Modificare il genere topologico di Piergiorgio O.

Perché il “teorema” di Odifreddi non regge. Con un’introduzione alla pratica matematica come attività intellettuale, corroborata da esempi pratici e dilettevoli che non sono la solita Marie Curie.

Charles M Casetti
11 min readOct 19, 2016

Una premessa autobiografica ma anche sociologica

“Cioè, sei una matematica?
“Beh, non so… ecco, ho studiato… e sì, c’è quel teorema…”

Le donne sono socializzate (insomma: ci educano dall’infanzia, in famiglia o a colpi di bullismo fuori casa) a sminuire i propri risultati. Il risultato è un handicap grave quando devi venderti — quando devi chiedere i soldi per un fondo di ricerca, per una borsa di studio; quando devi fare un colloquio per essere assunta, ammessa a un corso di studi, entrare in tenure track.

Disintossicarsi dall’abitudine è peggio che smettere di fumare. Magari diventi spavalda quando scrivi un CV nella tua stanzetta, ma poi sei fuori con amici di amici di amici, ti chiedono che hai fatto nella vita e

“Cioè, sei una matematica?
“Beh, non so… ecco, ho studiato… e sì, c’è quel teorema…”

Eh.

Ma recentemente (qui inizia la parte autobiografica) mi sono resa conto che sono sopravvissuta a quasi quarant’anni di tempeste di merda, ho capito che quel che non ti uccide fortifica la tua capacità di don’t give a fuck, e sono giunta alla conclusione che preferisco essere spudoratamente me stessa.

E amo Star Wars.

Quindi, a fronte della cazzata epica scritta da Piergiorgio Odifreddi sul tema “le donne non sanno fare matematica perché non sono portate per l’astrazione”, cazzata accettata per la pubblicazione dall’editore responsabile di Repubblica, stampata nero su bianco dal gruppo editoriale L’Espresso, ho pensato di non imprecare da sola mentre preparo il brodo ma scrivere — in pubblico.

La cazzata epica (ma non originale) in questione.

Ma, considerato che a quasi quarant’anni non ho tempo da perdere, preferisco usare la cazzata di Odifreddi come scusa per una divulgazione più ampia. Più astratta e meno concreta, se volete.

Vi chiedo solo di accantonare per pochi minuti la visione della matematica come “quella sfilza punitiva di conti infiniti e numeroni” o “quella roba difficile-difficile-difficile fatta da geni geniali e pazzi” che viene presentata con una certa frequenza — non ultimo dal suddetto Odifreddi.

Andiamo.

Fare matematica for dummies

Su una cosa Odifreddi ha ragione: la Matematica è una cosa astratta. Ma Odifreddi assume — e, atto grave, assume senza dichiarare la congettura — che la Matematica e fare matematica siano la stessa cosa. E il punto dell’articolo non è comprendere il concetto filosofico di Matematica (lì si dovrebbe investigare il numero di donne che hanno lavorato nel campo della filosofia delle scienze), ma ottenere risultati matematici.

Ora, l’atto di fare matematica non è esattamente un’attività che si svolge nell’Empireo, in un mondo ideale platonico. Una buona descrizione di cosa succede quando fai matematica potrebbe essere:

