Sull’ «Appello per la Scuola Pubblica»

Metti assieme Jobs Act, la Buona Scuola e, sullo sfondo, il profilo umbratile di Renzi, e gli animi di certa Sinistra si surriscaldano al punto che, come una banda di Minions impazzita, tutti si precipitano sbraitando e inveendo a firmare qualsiasi cosa gli si sottoponga, che sia “contro”, naturalmente.

Pietro Alotto
La Scuola Che Non C’é
12 min readJan 5, 2018

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https://commons.wikimedia.org/wiki/File:War_Comes_To_School-_Life_at_Peckham_Central_School,_London,_England,_1943_D12190.jpg

Confesso che quando ho letto per la prima volta l’appello sulla scuola pubblica non l’ho preso molto sul serio: la solita tirata della vecchia scuola di retroguardia; il solito gruppo di frenatori istituzionali (presenti in ogni organizzazione burocratica) di qualsiasi cambiamento!

La Scuola che ri-propongono (al netto di alcune banalità “poetiche” su cui tornerò tra poco), epurata di didattica per competenze, per progetti (interdisciplinari), di nuove tecnologie, laboratoriale… è la scuola di sempre, quella che già c’era cinquant’anni fa, quando io ho iniziato le elementari, e che ho conosciuto e ricordo bene!

Poi, ho visto la marea montante di firme più o meno autorevoli che si aggiungevano via via (sembra che abbiano raggiunto la ragguardevole cifra di 5.000 firme, che naturalmente pesano di più, perchè “autorevoli”!) all’Appello, e allora mi sono dato del “cretino”: non dovevo averci capito niente!

Non era possibile che gente come Nadia Urbinati, Umberto Galimberti, Salvatore Settis, Adriano Prosperi, etc., non avessero visto il nulla travestito da niente che c’avevo visto io? Dovevo sbagliarmi io: appunto, un cretino!

Allora, accompagnato dalle migliori intenzioni possibili e dal conforto di cotante guide intellettuali, che mi rassicuravano sul fatto che dentro a quell’appello dovevano esserci delle “verità” di cui non mi ero accorto, me lo sono andato a rileggere con più calma. Ma, naturalmente, stolido come sono, non c’ho visto niente di più di quello che ci avevo visto la prima volta.

Questa casa non è un albergo!

La scuola non è un’azienda! Questo potebbe essere il riassunto della premessa dell’appello. Tutto l’appello ruota, infatti, attorno a questa assunzione di fondo: il modello de La Buona scuola è quello di una scuola-azienda che fa proprio il “modello produttivistico” e riduce l’educazione a istruzione “professionalizzante” o a “processo economicistico-tecnicistico”, qualunque cosa ciò significhi.

Dopo di che, a questo modello produttivistico viene ricondotta, in modo subdolo e surrettizio, qualsiasi forma o tentativo di “innovare” a scuola: dalla didattica per competenze, alla didattica laboratoriale, alla didattica con le nuove tecnologie ecc.

Sette spose per sette fratelli

Esistono numeri che hanno come sappiamo una fascinazione magica, uno di questi è il “7", e, infatti, “sette” sono i temi caldi attorno a cui fondare un’idea della scuola per i nostri cavalieri della scuola “pubblica” (chi è contrario alle loro posizioni, lo sappia, verrà autorevolmente ascritto al gruppo dei fautori della “scuola privata”?). Non mi soffermerò su tutt’e sette le tematiche, ma solo su quelle che mi stanno più a cuore.

Conoscenze vs Competenze

Il primo punto affronta il tema del rapporto tra “conoscenze” e “competenze”, ponendo un aut aut non fondato su alcuna evidenza, ma basato su affermazioni di principio.

Così come affermazioni di principio non suffragate da evidenze sono quelle che seguono a corredo della tesi principale che la scuola di “qualità” si basa sulla “centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline”; discipline viste come “chiave di lettura del mondo, della società e del nostro futuro”; ma è curiosa la declinazione di ciò che lo studio delle discipline ci può dare come strumenti per “una reale comprensione del presente e la trasformazione della società”: riferimenti a “storia”, “opere”, “biografie”, ed “epistemologia”. Cioè quello che già facciamo a scuola (con superbi risultati sulla formazione dei nostri studenti) da decenni!

