Su LinkedIn (e ovunque) c’è poco spazio per il fallimento

Roberta
5 min readFeb 2, 2023

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Quando entro su LinkedIn mi sento un pesce fuor d’acqua e condivido la sensazione con tante persone con le quali parlo.

Mi sento un po’ a disagio, in difetto, sembra l’invito a cena in cui ti presenti in jeans e scarpe da tennis invece dovevi venire elegante e nessuno te lo aveva detto. Sembra non ci sia spazio per il casual, per la deviazione, il fuori pista, la strada non perfettamente lineare, eppure sono certa non sia così, solo che non può emergere. Non può perché è una vetrina, come lo sono Facebook e Instagram, in cui mostriamo la nostra vita cercando di abbellirla un po’ agli occhi degli altri con un quadretto carino o la piantina grassa con le punte colorate, o anche solo spostando la polvere sotto il tappeto; su LinkedIn a maggior ragione visto che il potenziale futuro datore di lavoro *ha appena visitato il tuo profilo*.

Sono dinamiche normalissime, ma non per me. Io non riesco neanche a pubblicare sul feed che ho finito un corso, non festeggio l’anniversario dell’assunzione, e se inizio un nuovo lavoro aggiorno solo la posizione lavorativa e all’automatico “vuoi farlo sapere con un post?” No, grazie, a posto così.

Non sono mai stata brava a vendermi bene, fallimento e sconforto li ho vissuti tante volte. Dopo l’Università, finita scongiurando il “pericolo fuoricorso” (qui potrebbe aprirsi una voragine), il mio percorso non era tracciato. Devo molto a Scienze Politiche per la preparazione così globale. Così globale ma mai approfondita, per quel di tutto un po’ che non mi ha aiutato a restringere la carreggiata. Quello spettava a me e non sono stata brava a farlo subito.

Quando mi chiedevano: “e ora cosa farai?” I più simpatici si rispondevano da soli “la politica?”. Il mio imbarazzo era evidente ma poi un respiro profondo e provavo a rispondere a loro e quindi un po’ a me stessa: “Potrei lavorare per un ente locale, un Comune, o anche un GAL, qualche agenzia, in Banca, (il sogno di mio padre dopo una P.A.) oh, certo c’è anche la carriera diplomatica, potrei fare un sacco di cose”. E proprio questa varietà si è dimostrata un problema con le mie idee poco chiare. Posso fare tutto e non fare niente. E per tanti anni ho optato per non fare niente, infatti i miei primi tentativi di entrare a contatto con il mondo del lavoro non sono andati a buon fine. Volevo fare stage gratuiti pur di toccare con mano qualcosa, ma prima il Comune poi l’Agenzia delle Entrate, hanno rigettato la richiesta.

Il tempo passava, io non ne cavavo piede.

Sono sincera: non mi sono fatta in quattro. Mi sentivo immobile, apatica, non sapevo come uscirne, non volevo che mio padre mettesse una parola buona con qualcuno su qualcosa che non meritavo, ma allo stesso tempo non ero in grado di prendere l’iniziativa. Con che curriculum andavo a bussare da qualche parte? Era già tempo di neolaureati con esperienza. I Concorsi? Traumi mai superati. I parenti che neanche ti chiedono come stai, ma ti inondano la chat di link di quelli appena pubblicati come se vivessero aggiornando ogni minuto la Gazzetta Ufficiale o avessero attivato l’RSS. Ci ho provato, eh, mi sono sentita stupida come poche altre volte in vita mia. C’è un episodio dal quale si ricava la foto segnaletica, quella con il cartellino in mano, dove c’è proprio scritto stupida. Pochi anni fa mi sono iscritta a un concorso per non rovinare un viaggio di famiglia. Ho pagato le tasse di iscrizione, avevo le PEC a testimoniare tutto, avrei saputo cosa rispondere. “Ma il lavoro? Stai trovan…” “Mi sono appena iscritta a un concorso”. Tiè. Fine dei discorsi. C’era quel periodo di studio e attesa, ero leggittimata a non avere un lavoro in quel lasso di tempo, no? Ovviamente a quelle prove per amministrativo cat. D nessuno registrò il mio documento. Si arriva anche a questo.

