitter. E soprattutto i conflitti fanno parte delle vita, così come momenti in cui per quello che si è fatto si viene pesantemente criticati. È nelle regole del gioco: o non prendi nemmeno un applauso mai, oppure potrà capitare che tu riceva dei fischi. E quello sono: fischi. Si abbassa la testa, si chiede scusa, e poi le cose passano. È piacevole? No. Ma non è così grave.

È invece grave che non si paghi chi lavora. Perché alla cassa al supermercato non prendono le buone intenzioni: vogliono i soldi.

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