  1. Vieni a sapere che Tizio ha dimostrato un teorema. Il teorema è composto da:
    1. ipotesi (condizioni che devono essere rispettate per tutto il corso del teorema; potete immaginare le pareti di una stanza),
    2. tesi (qualcosa che è valido sotto quelle condizioni; potete pensare a quanti passi potete fare in quella stanza senza sbattere contro la parete),
    3. dimostrazione (passaggi logici che portando dall’ipotesi alla tesi).
  2. Pensi “e se togliessimo un’ipotesi?”, oppure “c’è una dimostrazione diversa, più elegante” (sì, davvero, diciamo elegante, altro che fredda logica, ci tiriamo pippe estetiche che manco i fan della Callas contro quelli della Tebaldi).
  3. Scrivi dove vuoi arrivare su una lavagna, o il retro della lista della spesa per l’Ikea. (Sì, quando stai cercando di dimostrare una roba nuova parti dalla tesi. Se vuoi prendere il treno da Milano a Roma pensi ai treni con cui puoi arrivare a Roma, non a tutti quelli che partono da Milano.)
  4. Guardi intensamente la lavagna.
  5. Inizi a scrivere roba che sai che funziona e magari potrebbe essere utile, non si sa mai.
  6. Scrivi una roba che potrebbe implicare la tesi.
  7. Speri che la roba che hai scritto sia vera, sotto le condizioni dell’ipotesi.
  8. Ti prende una botta di dubbio che sia vera. Occazzo.
  9. Guardi intensamente la lavagna.
  10. Cerchi un caso in cui la roba che hai scritto non è vera (controesempio). Qui viene utile lavorare con altra gente, così fate a turno a essere l’unico secondo cui è una cazzata, no, sicuramente c’è un errore, ma no, ci ho ripensato, secondo me funziona.
  11. Sì, c’era un controesempio. Tiri un vaffanculo.
  12. Cancelli tutto dalla lavagna. Se stavi scrivendo sul retro della lista della spesa dell’Ikea di solito finisce che la fai a pezzi e la butti nel cestino prima di renderti conto di quello che hai appena fatto.
  13. Imprechi contro il giorno in cui hai deciso di fare matematica. E pure contro tuo marito che non è ancora andato all’Ikea, che aspetta, la fatina buona di stocazzo?
  14. Ti fai una tazza di tè. Ingolli l’ultima fetta della torta di compleanno dell’Head of Department.
  15. Pensi che adesso gliela fai vedere, a quello lì. “Quello lì” può comprendere: il teorema, l’autore del teorema, il tuo relatore che stai evitando da tre settimane, il collega che si dimentica delle donne negli inviti alle feste di dipartimento, la fidanzata che ti ha mollato e si è pure presa il gatto.
  16. Pensi che potresti usare una certa tecnica che ti è sempre stata simpatica. (Sì, di nuovo: ci stanno simpatiche le cose. Molto logico. Ad esempio, dovete imbavagliarmi se non volete sentire le parole “magari si può provare per induzione”.)
  17. Guardi intensamente la lavagna.
  18. Passa un collega. Gli chiedi se si ricorda un teorema che potrebbe essere utile.
  19. NOPE.
  20. Guardi intensamente la lavagna.
  21. No, ‘spetta, fino a questo punto regge…
  22. …passano settimane, mesi…
  23. A un certo punto, per una combinazione di allenamento e fortuna sfacciata, hai ricostruito una serie di passaggi tra la tua tesi e la tua ipotesi. Oppure hai un esempio che mostra che no, avevi pensato una cazzata — e pure quello è un risultato.
  24. Ripeti tutto il processo per un nuovo teorema.
Pensavate che questo la stia tirando in lungo?

Astratto e alato, non proprio. Più farsi un culo a capanna.

Un culo per cui servono pratica, interazione sociale, una certa dose di spavalderia (peggio di quella che serve a scrivere una parola così salgariana, spavalderia, nel 2016). Servono tempo, risorse, aiuto e sicurezza.

Insomma: serve un bel po’ di privilegio. Concreto.

E ora, una favola.

La signorina Sophie, l’expat e il Principe

Immaginate di essere nata in una famiglia benestante, ad esempio. Aiuta.

Magari la vostra casa ha una grande biblioteca, e un giorno, da bambina, state giocando e vi capita in mano un librone con il teorema di Archimede.

Io me la immagino un po’ con questa faccia.

Magari i vostri genitori non sono proprio contenti che vi prenda l’ossessione per una materia poco femminile; ma se avete abbastanza candele da nascondere per studiare di notte potrebbero anche cedere davanti alla vostra tenacia.

Magari, intanto, ha aperto una nuova università strafiga. Non potete andarci, perché siete donne, ma riuscite a contattare uno studente (maschio) fancazzista che vi fa da prestanome.

Magari all’università c’è un professore intelligente che nota come Monsieur Antoine-Auguste LeBlanc è passato improvvisamente dal 18 scarso al 30 e lode, si fa qualche domanda, e vi becca. Il professore potrebbe decidere di darvi lezioni private e lavorare con voi.

