La pelota no se mancha: lettera d’amore e d’addio

Paolo Gervasi
6 min readJun 1, 2022

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Alla fine della sua partita di addio al calcio, il 10 novembre del 2001, Diego Armando Maradona si è rivolto direttamente al pubblico della Bombonera, il mitico stadio di Buenos Aires, che quel giorno straripava di persone in lacrime. Piangevano tutti, mentre Maradona parlava con le braccia incrociate sul petto, come a volersi proteggere.

“Il calcio è lo sport più bello e più sano del mondo… quando qualcuno sbaglia, non deve pagare il calcio. Io ho sbagliato e ho pagato. Però… la pelota no se mancha”.

Boato, e altre lacrime.

La pelota no se mancha: non era un discorso preparato, ma l’ultima delle sue giocate geniali. Un guizzo, un’illuminazione. Alla fine di tutto, la palla continua a rotolare, pulita, e Maradona è di nuovo un bambino che insegue il suo sogno. Lì, tra migliaia di persone adoranti, dopo una carriera che ha conosciuto la gloria e l’infamia, la magia e il rimpianto. Il pallone è limpido, nonostante tutto: è l’immagine di una passione che rimane pura, innocente, come all’inizio. Senza macchie, senza l’impronta di tutto ciò che nel frattempo è andato storto e ha rischiato di far perdere al bambino la gioia di correre dietro al pallone.

Maradona in quel momento è uguale a ognuno di noi. Perché questa esperienza la conosciamo, la sensazione di aver smarrito qualche volta il piacere di correre dietro al nostro pallone, l’abbiamo provata tutti. Tutti abbiamo amato qualcosa con l’intensità pura del bambino che gioca, e poi l’abbiamo vista rovinarsi, sbiadire, deluderci. Sporcarsi. Non c’entrano gli errori, le colpe individuali: è la vita che funziona così.

Sono gli umani, che inventano gesti grandiosi e poi li mandano in malora.

La pelota no se mancha è stata la prima frase che mi è venuta in mente quando ho deciso, negli ultimi mesi, che avrei cambiato lavoro, o meglio: che avrei smesso di provare a fare il lavoro per il quale mi sono formato negli ultimi vent’anni. La ricerca e l’insegnamento universitario, e poi l’editoria “di cultura”, che è la prosecuzione della ricerca con altri mezzi.

Non ho lasciato l’università, questo non è un discorso del genere “insegnavo astrofisica al MIT ma mollo tutto per fare l’apicultore nel sud della Francia”. E nemmeno il congedo vendicativo di un genio incompreso, stile Smetto quando voglio. Diciamo che dopo tante esperienze, tre Paesi diversi, qualche concorso vinto e molti concorsi persi, ho smesso di provarci. La vivo più come l’interruzione di un accanimento terapeutico.

Però insomma: è anche un pallone che rotola via, come quelli che si incastravano sotto le marmitte delle macchine. Forse ha senso provare a capire cosa succede quando il pallone ci sfugge: non per dare la colpa a qualcuno, ma per avvisare che questo particolare pallone è rimbalzato via anche perché il campo da gioco è messo davvero male, le porte non si vedono, ci sono troppe buche, c’è il catrame al posto dell’erba, e così via.

Su quel campo lì, quello dell’università e della ricerca in ambito umanistico, è raro vederci una partita decente. E non per i motivi di cui si parla di solito. Ci sono le storture del “sistema”, certo. C’è la burocrazia. Ci sono i baronati. Ci sono i concorsi che non sono semplicemente truccati, sono intossicati da una logica perversa: non devi fare carte false per assumere il cugino del cardinale o l’amante di un senatore, devi fare carte false per prendere la più brava di tutti, il tuo allievo migliore. Devi incrociare favori, chiedere permessi, sondare il terreno. Devi barare perché le cose vadano come credi sia giusto: è una cosa da matti, letteralmente.

Ci sono le combriccole, i potentati, le “scuole”, e se non sei affiliato resti fuori. C’è la promozione della mediocrità, gli stupidi che vengono premiati perché servono, in tutti i sensi. Ci sono gli eterni gregari, gli assegnisti a vita, eserciti di portaborse. C’è il narcisismo, l’ambizione personale spacciata per impegno culturale. C’è l’uso della politica come ricatto, il sentirsi sempre dalla parte giusta, senza accorgersi di essere un potere tra i poteri che si finge di combattere. Ci sono le gerarchie invisibili, le file, “devi aspettare il tuo turno”: e l’attesa te la devi poter permettere.

Se hai il problema delle bollette da pagare forse la cultura non fa per te.

