Dall’Interaction all’Intent Design: Tre decenni di progettazione verso interazioni predittive.
Quando ho iniziato a occuparmi di Interaction Design, negli anni ’90, il centro della mia attenzione era tutto lì: pulsanti, menù a tendina, percorsi logici e ben ordinati. Le interfacce erano statiche, prevedibili. Bastava un buon senso del layout, un occhio per l’usabilità, e il gioco era fatto. Ma nel corso di quasi trent’anni, ho visto il design trasformarsi da strumento funzionale a mediatore intelligente tra l’umano e la macchina.
Oggi ci troviamo all’inizio di una nuova era. Un’era in cui l’interazione non si limita più al gesto o all’input, ma abbraccia l’intenzione, il contesto, perfino l’emozione. È il passaggio dall’Interaction Design all’Intent Design.
Dal gesto all’intenzione
Il cambiamento non è stato improvviso, ma profondo. Ricordo bene il momento in cui ho capito che non bastava più disegnare percorsi: bisognava capire perché l’utente si muoveva in una certa direzione. Nei miei ultimi progetti, soprattutto quelli legati ad assistenti intelligenti, l’obiettivo è diventato quello di anticipare il bisogno, non solo reagire a un clic.
Questo è l’Intent Design: una disciplina che integra competenze di linguistica, psicologia e intelligenza artificiale per cogliere segnali impliciti, adattarsi dinamicamente e offrire esperienze realmente personalizzate. Interfacce che ascoltano, apprendono, rispondono — e a volte sorprendono.
L’ibridazione con l’IA cambia le regole del gioco
Lavorare con modelli di linguaggio avanzati mi ha spinto a rivedere anche i principi base del mio approccio. La UI si dissolve, sostituita da una UX fluida, spesso invisibile, guidata da interazioni conversazionali e predittive. Ho progettato sistemi che apprendono dalle abitudini dell’utente, che riformulano una risposta se percepiscono incertezza, che propongono contenuti prima ancora che venga digitata una richiesta.
È un design che sfida il controllo totale, perché si nutre di relazione, non di rigore. E ammetto che, per chi come me è cresciuto nel culto della coerenza visiva e del controllo sui flussi, è stato un cambio radicale. Ma necessario.
E ora, cosa ci aspetta?
La recente acquisizione della startup io da parte di OpenAI, con Jony Ive alla guida creativa, segna un altro possibile punto di svolta. Non parliamo di un altro gadget, ma di un tentativo dichiarato di reinventare il modo stesso in cui percepiamo l’interazione uomo-macchina. Ho letto con grande interesse che Altman e Ive stanno lavorando a un “dispositivo post-smartphone”, non più centrato su uno schermo, ma su un dialogo continuo, ambientale, contestuale.
Confesso che alcune delle ipotesi circolate — dalle cuffie conversazionali a conduzione ossea ai “mobili cognitivi” — mi riportano a idee che avevo esplorato anni fa come provocazioni speculative. Oggi quelle provocazioni sembrano improvvisamente plausibili. Se l’obiettivo è ridurre a zero l’attrito tra intenzione ed esecuzione, allora stiamo andando verso oggetti quasi invisibili, che ascoltano, comprendono e agiscono in sinergia con la nostra quotidianità.
Dal design delle interfacce al design delle relazioni
Questo futuro richiede un cambiamento profondo anche nel nostro modo di pensare il design: non più solo come costruzione di interfacce, ma come progettazione di relazioni tra esseri umani e sistemi intelligenti. E, in fondo, è qui che vedo la vera sfida dei prossimi anni:
- Progettare esperienze empatiche, non solo funzionali.
- Fare dell’IA un alleato comprensibile, non un oracolo opaco.
- Creare dispositivi che scompaiono, per dare spazio all’esperienza umana.
Conclusione: progettare il dopo
Il mio lavoro oggi non consiste solo nel migliorare ciò che c’è, ma nel immaginare ciò che ancora non esiste. E da designer, non posso che essere affascinato dalla possibilità che design e AI convergano in una nuova forma di presenza tecnologica — più umana, più silenziosa, più intuitiva.
Se davvero nascerà un nuovo oggetto capace di incarnare questo salto — un “iPod dell’intelligenza artificiale” come qualcuno lo ha definito — allora assisteremo non solo a una nuova fase del design, ma a un nuovo modo di vivere la tecnologia. E forse, finalmente, potremo smettere di guardare uno schermo per iniziare a guardare di nuovo il mondo.
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