Ho anche fatto domanda per un master (tutte cose eterodirette, non erano scelte mie, lo facevo per non deludere la mia famiglia, ma tanto era chiaro da come mi guardavano e mi parlavano che non c’ero riuscita), e dopo selezioni abbastanza lunghe non sono entrata. Quanto mi sono sentita fallita. Non solo non riuscivo con i concorsi, non riuscivo neanche a farmi prendere per i master, cioè per continuare a formarmi. Il buco nero diventava sempre più grande.

Non sono bei momenti (eufemismo), ma fanno parte dei percorsi formativi e lavorativi e tornando al tema principale, su LinkedIn sembra non esserci abbastanza spazio per queste cose. Si parla di lavoro non del buio che attraversi quando non lo hai. Ma non è un problema di questo social, non voglio demonizzarlo, è solo un riflesso della società che ci vuole realizzati, vincenti, infallibili.

Questi pensieri mi sono venuti in mente perché in questi giorni (ma in realtà praticamente sempre) sui giornali si legge dell’ennesima esaltazione di una persona giovanissima che brucia le tappe, si laurea prima del tempo, fa mille altre cose o, addirittura, discute la tesi durante i dolori del travaglio. Fa nulla poi se questo racconto, che non aggiunge nulla a un percorso universitario e anzi, opprime chi quel percorso lo sta compiendo tra mille difficoltà in maniera per nulla lineare. Chi non riesce a dare gli esami, chi mette in fila una bugia dopo l’altra fino a non reggere più e togliersi la vita, nei casi peggiori che purtroppo non sono pochi.

Lo so che può sembrare esagerato, considerando da dove sono partita, ma l’esaltazione dell’eccellenza a tutti i costi lascia indietro tutto il resto. E io a volte penso a quegli articoli dai titoli sensazionalistici, li ritrovo nei post su quel social in cui sembra che la gente abbia capito tutto della vita, del lavoro, del come eccellere e in virtù della sua posizione elargisce perle di saggezza, spiega come va vissuta e affrontata la vita, degli altri. Ah, pure motivatori? Perché non aggiungerlo al CV? “Ma vediamo come scrivere un CV vincente che non annoi i recruiter!” (Volendo, potrei parlare anche di come ci si possa sentire delle nullità con il file Curriculum.doc aperto e bianco e la barra che sembra ticchettare inesorabile a ricordarti che stai, ancora una volta, perdendo tempo).

E qui potreste anche chiedermi: “quindi, perché ci sei?

Ci sono perché me lo impone la logica social, perché non esserci equivale a non esistere, perché devo gestire una pagina aziendale e perché facendo parte del sacro ordine dei cavalieri delle partite iva (tutto minuscolo perché non c’è niente di esaltante) devo avere sempre gli occhi aperti, e quindi vengo a controllare le offerte, poi mi imbatto in qualche post che sembra di aver aperto erroneamente Facebook e chiudo, e via così.

Ci sono, ma cerco di esserci facendone un uso diverso, anche così, parlando di una storia lavorativa che ha vissuto più inoccupazione e Naspi che anni di contratto e che non sempre ha qualcosa da festeggiare.

Se volete ho anche il lieto fine, non così scontato come nelle favole, visto lo schifo, la paura e il dolore che genera tutto questo sistema. Alla fine la mia strada l’ho trovata, non mi vergogno quasi più del mio CV e non mi arrivano più i link ai concorsi pubblici dei parenti, forse pensano che mi sia sistemata con l’apertura della partiva iva, vabbè, non voglio indagare. Se non fosse stato per una testata giornalistica che si occupava di sport e di persone a me più che care che mi hanno tirato dentro quasi per gioco chissà dove sarei adesso. Magari non qui a lamentarmi di LinkedIn.

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Roberta

Anche in una società più decente di questa mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza