Ottiero Ottieri e l’irrealtà della scrittura

Matteo Veronesi
4 min readMar 22, 2024

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«Il pericolo che la disperazione non rinnovi. Il timore di non vivere per scrivere. L’irreale. La perdita di memoria. Scrivo per scrivere, per gettare un ponticello sopra l’abisso, per essere nella realtà e nello stesso tempo per estrarmi dalla realtà». Questo affermava Ottiero Ottieri in Campo di concentrazione (1972), tormentato e tormentoso diario di un periodo trascorso in una clinica psichiatrica svizzera.

E, certo, la sua intera esistenza si mosse (come quella di un laico, antimistico Kierkegaard), al pari di un pendolo lacerante, sul confine e sulla ferita di vita e letteratura, di esistenza e scrittura. In quella sospensione, in quell’infinita, vitale e quasi voluttuosa esitazione stava il suo senso di “irrealtà”, di scontroso e disperato amore, di appassionato distacco, di dolorosamente ironica distanza, nei confronti di una realtà, un’umanità e una società insieme comprese e respinte, approcciate con una volontà incisiva di cambiamento e di razionalizzazione ma precipitate, in pari tempo, “rigettate” in senso freudiano e insieme esistenzialistico, nel limbo ostile e nebbioso della mistificazione e dell’alienazione oppressive e repressive.

Vi erano, in Ottieri, come scriveva uno dei suoi interpreti più assidui, Geno Pampaloni, la «forza dell’intelligenza in lotta con la voragine e il buio», e «il lirismo che nasce in questo spasimo, nelle impreviste pieghe della pazienza».

Donnarumma all’assalto, il libro più celebre (ma forse non il maggiore) di Ottieri, pioniere della letteratura industriale, nacque dall’esperienza che l’autore, insoddisfatto dalle angustie degli ambienti letterari e mondani, volle compiere come dirigente di una fabbrica Olivetti aperta nel Meridione.

L’entusiasmo quasi neoilluministico per la vita razionale, luminosa, efficiente, programmata e scandita, della fabbrica ha indotto qualcuno a tacciare l’autore di aziendalismo, di un troppo ottimistico fordismo, di una volontà di giustificare meccanismi reificanti e alienanti. Eppure, l’alienazione operaia, la condizione abbrutita e svilita in cui gli operai versano, è ben presente in Ottieri.

Essa sembra incarnata con la più netta evidenza nelle brune, mediterranee «ragazze del collaudo» che «scrivono su un eterno rotolo di carta le stesse operazioni, e chilometri di striscia numerata le avvolgono a spire; scivolano e si appiattiscono in terra come serpenti». Spire, queste, di un sistema che inghiotte l’individuo e lo priva del suo volto umano, della sua interiorità, delle sue aspirazioni (si pensa, qui, a certa grande poesia industriale del secondo Novecento, dal Sereni di Una visita in fabbrica al Pagliarani della Ragazza Carla), ma che sembra essere rappresentato da Ottieri come l’espressione di un ordine immutabile, inflessibile, al quale non ci si può sottrarre (mentre un Biancardi o un Cesarano seppero raffigurare quella stessa alienazione con la volontà, disperatamente ironica, di sovvertirla, o di sottrarvisi).

Negli stessi termini, entro lo stesso alone di ferma e rigida immutabilità, appare la malattia (nevrosi, depressione, taedium vitae, «mancanza di rapporto» fra il sé è il mondo, fra il Sé e l’altro-da-sé, come nella psichiatria esistenziale e fenomenologica, nel Moravia della Noia o nell’Angst degli esistenzialisti).

Come si legge nella Linea gotica, altro diario di esperienza industriale, «È sempre la salvezza dell’anima che cerchiamo, in una nuova concezione dell’anima» (si tratti di Marx, della psicoanalisi o del cristianesimo, accomunati in fondo da uno stesso messianismo, da una stessa volontà di palingenesi, sia pur inclini alla rassegnata speranza, al devoto abbandono nel caso della fede, alla corrosione critica dell’esistente e al disincantato scavo nelle profondità del Sé nel caso, rispettivamente, dell’ideologia e della psicanalisi).

Ma su qualunque ideologia o visione del mondo, su qualunque scelta ideologica continuano ad incombere il senso della morte, la percezione dell’onnipresente, essenziale ed onnipervasivo, «Essere-per-la-morte», che getta su ogni atto della vita un velo di assurdo, di transitorietà, di esilità e di insensatezza. «Sotto l’angolo visuale della morte, la vita è assurda. Questa grande costruzione, grande macchinismo per operare bene, in vista della morte scricchiola». È l’assurdo di Camus, la “passione dell’assurdo” di Cioran — anche se in Ottieri non c’è, forse, il furioso, paradossale amor fati, ma una pacata e lucida attitudine meditativa. L’incombere della morte, l’ineludibile incalzare del destino ultimo con gli interrogativi che lo avvolgono, paiono sovvertire ogni fallace sistema, ogni certezza illusoria, che non sanno né possono dare risposta agli enigmi più angoscianti, alle più radicali e sostanziali richieste di senso.

Il “meccanismo” (si pensi al Pirandello dei Quaderni di Serafino Gubbio), l’alienazione, la ripetitività insensata, ossessiva, vacua, investono la logica disumanizzante del mondo industriale così come l’inferno, o il tormentoso ipnotico limbo, della malattia psichica.

L’irrealtà quotidiana investiga proprio i meccanismi della nevrosi, e il loro riflettersi nell’atto o nel processo della scrittura. Diviso fra vita e morte, fra affermazione della coscienza interpretante e tentazione assidua, possibilità onnipresente, del suicidio, Ottieri testimoniò con lucida fermezza (pur se a volte con quel tanto di borghese autocompiacimento, esso stesso peraltro consapevole) questa dialettica e questa lacerazione.

Che sono, in definitiva, conflitto fra due dimensioni del tempo, o meglio fra la temporalità (il suicidio, atto deliberato e voluto che pone fine alla vita, è «tutto tempo», mentre la felicità,l’abbandono, il puro vivere consisterebbero nel non essere più parte del tempo misurato e scandito, e nell’abbandonarsi allo sciolto fluire dell’esperienza) e la sua negazione, tra il filo dell’esistenza scandita da ore e giorni e il suo sprofondare per sempre nella voragine dell’ignoto.

Matteo Veronesi

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