Il problema della Rai è la Rai

Max Di Giorgio
12 min readMay 2, 2019

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Neanche la nomina del primo vero amministratore delegato della Rai, nel luglio del 2018, ha coinciso con l’attesa “grande riforma” dell’azienda pubblica radio-tv, criticata per la lottizzazione interna o per l’eccessiva vicinanza al governo, il principale canale di informazione per gli italiani anche al tempo del web.Probabilmente, perché è proprio la storia del broadcaster italiano che continua a condizionare pesantemente il suo futuro.

Fabrizio Salini, il nuovo AD voluto dal governo gialloverde — e in particolare dal M5s — è stato accolto da un consenso più o meno generalizzato, perché l’ex direttore de La7 ha indubbiamente un ricco curriculum. Ma anche Antonio Campo Dall’Orto, il manager fortemente voluto da Matteo Renzi nell’estate del 2015 alla guida della Rai era considerato una garanzia di successo, date le sue esperienze. Nell’estate del 2017, però, Campo Dall’Orto fu costretto alle dimissioni dagli stessi renziani: secondo alcuni perché voleva ridurre troppo il peso dei partiti in Rai, compreso quello del presidente del Consiglio.

Fabrizio Salini nel 2010

Salini, come Campo Dall’Orto, nei suoi precedenti incarichi, si è occupato soprattutto di contenuti, poco di politica e gestione aziendale, di conti. In questi ultimi mesi di lui si è sentito parlare poco — qualcuno in Rai spiega che l’AD è soprattutto attento a non muoversi troppo, per timore di creare incidenti diplomatici — mentre le attenzioni sono tutte per Marcello Foa, il presidente, vicino alla Lega.

Il presidente in teoria non ha grandi poteri, si occupa delle relazioni esterne e supervisiona le attività di controllo interno, dopo la mini-riforma varata nel 2015 dal governo Renzi, che ha dato invece maggiore peso all’ex direttore generale, oggi amministratore delegato. Ma quello che continua a contare, in Rai, è la politica. E il protagonista assoluto della politica italiana, oggi, sembra essere Matteo Salvini, il leader della Lega, considerato dai sondaggi il vero capo del governo e sempre presente sui social. Di qui, la maggiore esposizione di Foa, diventato il simbolo della tv “sovranista”.

Marcello Foa nel 2009

Finora la svolta gialloverde ha ridistribuito cariche interne e ha prodotto solo un paio di trasmissioni, “Povera Patria” e “Popolo Sovrano”, con bassi ascolti. Ma il piatto forte della svolta, se l’intesa tra Lega e M5s dovesse durare nei prossimi anni (cosa su cui ciclicamente tornano ad affacciarsi dubbi), potrebbe essere la newsroom unica, cioè una struttura per l’informazione trasversale a tutti e tre i canali, riducendo il potere delle singole testate giornalistiche, da sempre terreno di scambio politico.
Sulla carta il progetto, di cui in realtà si parla da almeno quattro anni, quando la star della politica era appunto Renzi, sembrerebbe una razionalizzazione sensata. Ma per come è storicamente strutturata la Rai, il rischio è quello che l’informazione dell’emittente pubblica finisca per essere controllata più saldamente dal governo, come succedeva più o meno fino all’inizio degli anni Settanta.

PERCHÉ I PARTITI
RESTANO COSÌ IMPORTANTI

Che i partiti siano così importanti a viale Mazzini è un dato storico. La Rai (allora Radio Audizioni Italiane) nasce dopo il 1945, quando non c’era ancora la tv, come società privata controllata dalla piemontese Sip sulle ceneri dell’Eiar, la radio di Stato fascista, con lo scopo di ricostruire la rete radiofonica. Poi però il ministero delle Comunicazioni rileva tutte le quote, e la società diventa completamente pubblica.

“Dal Secondo Dopoguerra in poi il grande capitale ha avuto i suoi giornali, è sempre rimasto distaccato dalla politica dei partiti, guardandola dall’alto in basso: se ne è servito, ma senza riconoscere il primato della politica”, mi raccontava tempo fa un dirigente Rai e giornalista, una specie di memoria storica dell’azienda. “La politica, il governo, si sono difesi utilizzando la Rai, usando la tv per rappresentarsi, per raccontarsi”.