Io mi faccio una fanfic per cui al professore stanno simpatici quelli che stanno ai margini perché anche lui è uno da fuori, è un expat. Ma questa sono io. Ma insomma, c’è questo professore che vi aiuta. Si chiama Joseph-Louis Lagrange, nato Giuseppe Ludovico Lagrangia (è cuneese, di tutti i posti al mondo), ed è uno di quelli che se fai matematica non puoi che amarlo.

Con quella faccia un po’ così.

Con un alleato come Lagrange fate matematica un po’ più tranquille. Magari siete la prima a trovare un numero infinito di casi per cui vale un teorema su cui la gente si sta scornando da qualche secolo. Iniziano a conoscervi in giro — beh, con il nome di LeBlanc, meglio non creare scandalo.

Magari intanto c’è una guerra, e l’esercito della vostra nazione occupa la città dove vive il più grande matematico di tutti i tempi: Carl Friedrich Gauss, princeps mathematicorum. Vi ricordate di quella storia di Archimede che viene ucciso dai soldati romani per sbaglio; Archimede, il vostro primo amore.

Il migliore è anche puccissimo.

Magari scrivete a un generale che è amico di famiglia, gli dite che Gauss è un genio da trattare con tutti i riguardi. L’amico generale va dal professor Gauss e gli dice che M.lle Sophie Germain manda i suoi saluti.

Gauss non ha idea di chi cazzo sia Mademoiselle Sophie Germain. Poi fa due conti e capisce che Monsieur Antoine-Auguste LeBlanc è solo un nome. Un nome in calce a delle lettere che gli piacevano molto.

In matematica, questo gioco si chiama “cambio di notazione”; un tizio inglese aveva sintetizzato la faccenda come “a rose by any other name would smell as sweet”.

Monsieur Antoine-Auguste LeBlanc. A meno di cambi di notazione.

È il 1807 e Carl Friedrich Gauss, il più grande dei matematici, scrive alla sua collega Sophie Germain:

Le incantevoli bellezze della nostra scienza sublime si rivelano in tutta la loro bellezza solo a coloro che hanno il coraggio di studiarle in profondità. Quando una persona appartiene al sesso che per colpa dei nostri costumi e pregiudizi si trova ad affrontare infiniti più ostacoli e difficoltà di un uomo, ma ciononostante supera questi ostacoli e riesce a comprendere in profondità le più oscure parti di questi spinosi problemi astratti, deve senza dubbio avere il coraggio più nobile, il talento più straordinario, una genialità superiore.

Tradotto in italiano di duecento anni dopo (a meno di quattordici mesi di approssimazione): non è che le donne sono meno portate per l’astrazione, è che c’è un sessismo sistemico del cazzo per cui riescono a farcela solo quelle geniali.

Quelle geniali, privilegiate e con degli alleati.

Senza gente che va in giro a sparare cazzate che sembrano un “teorema” (le donne sono naturalmente poco portate per la Matematica), ma dimenticandosi di controllare l’ipotesi (date le condizioni sociali e culturali degli ultimi centocinquant’anni) e la tesi (meno donne hanno fatto matematica degli uomini), e dando come “dimostrazione” un po’ di esempi. Ma spacciare un elenco di esempi come una dimostrazione è il contrario dell’astrazione a un meccanismo generale che rende la matematica potente.

E qui, di nuovo, una storia.

Ada e il ricamo generale dei fiori

Non è che nel 1800-qualcosa non ci fossero macchine del tipo “giri una manovella, fanno una cosa”.

Secoli di pace e amore fraterno.

Ma, appunto: ogni macchina faceva una sola cosa.

E qui arriviamo a Lady Augusta Ada King-Noel, Contessa di Lovelace, nata Ada Byron, nota come Ada Lovelace.

(A margine: più del 20% del pezzo sul padre che faceva gran sesso a destra e a manca, e poi si dice che sono le femmine a essere pettegole.)

Ada Lovelace non ha inventato la programmazione perché ha fatto una macchina che faceva i conti. La macchina, peraltro, non è mai stata costruita, perché l’ingegnere che se ne occupava aveva un carattere di merda e ha litigato con tutti.

Questo è un gran bel libro che dovreste leggere.

Ada Lovelace ha teorizzato una macchina in cui:

  1. metti dei dati e una domanda,
  2. ottieni una risposta alla domanda.