A seguire una serie di ampollose affermazioni di principio (noi crediamo che) sull’ “organicità dell’educazione”, sulla “competenza unica e trasversale”, sul “sapere che non si acquisisce mai definitivamente”, per sostenere che non è possibile distillare un set di competenze di cittadinanza (perchè la “cittadinanza è <<operare in comune>>”, qualunque cosa ciò significhi!), e non è possibile misurare “livelli di competenza”.

Una visione olistica dell’educazione e della formazione che, chissà perché, mi ricorda tanto l’hegelismo e lo Spiritualismo di fine Ottocento. Insomma la scuola non dovrebbe avere obiettivi formativi identificabili di qualche tipo, su cui orientare la formazione, ma dovrebbe semplicemente sparare nel mucchio, tanto alla fine qualcosa prenderemo: è il fantasma del “bagaglio culturale” da fornire a chiunque, per ogni possibile futuro lavorativo e professionale, che riprende vita e vigore. E, infatti, secondo gli estensori e, suppongo, le migliaia di firmatari, non ha “senso misurare <<livelli di competenza>> degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo”.

Stabilire dove si trova uno studente in un certo ambito di competenza ( di scrittura) per esempio, è fargli una violenza, o semplicemente capire su cosa lavorare per migliorare quell’indicatore? Anche la valutazione deve essere olistica? Se Fanti non sa la matematica o non sa scrivere in Italiano è perchè non studia!

Un’ultima annotazione e passo ad altro. Il curricolo di studi disciplinare così come è stato costruito nella scuola italiana (e non solo) è figlio di una visione pedagogica ottocentesca e primo novecentesca: figlio di un’idea di persona ben formata e istruita (e quindi di una certa idea di “cittadinanza”) che era propria di un mondo che oggi non c’è più o è in dismissione, che ci piaccia o meno.

Innovazione didattica e tecnologie digitali

Innovare non è bene di per sé, tantomeno in campo educativo. La didattica “innovativa” o digitale, oggi presentata come primaria necessità della Scuola, non vanta alcuna legittimazione scientifica né acquisizione definitiva da parte della ricerca educativa. Innovazioni e tecnologie, nelle varie accezioni global-ministeriali (debate, CLIL, flipped classroom, etc), rappresentano un insieme di “riforme striscianti” che demoliscono pezzo a pezzo l’edificio della Scuola Pubblica dal suo interno. Servono piuttosto innovazioni in tutt’altra direzione, che sappiano valorizzare inoltre l’interculturalità, la creatività e l’immaginazione, il pensiero critico e quello simbolico, nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola. [Grassetto mio]

Francamente, non capisco come persone minimamente informate di didattica, con o senza nuove tecnologie, possano avere sosttoscritto delle grossolane banalità come queste. E mi stupisce ancora di più vedere fra i sottoscrittori docenti che sulla didattica innovativa e l’uso delle nuove tecnologie in classe si sono ampiamente spesi in questi anni.

“Innovare non è bene di per sé”, dicono gli estensori dell’Appello. Bene, abbiamo scoperto l’acqua calda! Si innova e si ri-nnova se e perchè si ritiene che si possa migliorare qualcosa che va così così o che non va del tutto.

Ma come si fa a sottoscrivere un’enormità come questa:

La didattica “innovativa” o digitale, oggi presentata come primaria necessità della Scuola, non vanta alcuna legittimazione scientifica né acquisizione definitiva da parte della ricerca educativa.

Che cavolo vuol dire? Quali delle pratiche didattiche affastellate insieme senza criterio (Debate, flipped classroom, Clil) “non vanta[no] alcuna legittimazione scientifica né acquisizione definitiva da parte della ricerca educativa”? Non certo il CLIL, per esempio, su cui la letteratura scientifica e la pratica didattica in giro per l’Europa è rilevante. Approssimazione generalizzante.