La sede della Rai a Viale Mazzini, Roma

Ovviamente, nel corso degli ultimi 20 anni è aumentato il peso di Internet (e dei social media) nella vita degli italiani. Ma il rapporto 2018 dell’Autorità per la garanzia nelle comunicazioni ha rilevato che la tv resta comunque la principale fonte di informazione per il 90% degli intervistati, contro il 70% di Internet, il 66% delle radio, nel menù crossmediale degli italiani. E la tv, sia a livello locale che nazionale, è considerata in assoluto la fonte più importante per l’informazione politico-elettorale.
Secondo uno studio recente, sempre dell’Agcom, sull’informazione locale, in 17 Regioni su 20 gli italiani si informano soprattutto grazie alla tv, e la prima fonte d’informazione è la Tgr, la testata regionale della Rai, che è considerata la più estesa redazione giornalistica d’Europa.

Ma torniamo alla storia della Rai. A metà degli anni Settanta, con un’importante riforma seguita all’avanzata elettorale dei partiti di sinistra, l’azienda smette di essere direttamente al servizio del governo, e passa sotto il controllo del Parlamento. E’ quello che qualcuno chiama “pluralismo”, qualcun altro “lottizzazione”, con la divisione delle reti in sfere d’influenza dei principali partiti e in alcuni casi delle sue correnti.

Negli anni Novanta, con la decisione dell’imprenditore dei media Silvio Berlusconi di fondare un partito, Forza Italia, e candidarsi alle elezioni, lo scenario cambia ancora. Il principale concorrente della Rai, divenuto premier, interviene sull’azienda. E il suo governo fa approvare una legge, la cosiddetta Gasparri — dal nome dell’ex ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri — che dà ai partiti, attraverso la Commissione di vigilanza, il potere di eleggere direttamente gran parte dei membri del consiglio di amministrazione, mentre gli altri sono indicati dal governo. Solo per eleggere il presidente occorre una maggioranza qualificata, quasi più ampia di quella che serve per eleggere il capo dello Stato.

Maurizio Gasparri, Michele Santoro e Lucia Annunziata

Ovviamente, il tentativo di intromissione del potere politico nella tv pubblica è un fenomeno che avviene in molti Paesi, pur se con modalità diverse. Ma in Italia colpisce la capillarità degli interventi. Andare in tv (anche in radio, ma soprattutto in tv) è una specie di prova della propria esistenza e del proprio potere.
A certificare il tempo che la Rai riserva alla politica è l’Agcom. Secondo i dati dell’agenzia, dal 1 al 7 aprile di quest’anno, solo considerando i telegiornali Rai, il M5s ha avuto il 13,28% del cosiddetto tempo di antenna relativo ai partiti e ai cosiddetti “soggetti istituzionali”, la Lega il 10,37%. Un tempo, ragionevole, si potrebbe dedurre, anche troppo. Poi però bisogna aggiungere il tempo per il presidente del Consiglio, che fa parte del M5s: 21,76%; quello per il governo (che è composto di ministri, viceministri e sottosegretari M5s e Lega): 21,76%, quello per il presidente della Camera (esponente M5s): 0,92%. Il totale fa circa il 68% del tempo.
In genere, le maggioranze politiche godono di un premio di antenna, sull’informazione Rai. Ma le percentuali non sono sempre le stesse. Se prendiamo il governo Renzi, quasi 10 mesi dopo il suo insediamento, nel mese di novembre di 2014, la maggioranza poteva contare su oltre il 61% del tempo di antenna. Se prendiamo il quarto governo Berlusconi, circa 10 mesi dopo l’insediamento a maggio 2008, il tempo di antenna era anche in questo caso di circa il 61%.

DEI CONTI IN ROSSO
NON SI PARLA PIÙ

Nel recente passato, il problema principale della Rai sembrava essere quello dei conti spesso in rosso, dell’esercito di collaboratori e degli stipendi troppo alti di manager e celebrità, mentre si continuava a parlare della privatizzazione parziale dell’azienda. Oggi, che al potere c’è un partito, il M5s, che ha costruito la propria narrazione sulla lotta agli sprechi e ai costi della politica, non è più così. Anche, almeno in parte, per effetto delle ristrutturazioni degli ultimi anni.
Nessuno parla di tagliare i numerosi canali Rai, ma al massimo di trasformare Rai Movie e Rai Premium in nuove reti per donne e per uomini, e di aggiungere un canale international in lingua inglese, come indica il piano industriale approvato a marzo scorso.
Il piano prevede il ritorno agli utili nel 2021, dopo due anni in perdita per alcuni milioni di euro, sia per il calo dei fondi del canone pubblico sia per gli investimenti voluti dall’AD, che per l’esborso una tantum di circa 200 milioni per liberare una frequenza, quella dei 700 Mhz, che sarà destinata alle nuove reti 5G. Intanto, il debito consolidato della Rai resta superiore ai 300 milioni di euro. Una cifra che per Salini è comunque “sostenibile”.

Il più grande rimpianto di Lucia Annunziata, presidente alla guida di Viale Mazzini per un anno, dal 2003 al 2004, è probabilmente quello di non essere mai riuscita a mettere le mani sul faraonico e semi-leggendario registro dei collaboratori della Rai, 10.000 secondo le stime più moderate, che si affiancano a circa 12.000 dipendenti.
Anni fa Annunziata mi ha raccontato di aver cercato “disperatamente di avere il registro di tutti i collaboratori di cui si avvale l’azienda”, spiegando che le “collaborazioni sono il vero polso di dove conta la politica”. Oggi la regola interna dice che può collaborare con Rai soltanto chi ha già collaborato in passato. Ma ci sono eccezioni: la prima è che le collaborazioni siano autorizzate direttamente dall’AD (nel 2017 per esempio Campo Dall’Orto ne autorizzò oltre 200 in una botta sola), la seconda è che quando le produzioni sono esterne, sono ovviamente i produttori e i conduttori a decidere chi lavora.

Poi c’è il capitolo degli appalti esterni. Per fare un esempio, oggi si parla di circa 150 società solo per fornire i cosiddetti “zainetti”, cioè le attrezzature leggere per fare riprese video.Ma nel 2013, le società censite dall’allora direttore generale Luigi Gubitosi per tutti gli appalti erano circa 2.400 per un budget di 2 miliardi di euro destinato a produzioni tv, catering, trasporti, etc. Nel bilancio 2015, dalle casse della Rai per i costi esterni usciva una cifra inferiore, circa 1,3 miliardi di euro, calata a poco più di 1 miliardo nel 2017 (al netto dei costi sportivi, che quell’anno però non ci furono).

Quando nel 2012 alla presidenza è arrivata Anna Maria Tarantola, una dirigente di Bankitalia voluta direttamente dall’allora premier Mario Monti, alla guida del famoso “governo dei tecnici”, sembrava che con le sue deleghe speciali votate dal cda fosse riuscita a “tagliare le unghie” a certi gruppi di potere e di pressione interessati agli appalti e alle nomine in Rai. E puntualmente si è ricominciato a parlare di fare della Rai una sorta di Bbc. Era già successo quasi 20 anni prima, con la nomina a presidente di Claudio Dematté nel 1993, quando il sistema politico italiano fu scosso da Tangentopoli e per una breve stagione arrivarono i “tecnici” e cominciarono a tagliare i bilanci. Ma nel 1994 andò al potere Berlusconi, e la rivoluzione dei “professori” finì lì, stritolata nel duopolio Rai-Mediaset.
Nel 2015, con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi è tornato il mantra della Bbc, ma per poco tempo: al posto di un’istituzione indipendente, rapidamente ha preso corpo l’idea di un amministratore delegato che concentrasse sempre più i poteri.

IL COLOSSO DAI PIEDI FRAGILI

Intanto, come dicevamo, per la Rai non si parla più di conti in rossi, risparmi, accorpamenti di canali e vere e proprie dismissioni, anche se dal 2018 al 2020 almeno l’azienda sarà in rosso per una serie di spese e di investimenti.
Negli anni scorsi l’azienda ha definitivamente risolto il problema dell’evasione del canone — che era stimata attorno al 27%,contro il 5% della Bbc o l’1% della tv pubblica francese — grazie alla tassa sulle bollette elettriche e nel 2016 è tornata leggermente in attivo.
Nel 2017 la Rai ha incassato 1,7 miliardi di euro circa dal canone, ma è rimasta in attivo grazie soprattutto al taglio delle spese, perché le entrate pubblicitarie sono nettamente calate. Nell’ultimo bilancio finora certificato, infatti, il broadcaster pubblico ha incassato dalla pubblicità circa 647 milioni di euro, nell’anno peggiore dal 2010.
La Rai è comunque la tv pubblica europea con maggiore introito pubblicitario rispetto al complesso delle risorse (anche perché in alcuni Paesi gli spot pubblicitari sulle reti pubbliche sono vietati), ma è anche quella con più canali: ne conta 14, più uno in alta definizione.

Per anni gli analisti hanno immaginato che l’azienda tagliasse le reti, che rappresentano un costo non indifferente. E il nuovo piano industriale, come dice una fonte del cda, in effetti punta a chiudere Rai Movie e Rai Premium — il primo specializzato in cinema, il secondo in serie tv — a causa della “limitata audience”.
Ma al tempo stesso Viale Mazzini ipotizza un nuovo canale Rai 6 dedicato alle donne (mentre Rai 4 diventerebbe rete per gli uomini), un canale in lingua inglese e una non meglio specificata rete istituzionale. Il che significa probabilmente nuovi costi.

