L’incredibile viaggio di Gunther Holtorf
900mila km, una sola auto, tre mogli, 26 anni in giro per il mondo
Ora il viaggio è finito, Gunther è entrato nel libro dei record; ci presenterà la sua mitica vettura e ci parlerà del suo viaggio in un evento in esclusiva per la prima volta in Italia: il 28 Maggio, ore 20.30, al Museo Nazionale dell’automobile di Torino (ingresso libero fino ad esaurimento posti)
Una vita da ricordare, forse, non è altro che una vita in cui lasciamo un ricordo di noi, tracce della nostra fugace esperienza terrena nei luoghi che abbiamo visitato e nelle persone che abbiamo incontrato. E se è vero che, come diceva Sant’Agostino, il mondo è un libro e chi non viaggia ne conosce solo una pagina, allora sono pochi, nella storia dell’uomo, ad aver indagato il nostro pianeta, la nostra civiltà e la nostra stessa esistenza più di Gunther Holtorf, che le sue tracce (anche letteralmente) le ha lasciate in 215 paesi, percorrendo quasi 900 mila chilometriin 26 anni di viaggio. È il 1988 e il muro di Berlino è ancora in piedi quando il 51enne Holtorf, manager della Lufthansa, decide di mollare tutto: prima il lavoro e poi la propria routine sul pittoresco Chiemsee, il lago più grande della Baviera, per partire alla volta di un lungo viaggio. Un lavoro a tempo indeterminato alle spalle, un viaggio a tempo indeterminato dinanzi a sé. Deciderà poi, 100mila chilometri e qualche episodio di malaria più tardi, di mollare anche la moglie Beate (in realtà già la terza) e cercarne un’altra che affianchi lui e Otto nell’avventura. Già, Otto, nome “d’arte” della Mercedes 300GD del 1988 che in questi 26 anni non ha mai abbandonato Gunther, sua unica compagna di viaggio dall’inizio alla fine, pur se con qualche messa a punto, tanti rischi e qualche incidente di percorso. “In realtà non lasciai proprio tutto”, ci racconta Gunther. “Al di fuori del mio primo lavoro, in Indonesia avevo lavorato per anni alla mappa della capitale Jakarta. La mia era l’unica mappa in tutta l’Indonesia, persino le autorità cittadine la utilizzarono come base. Diverse volte abbiamo lasciato Otto parcheggiato per due-tre mesi e siamo volati a Jakarta per sviluppare ulteriormente la mappa della città, che oggi ha 30 milioni di abitanti”.
Un’Odissea volontaria e (relativamente) spensierata affrontata a stretto contatto con la natura. E con Otto, ovviamente, che non veniva abbandonato nemmeno per un pranzo in ristorante, men che meno per concedersi il pleonastico lusso di una notte in un letto d’hotel.“Non avremmo potuto pernottare in un hotel rischiando di ritrovarci Otto senza una ruota o chissà quali altre parti. E per lo stesso motivo ci siamo sempre cucinati i nostri pasti, con il grande vantaggio è che non abbiamo mai avuto problemi di digestione. Mangiavamo di tutto: frutta, verdura, carne, spesso pesce e anche molta pasta. Ma sempre con ingredienti locali, mai con scatolette portate dall’Europa. Il nostro cibo preferito? Siamo sempre stati innamorati della carne sudamericana, il miglior manzo che esista”. Ma per Gunther dare una tale priorità all’”incolumità” del proprio mezzo non è mai stato un peso, quanto piuttosto una forma di libertà, nella flessibile routine di ogni giorno: “Di solito ci alzavamo presto, con la prima luce del giorno, facevamo una buona colazione, sistemavamo Otto per la partenza e ci preparavamo con estrema calma, programmando la tappa successiva. In realtà trovavamo sempre qualcosa di più importante o interessante lungo la strada, e ogni giorno finivamo per cambiare i programmi in corsa. Non c’era nessun hotel da raggiungere o volo aereo da prendere, eravamo completamente liberi”.
iberi, ad esempio, di percorrere territori sconosciuti ai radar dei turisti occidentali, e ritrovarsi a tu per tu con gli animali africani, la loro grande passione. “Non nei parchi nazionali, ma nell’Africa più vera, che esiste ancora da qualche parte”. Incontri ravvicinati che, occasionalmente, lo sono stati anche troppo, come quella volta nello Zimbabwe: “Stavo dormendo nell’amaca, e a un certo punto mi svegliai di soprassalto. Scostai un lato dell’amaca e mi ritrovai a guardare dritta negli occhi una iena maculata. La iena rimase pietrificata, io anche, ma fece un verso simile a quello di un cane e fortunatamente scappò”. Per non palare di quella volta in cui in Etiopia, al confine con Somalia e Gibuti, Gunther si vide puntare addosso un kalashnikov, riuscendo a cavarsela dopo due ore di discussione e qualche banconota allungata ai sedicenti soldati. O di quella volta, appena sei mesi fa, in cui Otto ha rischiato di finire in fondo a una scarpata in Madagascar, salvato da un albero abbastanza resistente da evitare che l’auto rotolasse a valle con Gunther al suo interno.