E in che senso queste pratiche didattiche “rappresentano un insieme di “riforme striscianti” che demoliscono pezzo a pezzo l’edificio della Scuola Pubblica dal suo interno”? Ma questa gente sa qualcosa di ciò di cui stra-parla? E che c’entra il Ministero? Mi sono perso qualche circolare ministeriale in cui il MIUR obbliga le scuole italiane (scusate, ma io vivo all’estero, in Trentino: un altro mondo!) a introdurre Debate e Flipped classroom in tutte le classi (il CLIL sì, è vero, ahimè!)? Demolire la Scuola Pubblica dal suo interno poi!

Andiamo avanti. Le idee degli estensori del documento sulle nuove tecnologie digitali sono abbastanza chiare.

  1. Tecnologie digitali sì, ma solo come “ un possibile strumento di ampliamento e accesso a contenuti e conoscenze”, non imposto per carità, ma lasciato alla libera e incondizionata valutazione del docente.

2. Evitare “sperimentalismi digitali” che offrono:

“spesso narrazioni impazienti ed elementari (slides, video, “prodotti”, progetti), propongano procedure stereotipate e associazioni banali, con grave danno per gli studenti e la loro crescita culturale, interiore e sociale.”

Ma ‘sta gente sa di cosa parla? Saranno sicuramente procedure meno “stereotipate” e associazioni meno “banali” quelle che portano ai tradizionali temi d’italiano (pure esercitazioni retoriche e affastellamento casuale di opinioni) o alle tradizionali esercitazioni matematiche che affrontano problemi astratti, avulsi dal mondo reale. Fare qualche slide o un video (sapessero quanto si divertono e quanto si impegnano in questo “gioco” i nostri studenti!), creare un “prodotto” multimediale (ahi ahi, penso all’iBook dei miei studenti sul Basso medioevo), fare un “progetto” (ahi ahi, penso al progetto sulla mostra multimediale sulla Peste del Trecento) sarebbe produrre “narrazioni impazienti ed elementari” (che diavolo vuol dire?) e tutto questo danneggerebbe gravemente “la loro [degli studenti] crescita culturale, interiore e sociale”. Mio Dio cosa ho fatto!

Non manca la rituale tirata contro l’uso dello smartphone in classe, che non migliora nè l’insegnamento né l’apprendimento, e vabbè!

Ed ecco il “benaltrismo” (che deve essere un virus lombardo). Altri sono, come sempre, i problemi della, e le soluzioni per la scuola italiana.

Innanzitutto, per innovare basta attuare il “dettame della nostra Costituzione” (al posto dello smartphone in classe, si badi bene!).

Ma, soprattutto:

Servono piuttosto innovazioni in tutt’altra direzione, che sappiano valorizzare inoltre l’interculturalità, la creatività e l’immaginazione, il pensiero critico e quello simbolico, nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola.

Poteva mancare la voce “pensiero critico”? E “l’interculturalità”? Si apettano dotti suggerimenti su come introdurre tutte queste cose “nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola” attraverso la didattica trasmissiva e disciplinare: dico, se non dagli estensori, almeno dai tanti sottoscrittori.

Lezione vs attività laboratoriale

Il terzo punto promette più di quanto mantenga. Il titolo è decettivo perchè annuncia un confronto fra Lezione e attività laboratoriali, che di fatto non c’è, in quanto gli autori si limitano a fare un peana delle Lezione tradizionale:

Nell’era di instagram, twitter e dell’ e-learning, la relazione e la comunicazione “viva” allievo/insegnante — nella comunità della classe — rappresentano fortezze da salvaguardare e custodire. La saldatura del legame intergenerazionale, la trasmissione coerente di conoscenze, percorsi e temi, il dialogo incalzante, la maieutica, la circolarità, la condivisione di interpretazioni e scelte linguistiche, il problematizzare insieme, l’attenzione ai tempi, alle reazioni di sguardi e comportamenti. Tutto questo è fare lezione, un incontro fra persone in cammino in una comunità inclusiva. Gli appellativi di “frontale”, “dialogata”, “laboratoriale” sono rifiniture burocratiche che non ne intaccano la sostanza. Una lezione può e deve essere un laboratorio educativo, di crescita e partecipazione, di scambi fra tutti e cambiamenti di ciascuno, insegnante incluso.