Un capitolo a parte riguarda Rai Way, cioè la società che possiede la rete di diffusione del segnale tv, che è controllata da Rai (e dunque dal ministero del Tesoro) ed è quotata in borsa. Oggi costa alla Rai circa 180 milioni l’anno e il punto, segnalano gli analisti, è che dovrà fare investimenti per ammodernare gli impianti. Nel frattempo, dopo aver distribuito buoni dividendi, in borsa la società ha perso circa il 20% del valore rispetto a un anno fa.

Rai Way, per decreto, non può essere controllata da privati, ma deve restare pubblica al 51%. In virtù di ciò l’azienda ha resistito al tentativo di Opa da parte di Ei Towers, la società delle torri di Mediaset che puntava a dare vita un gigante italiano del settore in grado di competere a livello europeo. Un’altra possibilità è però che sia l’azienda pubblica a cercare di promuovere l’accorpamento, e per questo ha tifato una parte della politica italiana. Ma finora i suoi tentativi non sono andati nella giusta direzione, ed è fallito anche il tentativo di acquisire Persidera, la società al 70% Tim e al 30% Gedi.

Nel frattempo, si sviluppa la tv via Internet. Uno studio IT Media Consulting dice che nel 2020 8,5 milioni di famiglie avranno accesso alla tv via web, contro i 3,5 di fine 2018, mentre resteranno al palo gli abbonati ai servizi via satellite. Nel frattempo, oltre a Netflix e Amazon e qualche altro servizio, nel settore web tv stanno arrivando anche giganti come Apple e Disney. Per la Rai dunque, e anche per Rai Way, si profila dunque uno scenario completamente diverso rispetto a quello della tv, che sia digitale terrestre o satellitare.

NESSUNO CREDE
ALLA PRIVATIZZAZIONE

Un possibile cambio di paradigma potrebbe venire dalla privatizzazione, cioè dalla vendita di uno o più canali Rai. Lo imporrebbe un referendum popolare del 1995, lo prevede anche la stessa legge Gasparri (che resta in vigore, nonostante i partiti di centrosinistra hanno sempre detto di volerla abolire).

Nel 2013 la sola Rai 3, di fatto la seconda rete pubblica per ascolti, veniva valutata in circa 450 milioni di euro da analisti di mercato. L’intera Rai valeva, per Mediobanca, circa 2 miliardi. Ma la privatizzazione sembra una prospettiva a cui nessuno crede, almeno finché Silvio Berlusconi resterà sulla scena, perché diminuirebbe nettamente lo spazio per i partiti.

Nessuno crede neanche all’abolizione del tetto pubblicitario per la Rai, che potrebbe essere compensato almeno in gran parte dall’abolizione del canone. In questo caso, oltre a calare prevedibilmente gli incassi per i concorrenti, soprattutto Mediaset (che anche se ha registrato un calo di vendite continua a spadroneggiare sul mercato pubblicitario), l’azienda pubblica rischierebbe di perdere comunque soldi certi.

SOGNANDO LA BBC

Le proposte per fare della Rai un’azienda controllata non più direttamente dal Parlamento o dal governo ma da una fondazione pubblica non mancano. Nel corso degli anni sono state avanzate da personalità politiche, associazioni di giornalisti, anche dagli inserzionisti pubblicitari.

Un’idea, per esempio, è quella di dare al Presidente della Repubblica, carica super partes, il potere di nominare un trust con funzioni di indirizzo e controllo, che nomina a sua volta un organismo di gestione composto da pochi membri che tra loro eleggono un amministratore delegato.

Il problema, però, è sempre lo stesso: i partiti, che oggi non hanno neanche quasi più finanziamento pubblico, sarebbero disposti a cedere il loro potere di controllo sul broadcaster pubblico?

Del resto, non sembra neanche esserci nell’opinione pubblica un forte movimento per una Rai meno condizionata dalla politica. Dal famoso referendum per la privatizzazione sono passati quasi 25 anni. E anche l’idea del Movimento Cinque Stelle, nel 2013, di “di un solo canale RAI, senza vincoli verso i partiti, senza pubblicità e la vendita dei rimanenti due canali” sembra lontanissima.

Invece, se si guarda ai dati esibiti da Viale Mazzini sul proprio gradimento, che risalgono al primo semestre 2018, l’indice di qualità percepita degli italiani sulla qualità della programmazione era di 7,6 punti su una scala da 1 a 10, con un voto specifico sull’informazione di 7,4 punti.

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Max Di Giorgio

giornalista e narratore, già Reuters Italia (quasi 20 anni), già l’Unità (quasi 9 anni), tri-padre, dj mancato