Qualunque dato, qualunque domanda.

Ha anche aggiunto una noterella sul problema che una macchina possa pensare qualcosa di originale (chiamiamola intelligenza artificiale). Ada Lovelace pensava fosse impossibile, considerando i limiti della faccenda (perché un matematico considera sempre i limiti, le ipotesi): sono gli umani a creare la macchina (chiamiamola computer) e a porre la domanda con i dati (chiamiamolo input), non è che la macchina sputi fuori qualcosa a caso (chiamiamolo output). Sono passati centocinquanta anni e ci stiamo ancora pensando, a ‘sta cosa.

Ada Lovelace usava una metafora per descrivere il suo lavoro.

The Analytical Engine weaves algebraic patterns, just as the Jacquard loom weaves flowers and leaves.

Tradotto:

La Macchina Analitica intesse motivi algebrici come il telaio di Jacquard intesse fiori e foglie.

Una metafora concreta, persino all’ultima moda.

Una metafora decisamente femminile, con tutti quei fiorellini ricamati.

Una metafora di un’astrazione micidiale.

Tutti quei fiorellini.

Altre storie che avrei potuto citare, al volo: David Hilbert (ha progettato di dare fondamenta logiche senza contraddizioni a tutta la matematica, oltre a un botto di altre cose) che manda affanculo i colleghi che negano la cattedra a Emmy Noether (l’algebra astratta che vi serve per la meccanica quantistica, oltre a un botto di altre cose) con “questo è un Senato accademico, signori, non un bagno turco”; la contrammiraglio Grace Hopper (fondamenta di come funzionano la maggior parte dei linguaggi di programmazione moderni); Rosalind Franklin (vede la doppia elica del DNA, Watson e Crick le rubano il risultato e manco distruggono le lettere in cui dicono di farlo); Lise Meitner (scopre la fissione insieme a Otto Hahn, il Nobel va solo a lui); Sofia Kovalevskaja (ha avuto una vita fuori di zucca, con un matrimonio tipo Casa di bambola ma dopo il finale, ha scritto romanzi e pièce teatrali, ed era pure amica di Henrik Ibsen); Maria Gaetana Agnesi (è stata anche una teologa e, incidentalmente, il primo direttore della Baggina).

Ah, sì: se vi chiedete che significa il titolo di questo pezzo. La topologia è una versione estremamente “astratta” di geometria, in cui (ad esempio e con una certa dose di approssimazione) una tazza con un manico e una ciambella sono la stessa cosa — sono un aggeggio in tre dimensioni con un buco in tre dimensioni (potete pensare anche alla menta intorno al buco della Polo). Il genere è una proprietà legata al numero di “buchi”. Pensate a un’espressione inglese che descrive una minaccia per nulla fine. Fate voi.

Marta Maria Casetti fa la casalinga a Londra e cerca di scrivere.

Si è laureata in matematica a Pavia con una tesi su Stabilità evolutiva e stabilità strategica degli equilibri di Nash; ha poi studiato alla London School of Economics and Political Science, conseguendo un Master of Science con una tesi su PPAD Completeness of Equilibrium Computation, in cui corregge un caso limite nella dimostrazione di Daskalakis, Goldberg e Papadimitriou (2005), e un Master of Philosophy con una tesi su Complexity of the Gale String Problem for Equilibrium Computation in Games, che estende il risultato già pubblicato con Merschen e von Stengel in Finding Gale Strings (2010). Ha studiato programmazione in Java e Python in un programma di mentoring a Google e ha contribuito al progetto GNOME. Ha presentato il suo lavoro all’International Workshop on Game Theory, PyCon 2013 e 2014. Il suo numero di Erdȍs è 3.

Fondamentalmente, ne so qualcosa.

Le piace molto cucinare, trova che preparare il brodo sia rilassante, con tutte quelle verdure da fare pezzi con un grosso coltellaccio.

Ha un sito che si chiama planning a dinner, in cui ci sono delle risorse che dovrebbero piacervi se avete trovato questo pezzo interessante.

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Charles M Casetti

Melodramatic Milanese Londoner. Word peddler for fun & profit. // Londinese di Milano con tendenza al melodramma. Spaccio parole per lucro & diletto. (they/lui)