Francamente quest’accorata difesa della pratica più diffusa nella scuola italiana con toni da difensori di Fort Alamo, risulta a dir poco fuori misura.

La scuola della lezione frontale (trasmissiva sì, ma con spazi di dialogo incalzante, di condivisione problematizzante, etc.: insomma la lezione frontale scesa “dal cielo in terra a miracol mostrare!”) assediata da un fronte composito non meglio definito, come valore da difendere ad ogni costo, è una rappresentazione irrealistica di ciò che accade nelle nostre scuole, e gli estensori dell’appello, che non vivono su Marte, ma nelle stesse scuole che frequento io, non possono non saperlo. La stragrande parte dell’attività didattica normale nelle nostre scuole (soprattutto secondarie) risponde ancora alla tradizionale triade: Lezione frontale - studio personale-interrogazione. Affermare il contrario è falso.

Io non ho nulla contro l’ora di lezione tradizionale o modificata (ne ho parlato in altri post e ad essi rimando), ma frequento (male evidentemente) da oramai trent’anni la scuola e so in cosa si traduce la lezione frontale tradizionale nella pratica didattica, e la si può imbellettare, rendere con metafore le più ricercate e poetiche, idealizzare quanto si vuole, ma spesso si riduce a una cosa noiosa, trista, ripetitiva, passivizzante, inutile. Bisogna, allora, abolirla? Non diciamo fesserie. Ma neanche esaltarla oltre i suoi reali meriti.

E’ vero che nell’illustrazione dall’ “essere” si passa al “dover essere”, a quello che dovrebbe essere fatto (e che quindi non è) per far diventare la lezione frontale quell’ “incontro”, tanto poeticamente enfatizzato dagli Appellanti.

Valutazione del singolo, valutazione di sistema

Salto a piè pari due tematiche affrontate nell’ Appello: il tema dell’alternanza Scuola-Lavoro e quello della metrica della ricerca, etc.

Per quanto riguarda il primo, le mie perplessita riguardano più che le questioni di principio, il modo approssimativo con cui si introducono queste iniziative nel mondo scolastico. Si elaborano progetti a tavolino, li si annunciano al mondo scolastico, il quale nulla fa, in attesa che arrivi la scadenza prevista, quindi, dopo avere sperato in una qualche proroga, se questa non arriva, si corre a improvvisarne l’applicazione in qualche modo. Lo si è fatto con il Clil e lo si è fatto, peggio!, con l’ASL.

Ma torniamo alla Valutazione. Scrivono gli estensori dell’Appello:

La valutazione degli studenti è impegno unico, qualificante e delicato dell’insegnante, condiviso con la comunità dei docenti e dei discenti, consapevoli del cambiamento tipico dei processi di apprendimento. È un’osservazione “prossimale” (e responsabile) modulata su tempi lunghi, sull’evoluzione del singolo allievo, delle pratiche di insegnamento, del gruppo, del contesto. È impensabile che enti terzi, estranei al rapporto educativo, entrino nel merito della valutazione formativa, come previsto dalla Buona Scuola. Singolarmente anacronistico appare che, dopo decenni di ‘crisi del fordismo’ in economia, si voglia introdurre la ‘fordizzazione’ nell’educazione. Le menti, soprattutto durante le prime fasi della formazione, sono delicate, creative e si conciliano con “tempi e metodi” d’antan assai meno delle berline. [grassetto mio]

Secondo gli estensori esisterebbe una, come chiamarla?, “virtus valutativa” degli insegnanti, qualcosa di imponderabile, frutto di anni di esperienza e di condivisione collegiale, che “è un’osservazione “prossimale” (e responsabile) modulata su tempi lunghi, sull’evoluzione del singolo allievo, delle pratiche di insegnamento, del gruppo, del contesto” (sic), cuore e sostanza della “professionalità docente”.

Insomma, nessuno tranne il Docente con la sua “virtù valutativa”, con al massimo il conforto della “comunità dei docenti” (si suppone che all’Invalsi, o quelli dell’Ocse Pisa non siano dotati di questa virtus , in quanto tecnici prezzolati dai “fordisti”, sempre in agguato e pronti a prendersi le anime dei nostri studenti!), sembra abbia gli elementi e gli strumenti per stabilire se un ragazzo sa leggere e comprendere un testo, sa scrivere in modo corretto e sa fare due conti. A voi il giudizio sulla ragionevolezza di questa prestesa.

