Una rappresentazione artistica della sonda Pioneer 11 in vista di Saturno, raggiunto nel 1979 grazie all’assist gravitazionale fornito da Giove nel 1974. Credit: NASA Ames

La scoperta della propulsione gravitazionale (1/2)

Michael Minovitch, uno sconosciuto matematico venticinquenne, scoprì nel 1961 che i pianeti possono essere usati come fionde gravitazionali. Si deve a quella scoperta, se fu in seguito possibile concepire e realizzare le missioni spaziali Mariner 10, Voyager, Galileo, Ulisse, Cassini, New Horizons, Rosetta, Juno e altre ancora

Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia
9 min readSep 21, 2017

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Lanciate dalla base di Cape Canaveral in Florida tra la fine di agosto e l’inizio di settembre del 1977, le due sonde Voyager visitarono Giove e Saturno in rapida successione tra il 1979 e il 1981. Mentre il Voyager 1 ricevette da Saturno la spinta per allontanarsi direttamente dal sistema solare in direzione Nord, il Voyager 2 proseguì invece il viaggio verso i due pianeti più esterni. Raggiunse Urano nel 1986 e Nettuno nel 1989: in soli dodici anni aveva così visitato tutti e quattro i pianeti giganti del sistema solare, giungendo in un tempo record fino all’orbita di Nettuno, distante ben 4,5 miliardi di km dal Sole.

Ventotto anni dopo lo storico fly-by di Nettuno, unico e mai più ripetuto (così come quello di Urano), l’impresa dei Voyager fa parte ormai a pieno diritto della storia dell’esplorazione spaziale. Fu un’impresa straordinaria, che abbiamo raccontato in dettaglio, come meritava, in un post precedente; un’impresa, per altro, che dura ancora oggi, visto che le due sonde sono tuttora in viaggio e continuano a comunicare con la Terra.

Ma come fu possibile realizzarla? In parte grazie a un caso fortunato: Giove, Saturno, Urano e Nettuno, muovendosi ciascuno alla propria caratteristica velocità orbitale intorno al Sole, si sarebbero trovati alla distanza giusta l’uno dall’altro, per consentire a delle sonde partite dalla Terra nella seconda metà degli anni ’70, dotate di una sufficiente velocità iniziale, di sfruttare gli assist gravitazionali forniti dalla massa di quei pianeti. Grazie alla spinta supplementare e al cambio di traiettoria impartiti da ciascun pianeta, le sonde avrebbero acquisito una maggiore velocità e sarebbero state catapultate verso il pianeta successivo, che avrebbero così raggiunto molto più rapidamente di quanto sarebbe stato possibile con un viaggio diretto dalla Terra. Si trattava di un raro allineamento orbitale che si verifica solo una volta ogni 175 anni.

Ma scoprire questo fortuito allineamento e, soprattutto, immaginare di poterlo utilizzare per un viaggio interplanetario richiese intuito, lungimiranza, una visione quasi fantascientifica del futuro e una solida base di calcoli preliminari. Bisognava infatti elaborare con la massima precisione le traiettorie che le sonde avrebbero dovuto percorrere per arrivare in tempo all’appuntamento con i vari pianeti, sfiorandoli alla distanza giusta e con l’angolo idoneo per ottenere il cambio di traiettoria e di velocità, indispensabile per passare alla tappa successiva del tour.

Michael A. Minovitch al lavoro nel laboratorio di chimica del dr. Linus Pauling durante l’estate del 1960 (un anno prima del trimestre di lavoro al JPL)

La persona che risolse questi complicati calcoli e che per primo aprì l’orizzonte delle missioni spaziali al viaggio interplanetario fu un giovane matematico americano di 25 anni: Michael Andrew Minovitch.

A giugno del 1961 Minovitch, che all’epoca era al terzo anno del dottorato in matematica e fisica presso l’Università della California, cominciò un trimestre di lavoro estivo presso il Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA, a Pasadena. Gli fu assegnato di trovare una soluzione a un problema che affliggeva Victor Clarke, il capo del team di ricerca sulle traiettorie per i viaggi spaziali nell’ambito del programma Mariner. Clarke stava utilizzando per calcolare quelle traiettorie uno dei pochi supercomputer disponibili all’epoca: il gigantesco IBM 7090. Era uno dei primi computer con transistor al posto delle valvole termoioniche. Venduto al costo di 3 milioni di dollari e affittato mensilmente per 63.500 dollari, era in grado di eseguire in un secondo 229.000 addizioni o sottrazioni, 39.500 moltiplicazioni o 32.700 divisioni.

Minovitch risolse rapidamente il problema di Clarke e si rese conto, nel risolverlo, che le procedure usate al JPL per definire e manipolare le traiettorie dei veicoli spaziali erano barocche e improduttive. Decise così di cambiarne la formulazione in modo semplice ed elegante: invece di calcolare le traiettorie usando, come facevano al JPL, le sei diverse grandezze scalari dell’astronomia classica (semiasse maggiore dell’orbita, eccentricità, inclinazione, longitudine del nodo ascendente, argomento del periapside e tempo di passaggio al periapside), trasformò tutto in grandezze vettoriali, riducendo il numero dei parametri da calcolare a soli due vettori tridimensionali costantemente ortogonali.

Un IBM 7090 nella configurazione tipica in uso presso il JPL e l’Università della California tra il 1961 e il 1963

Stimolato dal successo ottenuto in poco tempo e, soprattutto, attirato dalle immense possibilità di calcolo iterativo che gli offriva l’uso dell’IBM 7090, Minovitch decise di propria iniziativa, benché non avesse alcuna formazione preliminare in astrodinamica e meccanica celeste, di affrontare un problema che nessuno fino a quel momento era riuscito a risolvere e che rappresentava un enorme ostacolo allo sviluppo di progetti di missioni spaziali interplanetarie: il problema dei tre corpi semplificato.

In breve, si trattava di definire come evolve, momento per momento, la traiettoria di un corpo di massa trascurabile (come un velivolo spaziale in caduta libera), che si muove in un piano sotto l’influenza simultanea della gravità di altri due corpi — per esempio il Sole e un pianeta — in moto anch’essi nello stesso piano e influenzati della mutua attrazione gravitazionale. Il problema dei tre corpi, dibattuto e mai risolto sin dai tempi di Newton, si considera in questo caso semplificato, perché i campi gravitazionali di cui calcolare gli effetti sono solo due: il terzo corpo (il velivolo spaziale, nel nostro caso) è dato, infatti, a priori come avente massa trascurabile, per cui il suo campo gravitazionale è altrettanto trascurabile.

L’importanza del problema dei tre corpi ai fini del volo spaziale stava nel fatto che il campo gravitazionale di un pianeta rappresentava una fonte di disturbo, che doveva in qualche modo essere contrastata, affinché le traiettorie perfettamente ellittiche, studiate per trasferire un velivolo spaziale dall’orbita terrestre all’orbita di un altro pianeta del sistema solare, potessero funzionare al meglio.

Prima della comparsa di Minovitch sulla scena, gli studiosi di meccanica celeste che progettavano il viaggio di una sonda dalla Terra a un altro pianeta del sistema solare consideravano praticabile un’unica traiettoria, detta orbita di trasferimento di Hohmann, dal nome di un architetto tedesco, Walter Hohmann, che la scoprì e ne definì le caratteristiche nel lontano 1925.

Due classiche traiettorie di minima energia di Hohmann, per il trasferimento di un velivolo spaziale dall’orbita della Terra a quella di Venere o di Marte. Credit: R.L. Dowling et al., “The origin of gravity-propelled interplanetary space travel”, 1990

Era stato dimostrato matematicamente che la migliore traiettoria che un velivolo potesse seguire, per andare per esempio dalla Terra a Venere o dalla Terra a Marte impiegando la minima quantità possibile di energia, fosse un’ellissi tangente all’orbita del pianeta di lancio alla partenza e tangente all’orbita del pianeta di destinazione all’arrivo: una traiettoria di Hohmann.

