«Handkerchief»: una non rivista sull’omofobia che sfida le norme dell’editoria

«Handkerchief» è una rivista fondata da cinque studenti dell’ISIA di Urbino e dedicata al contrasto dell’omofobia: ha ricevuto il premio della giuria agli European Design Award 2016 per il suo impatto sociale.

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Progetto grafico

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Federico Novaro

Questo articolo (here in English) è stato pubblicato su Progetto grafico, rivista internazionale di grafica edita dall’Aiap, Associazione Italiana design della comunicazione visiva. Il numero 32, “Qui, altrove”, è a cura di Serena Brovelli, Claude Marzotto e Silvia Sfligiotti. