Quando inizia il viaggio: In moto fino all’impero di Gengis Khan
“Quando ci si smarrisce, i progetti lasciano il posto alle sorprese, ed è allora che il viaggio comincia: Una Moto Guzzi, più di 20 mila chilometri, 9 Stati e 7 fusi orari, in 31 giorni
U n viaggio lungo e scomodo: una tenda ultra leggera, un fornelletto a benzina e alcune buste di minestra liofilizzata sono tutto ciò che è servito a Gianni Reinaudo e alla moglie Gisella (alias Gengis Ride) per un viaggio di 20.500km in soli 31 giorni (attraverso 9 Stati e 7 fusi orari). Sono partiti da Mandello del Lario per arrivare a Ulan Bator e ritorno. Sono passati attraverso la Bielorussia, Russia e Siberia fino ad entrare in Mongolia dal Lago Baikal. Una Moto Guzzi (Stelvio 1200 NTX) e solo 300 km di strade asfaltate.
Ecco il racconto di questo viaggio straordinario:
T i prego, non andare giù, aspetta. Il sole inesorabilmente tramonta alle nostre spalle, la luce del giorno gradatamente si affievolisce e le nostre pupille iniziano a dilatarsi al fine di permettere ai nostri occhi di adeguarsi al buio che inizia ad avvolgerci. La strada deserta che dinnanzi a noi pare non finire, si stringe all’orizzonte senza mai dare un tangibile segno di vita. La Siberia, cuore estremo di una Russia sconfinata, sembra che di colpo ci sia nemica. La nostra moto, anima meccanica e cuore rumoroso in quella notte di inizio Agosto 2011, ci spinge a proseguire, cercare, mai mollare.
Dagli specchietti retrovisori scorgo delle luci di auto che in lontananza, a grande velocità si avvicinano. Ci raggiungono, ci sorpassano, e mentre questo accade, dall’ abitacolo della prima delle due auto, un uomo, con dentatura d’oro, si avvicina al finestrino, mi guarda con occhi di ghiaccio, mostra qualcosa che vorrei non si fosse trattato di una pistola ma credo, purtroppo, di poter dire che di quello si trattasse. L’auto sterza verso destra, quasi ci urta con il rischio di farci finire nel fossato. Io freno bruscamente, l’auto ci precede ma anch’essa frena e si fa raggiungere. Accelero, li supero e cerco di distanziarli, ma loro sono veloci e ci raggiungono nuovamente. Attendo che mi siano di fianco, freno nuovamente e mi fermo. Attendiamo qualche minuto, l’auto scompare nel buio della notte siberiana. Ripartiamo con il cuore in gola, percorro alcune centinaia di metri sino a quando scorgo una stradina sterrata che scende verso destra sino ad una casetta in legno del distributore di carburante. Mi ci infilo, aggiro la casetta in modo tale da renderla come scudo visivo verso la strada.
Parcheggio la moto, spengo il motore e nel silenzio immacolato di un luogo terreno distante mille pensieri da casa, Gisella ed io rimaniamo in silenzio. Da est vediamo delle luci sulla strada, l’auto di prima sta tornando indietro. Si muove lentamente, forse ci sta cercando. Noi ci nascondiamo dietro la casetta in legno, vorrei parlare al cuore e dirgli di pulsare meno rumorosamente, vorrei dire al mio fiato di rallentare perché, causa la bassa temperatura della notte, potrebbero vedere il “fumo” del mio respiro. L’auto silenziosamente e lentamente passa e noi, mano nella mano, stretti come due bambini che giocano a nascondino, ci guardiamo. Con una smorfia che è un misto fra paura e soddisfazione, riusciamo a trovare il tempo, la forza ed il desiderio di darci un bacio, stringerci forte e sorridere.
Il viaggio, il nostro viaggio……..inizia ora.
Partiti giorni prima dall’Italia, Gisella ed io, soli, consapevolmente consci delle difficoltà ma altrettanto motivati a trasformarle in grandi ed indelebili ricordi, puntiamo verso Est, sino alla capitale Mongola di Ulaanbaatar, dove allora, e solo allora ruoteremo la nostra moto verso Ovest nel cercare di ritornare a casa. Parti con una sola certezza, quella di andare per cercare ciò che rende il mondo potenzialmente un immenso gruppo di sette miliardi di amici, parti per cercare e prima ancora donare…un sorriso.
Prima della partenza, sapendo che non saremmo riusciti a percorrere tutto il viaggio con un solo treno di gomme, spedimmo un pacco all’aeroporto di Ulaanbaatar. Il pacco, similare ad un pacco esplosivo, di forma circolare, conteneva due pneumatici nuovi ed alcuni barattoli di olio motore incastonati all’interno. Il tutto racchiuso dentro a centinaia di metri di nastro adesivo per pacchi, avvolto con cura meticolosa durante una afosa serata di fine Luglio nel nostro garage.
Avvolti dalla polvere delle strade della capitale che, per chi non sia mai stato in Mongolia, non cerco neppure di descrivere in quanto per essere credibile dovrei necessariamente definire infernali mentre forse l’aggettivo giusto non esiste, arriviamo nei pressi dell’ostello che avevamo identificato per le due notti successive. La stanza è minimalista, due brande in legno con materassi i quali, forse, avrebbero più storie loro da raccontare che non il sottoscritto, ci danno il benvenuto. A noi pare una reggia in confronto alla notte passata nascosti dietro la casupola di legno in Siberia giusto due giorni prima e, con il senno di poi, alle notti passate sotto il cielo della Mongolia.
Dopo poche ore, la moto è pronta. Gomme tassellate nuove per poter affrontare i quasi 2000 km di piste sterrate della Mongolia, olio nuovo, freni nuovi e soprattutto un nostro nuovo, profondo e sconfinato sorriso.
Il mattino successivo piove e le strade di Ulaanbaatar sono un intreccio di fango. È presto, sono circa le 6 e noi non vogliamo mancare ad un appuntamento.
Ciò che diede origine a questo viaggio fu la storia di un uomo.
Un uomo crudele, spietato, ma nel suo contempo valoroso e coraggioso. Riuscì a riunire tutte le tribù dell’estremo Est conquistando aree geografiche immense, uccidendo gli uomini e stuprando le donne. Pare, che in piccole percentuali, anche noi e quindi forse anche io, potremmo discendere ancora da Gengis Khan. Non si sa dove sia nato quest’uomo, ma si conosce dove sia morto. Oggi in quel luogo vi è un monumento enorme, enorme come la fama di costui, enorme come la voglia di conoscere di Gisella ed io. Ci recammo la, ad Est della capitale nonostante la direzione giusta per tornare a casa fosse l’ovest.
Riattraversiamo Ulaanbaatar e puntiamo verso Ovest.
Le strade, o forse meglio dire, le piste che attraversano la Mongolia in direzione orizzontale sono tre. La più a Sud è posta poco sopra il deserto del Gobi, la seconda percorre la Mongolia nella parte mediana, mentre la terza è posta nell’area Nord. Noi decidiamo di muoversi in orizzontale partendo da Sud così anche per far visita ad una missione che si trova a Kharkhorin.
Ed è in questo luogo che possiamo, per la prima volta, vivere, sentire, respirare ed immaginare l’essenza di un vivere così tanto fortemente diverso dal nostro consueto quotidiano da sconvolgere i nostri pensieri.
Se lo sguardo di Gengis Khan mi aveva caricato di coraggio, quegli sguardi, sicuramente meno intrepidi mi donavano la coscienza di essere, ancora una volta nella mia vita, in un luogo dove basta un sorriso per aprire il cuore, una stretta di mano per sentirsi fratelli e dove non importa come siano i miei occhi, quale sia il colore della mia pelle, cosa io indossi, se il mio viso sia pulito o sporco…
l’unica cosa che importa è voler essere parte di un mondo e non il centro di esso.
Proseguiamo…Arrestiamo la moto avendo cura di allontanarci dalla “strada”. Montiamo la nostra tenda, ci cuciniamo quel poco che è stato acquistato presso la capitale e riposto nelle borse laterali della moto.
Il buio della notte e la temperatura sotto lo zero della sera, ci aiutano a stringerci in un abbraccio non solo fisico. Per la prima volta nella nostra vita possiamo vedere il vero buio, il vero silenzio, la vera solitudine ed in qualche misura la vera paura.
la paura di noi stessi, quel senso di non farcela, quella pesantissima coltre di angoscia che ti prende quando il ricordo dello sguardo di Gengis Khan si affievolisce, quando il saluto dei missionari pare lontano. È in quel momento che chiudendo gli occhi, inspirando profondamente con le narici, senti l’aria gelida entrare nella tenda, sfiorare il tuo volto, penetrarti le narici sino a farti sentire che sei vivo, e da lì, darti la forza per aprire ancora una volta la cerniera della tenda, guardare fuori e sorridere al sole che, per l’ennesima volta ha vinto sulla notte, quindi…
ripartire.
Dirigendoci verso Ovest ma risalendo verso Nord, le piste si fanno più difficili, la direzione da seguire non è quel qualcosa al quale noi siamo abituati. Non esiste una mappa, non esistono indicazioni stradali.
Esiste il sole, la bussola ed esistono loro, i Mongoli.
Giunti in cima ad una collina scorgo in lontananza un uomo, all’apparenza vecchio, ma il suo viso scavato dalle fatiche e dal sole potrebbero anche nascondere una persona della mia età.
Lui è a cavallo, io in moto. Lui vestito con enormi pantaloni di pelle ed un drappo sulle spalle, io ricoperto di tecnologici indumenti da motociclista. Lui con in testa un cappello in feltro, io con un casco dotato di interfono bluetooth.