Tutto questo c’è, e tantissimo altro che davvero ce ne vorrebbero una decina, di lettere d’amore e d’addio.

Tutto questo c’è, ma non è il punto. Il punto è il pallone. Il punto è che mentre siamo impegnati a diventare il tipo di essere umano che l’apparato culturale ha modellato, mentre pompiamo i muscoli, scolpiamo gli addominali, decoriamo le magliette, ci dimentichiamo cosa significa correre dietro al pallone. Calciarlo verso la porta, scambiarlo con un compagno, correre ad abbracciarsi. Ci dimentichiamo cosa significa studiare, ricercare, inseguire significati, connettere idee, provare a capire il mondo seguendo le tracce di quelli che hanno provato a capirlo prima di noi.

C’è una partita incredibile da giocare, e noi siamo chinati in disparte a scrutare le cuciture del pallone.

Soprattutto, ci dimentichiamo che esiste un mondo là fuori, che è il motivo per cui abbiamo cominciato a leggere e a scrivere. Che non si gioca da soli, ma che il pallone serve a metterci in connessione con tutto ciò che pallone non è. Che i mirabolanti giochi di bravura che facciamo nel nostro piccolo angolo di campo sono incomprensibili a chi ci guarda da fuori. Non significano niente e non servono a niente.

E ci ritroviamo come in quei pomeriggi in cui al campetto non c’era nessuno, e noi soli a sbattere il pallone contro il muro, ipnotizzati dal suono della camera d’aria che vibra nel vuoto.

Agli ultimi convegni cui ho partecipato, era come andare al campetto e trovare solo gente che non si ricorda cosa è venuta a fare. A suo modo è anche commovente: ognuno insegue una passione dimenticata, un pallone che non riesce a raggiungere. Tutti sapienti, tutti in cerca della verità, e tutti prigionieri di una disciplina. Tutti a inseguire l’ombra della scintilla che li ha animati all’inizio: sepolta sotto i gerghi, le strategie, i codici, è diventata un ricordo sbiadito, come qualcosa visto soltanto in sogno.

La verità è altrove rispetto a quello che dicono quando parlano delle loro ricerche. Comincia ad affiorare a cena, con lo svuotarsi delle bottiglie. Allora scopri che il latinista è appassionato di horror, che la filologa romanza voleva studiare i romanzi erotici, che lo storico della lingua li scrive, i romanzi erotici. Che il tizio che ha bevuto tredici amari parla di critica marxista perché ha paura di rimanere solo e non vuole andare a dormire. Che lei si occupa di gender studies perché aveva in mente una battaglia, ma la prof ha un altro approccio, e allora sai com’è. Quando la vita torna a mescolarsi alle conoscenze, l’intelligenza torna a scorrere. Vengono fuori idee belle che mettono insieme filologia e tennis, patristica e gossip, filosofia e moda. Ma non se ne accorge nessuno, tutti credono che quello sia divertimento, una pausa, una parentesi. Non si accorgono che non avranno mai idee migliori di quelle, che il momento in cui stanno facendo qualcosa con la conoscenza è quello lì. Che stanno di nuovo correndo dietro al pallone.

Ho visto il pallone rotolare lontano, l’ho inseguito e mi sono ritrovato fuori dal campetto. Non lo mollo il bagaglio di tutto quello che ho imparato di là, nel campetto degli studiosi, dove all’inizio la palla viaggiava alla grande, e si imparavano dei colpi geniali. Poi con gli anni non solo per me, ma per tanti e tante come me, il campo è diventato impraticabile: fango dappertutto, e nessuno che alzi la testa per guardare il gioco. Per capire se il gioco ha ancora senso.

Eppure, nonostante il fango, la pelota no se mancha. Leggere, scrivere, comprendere, resta la cosa più bella cui possa dedicarsi un essere umano. Si può fare ancora: inseguire una parola, giocare con i significati, mettere insieme idee come triangolazioni gioiose.
Si può fare cercando di essere compresi, trovando il modo di usare le parole per parlare delle cose, non per nasconderle dietro una nuvola di fumo. Si può ritrovare un linguaggio comune, intorno al quale tornare ad accogliere le persone, come in origine ci si raccoglieva intorno al fuoco.

È così che abbiamo costruito il mondo, noi umani, condividendo storie, ed è così che possiamo tornare a cambiarlo, possibilmente per il meglio.

Ognuno può farlo nel campo in cui la sua palla scivola meglio. Magari senza aspettare il permesso o il consenso di quelli che a forza di dettare le regole hanno ucciso il gioco.

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Paolo Gervasi

Ho passato molti anni a studiare la scrittura, le storie, l’immaginazione. Ora vorrei usare le parole per fare cose.