All’inizio degli anni ’60, anche la progettazione di un viaggio dalla Terra fino all’orbita di Nettuno o di Plutone era concepita come un problema che coinvolgeva unicamente il pianeta di lancio, la Terra, e quello di arrivo. Ciò rendeva pressoché impossibile realizzare missioni che avessero di mira un’esplorazione completa del sistema solare. Trasferire, per esempio, un velivolo direttamente dalla Terra all’orbita di Nettuno richiedeva un razzo di potenza enorme e tempi lunghissimi: circa 31 anni di viaggio per una sonda lanciata alla velocità finale di 12 km/s (43.200 km/h).

Un’orbita di trasferimento di Hohmann per inviare una sonda dall’orbita terrestre direttamente a quella di Nettuno. Credit: R.L. Dowling et al., “The origin of gravity-propelled interplanetary space travel”, 1990

Inoltre, la gravità del pianeta di arrivo avrebbe perturbato la traiettoria del velivolo, modificandone la forma ellittica accuratamente studiata. Ciò impediva, per esempio, di progettare missioni in cui una sonda partita dalla Terra sfiorasse semplicemente un pianeta relativamente vicino come Marte o Venere, facesse nell’occasione i suoi rilievi scientifici e fotografici, e ritornasse poi verso la Terra continuando a percorrere la medesima traiettoria ellittica iniziale.

Per risolvere il problema delle perturbazioni causate dai pianeti, la soluzione escogitata fu quella di progettare sonde dotate di propellente e razzi, che potessero impartire al momento opportuno una spinta uguale e contraria alla trazione gravitazionale esercitata sulla sonda dal pianeta di destinazione, così da cancellare ogni perturbazione della sua traiettoria.

Ciò creava però un ulteriore problema: il peso della sonda sarebbe aumentato in ragione della quantità di propellente necessaria a contrastare la gravità del pianeta. Per cui, o la traiettoria doveva essere studiata in modo da far passare il velivolo molto lontano dal pianeta di destinazione, cioè dal centro del suo campo gravitazionale, con il risultato di abbassare nettamente il valore delle riprese fotografiche e dei rilievi scientifici, oppure si sarebbe dovuto ricorrere a razzi di lancio immensi, potentissimi, tanto più grandi e pesanti quanto più distante fosse stata la destinazione del viaggio.

Per quanto riguarda la propulsione, all’inizio degli anni ’60 non si vedeva infatti all’orizzonte altra soluzione possibile che l’uso di razzi basati su motori tradizionali che sfruttavano la terza legge del moto di Newton, cioè il principio di azione e reazione: a ogni forza esercitata in una data direzione, corrisponde una reazione uguale e contraria.

Per aumentare la potenza di un razzo in modo da andare più lontano e contrastare la gravità del pianeta di destinazione, l’unica scelta possibile era dunque considerata quella di aumentare la forza bruta del lancio. Nacque così una serie di progetti per razzi di lancio giganteschi, in grado di imprimere alla partenza una spinta di diverse centinaia di meganewton e di portare in orbita carichi di centinaia di tonnellate.

Tra questi progetti, il più mastodontico fu quello del Sea Dragon, un razzo a due stadi alto oltre 150 metri e largo 23, in grado di portare in bassa orbita terrestre un carico utile di 550 tonnellate. Il progetto, che risale al 1962, riscosse qualche interesse da parte della NASA, ma il razzo non fu mai costruito: dimensioni, potenza e costi erano tali da far impallidire il Saturn V, il razzo che fu poi effettivamente usato per le missioni Apollo e che resta il più pesante e potente veicolo di lancio mai utilizzato.

Le dimensioni del Sea Dragon (in basso) erano tali da far impallidire quelle del Saturn V (in alto), il razzo usato per le missioni Apollo

Su questa scena bloccata irruppe all’improvviso Michael Minovitch, con la sua temeraria idea di trovare una soluzione pratica al problema dei tre corpi semplificato. Da un punto di vista teorico, Henry Poincaré aveva già dimostrato verso la fine del 19° secolo che non esiste una formula generale che consenta di determinare la posizione di un oggetto di massa trascurabile (il nostro velivolo spaziale) in ogni istante futuro, sotto l’influenza gravitazionale combinata di due corpi in moto l’uno rispetto all’altro.

Ma, anche se il problema dei tre corpi non era risolvibile con un’unica formula generale, Minovitch era convinto di poter ottenere delle soluzioni pratiche sufficientemente precise per le esigenze del volo interplanetario, ricorrendo a una serie ben studiata di approssimazioni e iterazioni. La possibilità di utilizzare la potenza di calcolo dell’IBM 7090 era un requisito essenziale ai fini della buona riuscita del suo progetto, perché consentiva di eseguire rapidamente una serie enorme di calcoli complicati e ripetitivi: diventava possibile, in tal modo, scartare molto velocemente le strade che non portavano a nulla e focalizzare i calcoli sulle approssimazioni più promettenti.

Il problema dei tre corpi semplificato: un velivolo di massa trascurabile si muove lungo la traiettoria AC sotto l’influenza gravitazionale combinata del Sole e di un pianeta. L’arco da A a B è la parte della traiettoria maggiormente perturbata dalla gravità del pianeta. Credit: R.L. Dowling et al., “The origin of gravity-propelled interplanetary space travel”, 1990

L’essenza del problema dei tre corpi semplificato si riduceva per Minovitch al compito di determinare esattamente i vettori di velocità e posizione del velivolo mentre questo passava nei pressi del pianeta perturbante, che, con la sua gravità modificava la traiettoria ellittica lungo la quale il velivolo stava avanzando.

In sostanza, ciò che fece Minovitch fu ridurre l’intrattabile problema dei tre corpi al più semplice e risolvibile problema dei due corpi: un pianeta e un velivolo spaziale. Per via di approssimazioni successive, riuscì a determinare l’ampiezza della sfera d’influenza gravitazionale di un pianeta. All’interno di quella sfera, Minovitch considerò che la traiettoria del velivolo fosse influenzata unicamente dalla gravità del pianeta: un’approssimazione, perché sul velivolo continua ad agire in ogni istante quantomeno la gravità del Sole.

Tuttavia l’approssimazione, ai fini dei suoi calcoli, funzionava ottimamente e permise a Minovitch di risolvere il problema generale, cioè di ottenere alla fine una traiettoria continua, senza angoli vivi, definibile in uno spazio tridimensionale e formata da tre archi congiunti: un’ellissi di approccio al pianeta, un arco in cui il velivolo è deviato dalla gravità del pianeta a cui si è avvicinato, e un’ellissi di uscita verso lo spazio interplanetario. Le due gambe esterne dell’orbita del velivolo erano sotto l’influenza della gravità solare, l’arco centrale sotto l’influenza della gravità del pianeta.

Grazie al metodo matematico da lui sviluppato e grazie alla potenza di calcolo dell’IBM 7090, Minovitch riuscì così a raggiungere prima della fine dell’estate lo scopo che si era prefissato: trovare un metodo per determinare, istante per istante, la traiettoria di un velivolo spaziale che si avvicina a un pianeta del sistema solare con un dato angolo e una data velocità.

Questo risultato, già di per sé notevole, fu però solo l’anticamera di una scoperta molto più importante e gravida di conseguenze: il volo interplanetario con propulsione gravitazionale. Ne parleremo nella seconda parte di questo articolo.

Michael Minovitch davanti a un tabellone nella sede del JPL a Pasadena, recante le distanze percorse fino ad allora dalle sonde Voyager 2 e Magellano. La foto fu scattata il 26 agosto del 1989, cioè nel giorno del fly-by di Nettuno da parte del Voyager 2. L’intera missione Voyager, così come tante altre missioni spaziali, non sarebbe potuta esistere senza la scoperta di Minovitch che la gravità di un pianeta può essere sfruttata per catapultare un velivolo verso una nuova destinazione

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Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.