Fermo la moto, lui si avvicina al trotto. Scendo dalla moto mentre anch’esso, sollevando la gamba destra e, mantenendo il destriero saldo attraverso la briglia, scende da cavallo. Ci avviciniamo l’un l’altro mantenendo gli sguardi fissi ognuno sugli occhi dell’altro. Lui osserva me come io osservo lui. Mi sfilo il guanto che mi protegge la mano destra e gliela porgo. Lui, guarda la mano, solleva nuovamente gli occhi cercando i miei, e lentamente mi porge la sua. Ad un tratto, come un fulmine che squarcia il cielo, la bocca dell’uomo si muove e le labbra si aprono liberando quello che è l’unico, vero, sincero modo di dire ciao…
mi sorride.
Ci spostavamo verso Nord-Ovest, alla ricerca di una pista che ci avrebbe ricondotti in Russia, nella regione degli Altai, attraverso la frontiera Mongola posta a 2800 metri sul livello del mare. Questa pista riemerge dalla sponda posta a Nord di un fiume impetuoso che in alcuni periodi dell’anno inonda completamente la valle. Non sapevamo come fossero le condizioni della valle in quei giorni di fine Agosto, avrei voluto chiederlo al mio amico Mongolo a cavallo, ma credo che non sarei riuscito a ottenere informazioni utili, per tanto decidemmo di provarci.
Giunti al fiume, spensi la moto e ci sedemmo sulla riva ad osservare ed ascoltare. La corrente faceva paura solo nell’ascoltarne il rumore. Ad un tratto, dal nulla compaiono due ragazzi. Li vedo arrivare, loro ci osservano ed io, intimorito dal fiume mi avvicino a loro. Inchino il capo in segno di saluto, allungo la mano destra e attendo. Il loro sorriso non si fa attendere e a turno mi stringono la mano. Nella mano sinistra ho un sigaro e noto come loro lo fissino. Ne offro uno a loro, i quali accettano di buon grado ma al posto di fumarlo lo ripongono con cura nelle tasche dei loro sudici pantaloni. Indico loro il fiume e cerco, in Inglese di interrogarli su dove vi sia un ponte per poterlo attraversare. Loro mi guardano e non comprendono, ma di questo sia chiaro, non faccio loro una colpa, bensì sono io in difetto a non conoscere il Mongolo.
Mi inchino quindi sul terreno sabbioso, scavo un fossato con la mano, prendo un bastoncino e piantandone una estremità a destra e l’altra estremità a sinistra del fosso ne ricostruisco un ponte. A quel punto loro comprendono e sorridendo…….scuotono il capo…..non esiste ponte !
Guardo Gisella che con occhi grandi come il mondo comprende le mie paure e se le fa sue. Mi passo la mano sul volto, cercando nei meandri della barba incolta e sudicia come i pantaloni dei due ragazzi, la forza di andare avanti. Decido di rimuovere i bagagli dalla moto al fine di alleggerirla ed, a piedi con l’aiuto di Gisella, attraverso il torrente sino all’altra sponda. Ritorno indietro, e cercando la forza in ogni mio anfratto, risalgo sulla moto, ripenso agli occhi di Gengis Khan, al sorriso del Mongolo a cavallo, ai monaci ed ai missionari e parto. Indirizzo la ruota verso l’acqua, la moto scivola sulla sponda ripida del torrente, la corrente spinge forte cercando di spazzare via me, la mia moto ed il sogno di farcela. Ad un tratto sento la moto che si solleva dal posteriore, mi giro di scatto e due angeli sorridenti sono corsi in mio aiuto.
I due ragazzi sono li, mi supportano, mi incitano, mi spingono.
Io urlo loro in Piemontese che ce la possiamo fare, non mollo, accelero, stringo le mani sul manubrio ed alla fine…..il torrente è alle mie spalle, la pista per gli Altai è di fronte ai nostri occhi e la nostra Mongolia ormai è alle nostre spalle.
20500 chilometri, 31 giorni, tanto è durato il nostro viaggio.
Un viaggio di due persone, due anime, che magari prima della partenza possono anche immaginare di andare incontro a delle difficoltà, ma nel contempo sanno anche che nulla, proprio nulla, potrà essere superato se non prima affrontato.
In quei luoghi, su quegli altopiani, dove l’inverno cerca di annientare tutto, dove pare che il nulla prevalga sul mondo, dove il silenzio fa talmente rumore da non far dormire e la notte è di un buio del quale non conoscevo il nero, laggiù dove proprio ora il mio amico Mongolo a cavallo sarà seduto a fianco del suo destriero guardando il cielo alla ricerca di un ricordo, esattamente su quel cielo, troverà la risposta alle sue domande, leggerà senza saper leggere, viaggerà senza aver viaggiato e forse si ricorderà di una donna ed un uomo, venuti da chissà dove, ripartiti sul loro cavallo rombante vestiti come marziani.
Di loro non ricorderà un numero di telefono, non ricorderà neppure un indirizzo mail, tantomeno il loro nome…solo un unico, indimenticabile ed indelebile…
sorriso !
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