I momenti di paura, però, quelli in cui Herr Holtorf ha visto la morte in faccia, si contano sulle dita di una mano in 26 anni di onorato “servizio” in giro per il globo. Molti di più sono quelli indimenticabili vissuti da lui e Christine: “Il più indimenticabile? È una domanda difficile, perché ci sono stati molti momenti unici. Me ne ricordo però uno in particolare: ci trovavamo nel Sahara, da soli in mezzo alla natura, nel silenzio del deserto. Accesi il mangiacassette dell’auto e ascoltammo a tutto volume una sonata per pianoforte di Beethoven, sotto il cielo stellato dell’Africa. Fu un’esperienza splendida”. Un ricordo da cui traspare una punta di nostalgia, quasi tristezza, forse perché al suo fianco c’era ancora Christine, portatagli via da un male incurabile nel giugno 2010. L’infausta diagnosi era arrivata nel 2003, ma lei aveva continuato a viaggiare finché le era stato possibile, accompagnando Gunther nel Regno Unito (il 149° paese toccato dal tour) nel maggio 2009. Nel 2010, poi, abbandonata ormai ogni speranza, i due avevano deciso di coronare il proprio ventennale amore con il matrimonio, celebrato due settimane prima dell’ultimo viaggio di Christine, stavolta purtroppo senza ritorno. “Per me è stato difficile, perché per 25 anni abbiamo vissuto insieme come gemelli siamesi con Otto, dentro a Otto e attorno a Otto. Ed è sempre tutto filato liscio tra noi. Dopo la sua morte ho viaggiato con Martin (figlio di Christine, adottato da Gunther, ndr), ma ovviamente non era la stessa cosa. Senza Christine mi sono sentito solo, abbandonato. È venuto a mancare il 50% della mia vita”.
Otto, se non altro, non l’hai mai abbandonato, sempre pronto a ripartire dopo le dovute operazioni di manutenzione. Una longevità forse irripetibile: “Oggi le auto hanno molta elettronica, sono computer su quattro ruote. Un viaggio del genere è possibile solamente con un’auto con molte componenti meccaniche e, in quanto tali, riparabili”, specifica Gunther, che individua anche un altro requisito fondamentale: “Naturalmente conoscere le lingue è un vantaggio poiché facilita la comunicazione, ma il prerequisito caratteriale più prezioso è la pazienza, e in seconda battuta ancora la pazienza. Nel mondo ci si trova davanti a situazioni molto diverse da quelle a cui siamo abituati e non ci si può innervosire, bisogna saper aspettare”. C’è stato, tuttavia, un momento in cui Gunther ha dovuto separarsi dal suo amato compagno di viaggio blu, circa un mese fa, in occasione del trionfale rientro attraverso la Porta di Brandeburgo, a Berlino. “La sera prima stavo tornando dall’ultima tappa, la Bielorussia, e mi sono fermato a Breslau, in Polonia. Ero consapevole che sarebbe stata l’ultima notte all’interno di Otto, e la mattina dopo avrei fatto l’ultima colazione con il mio müsli a fianco di Otto. È stato triste”.
Dopotutto ogni cosa ha un principio e una fine, l’importante è arrivare al termine della corsa senza rimpianti. E Gunther, di rimpianti, non ne ha: “Rifarei tutto ciò che ho fatto, dalla prima all’ultima cosa. Col senno di poi, forse, avrei trascorso più tempo con gli animali africani, o in Sudamerica, ma in generale rifarei tutto quello che ho fatto e — quel che più conta — lo rifarei con la stessa auto. Abbiamo potuto fare ciò che abbiamo fatto perché la Mercedes 300GD ce lo ha permesso”. Una risolutezza che viene da lontano. Da quando, ancora giovane, Gunther amava già ampliare i suoi orizzonti in ogni modo possibile: “Ho sempre avuto mille idee in testa, da sviluppare parallelamente al mio primo lavoro. A Hong Kong, dove ho vissuto per sette anni, ho lavorato per tre anni al più grande libro esistente sulla città, che ho poi pubblicato. Praticavo anche molto sport, e andavo sempre in vacanza in luoghi lontani”. E benché non si possa dire che il giro del mondo fosse nei suoi piani fin dall’inizio, ben prima del viaggio durato un quarto di secolo Gunther già ammiccava all’idea di un’avventura inusuale: “Quando vivevo ad Hong Kong, negli anni ‘70, ripetevo sempre ai miei amici: «Un giorno verrò a Hong Kong con la mia auto». Allora era un’idea folle, perché Hong Kong era una colonia inglese e la Cina era totalmente inaccessibile, ma quando con l’aereo sorvolavo l’Asia, guardando dalla cabina di pilotaggio, dicevo a me stesso: «Un giorno percorrerò quelle strade con la mia auto». L’idea di attraversare con la mia auto territori che di norma non era possibile attraversare con il proprio mezzo mi frullava in mente da tempo”. Ma come in molte cose della vita, anche per imprese simili le barriere più grandi sono spesso quelle della mente, la paura dell’ignoto e la riluttanza ad abbandonare le proprie sicurezze e comodità. Tutti ostacoli superabili con il giusto spirito: “La vita è una catena di opportunità mancate, e bisogna fare in modo che quella catena sia la più breve possibile. Non limitatevi a sognare, fate”.
Nota: Le immagini presenti in questa pagina ci sono state gentilmente concesse dal settimanale tedesco “Stern”, che ha dedicato al viaggio di Gunther e Otto lo splendido sito interattivo: www.ottosreise.de. Questo articolo è il frutto di un’intervista esclusiva http://www.melty.it/l-incredibile-storia-di-gunther-holtorf-il-piu-grande-viaggiatore-del-nostro-tempo-a137335.html a Gunther Holtorf. Tuttavia, alcuni elementi sono tratti da interviste precedenti, in particolare un’infografica della BBC.
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