Rimane per me un mistero glorioso il perchè tante menti illuminate e profonde abbiano sottoscritto questo documento a difesa di una Scuola che già c’è e prospera bellamente, infischiandosene di una minoranza che, dileggiata e derisa dai professionisti della Scuola seria e impegnata (la scuola del “rigore” e dello “studio vero”), tenta di immaginare e sperimentare forme di scuola diverse dal passato. Magari gli “innovatori” strepitano di più, magari si guadagnano qualche articolo di giornale e qualche attenzione, perchè fanno “notizia”. Ma “fanno notizia” proprio perchè si tratta di “eccezioni”.

Ogni tanto il Ministero adotta (nel senso dell’ “adozione”, non della messa in pratica) qualche strategia “innovativa”, suscitando l’irosa reazione di Destra e Sinistra che, per opposte ragioni, urlano “daje all’untore!”, pre-destinando quella strategia all’inesorabile fallimento. Un consiglio a quelli del Miur: non avallino, consiglino, dimostrino anche solo minime aperture verso una “buona pratica” che abbia solo il lontano sentore del “nuovo”, se vogliono permetterle di sopravvivere, crescere e arrivare alla maggiore età.

P.S. Ancora sull’ “Appello sulla scuola pubblica”

Se qualcuno voleva avere una prova del carattere eminentemente “politico” dell’Appello sulla scuola pubblica”, basta leggere l’intervista concessa da uno degli estensori dell’appello, Carosotti, a Orizzonte scuola.

Si tratta di un intervista in cui gli elementi “politici” che fanno da sfondo all’appello emergono con tutta chiarezza.

Titoli d’accusa nei confronti de “La Buona Scuola”:

  • La legge 107 è una legge che sta cercando di modificare geneticamente la scuola pubblica italiana, piegandola ad un “paradigma economicistico” che “sottomette alle sue necessità qualsiasi contenuto formativo”;
  • da questo paradigma segue la “didattica per competenze” che vuole “sacrificare i contenuti disciplinari e più genericamente culturali, a favore della trasmissione di abilità pratico-operative”;
  • la Buona Scuola impone “un nuovo modello in cui il sapere disciplinare è svilito in favore di metodologie prive di un vero fondamento scientifico”;
  • il concetto di competenza “ha una valenza strumentale e ideologica”;
  • la Buona Scuola ha “formalizzato un mutamento genetico della scuola repubblicana, destituendo la didattica delle finalità che le sono più proprie, cioè la formazione di cittadini pronti a vivere in una democrazia”;
  • la Buona Scuola propone “la totale rinuncia all’intera tradizione educativa del nostro Paese”.

Se a questo aggiungiamo i giudizi tranchant sulla politica di assunzioni seguita alla Legge 107 o sulla mancanza di dibattito sulla Riforma, si comprende che di un documento tutto “politico” si tratta, anche se velato da considerazioni pedagogiche.

Quello che trovo francamente indigeribile non è l’attacco alla Buona Scuola, quanto piuttosto la rappresentazione fantasiosa della Scuola così com’è oggi. La Scuola è oggi prevalentemente ancora scuola delle discipline. Io non so che scuole frequentino gli estensori dell’appello e i sottoscrittori, ma nella Scuola che c’è la stragrande maggioranza dei docenti fa ancora didattica disciplinare, segue i vecchi “programmi” (nemmeno quelli riformati della contro-riforma Gelmini); interroga e valuta alla vecchia maniera e (quando necessario) traduce i voti in indicatori di competenza!

Lo stesso successo dell’ Appello è un segnale che sono gli “altri” ad essere minoranza! Oggi, come prima della Buona Scuola! L’appello ha dato voce alla “maggioranza silenziosa” che vive e impera nelle nostre scuole!

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Pietro Alotto
La Scuola Che Non C’é

Scrivo di scuola, di filosofia, argomentazione, critical thinking e argument mapping (su cui ho scritto l'unico libro pubblicato in Italia).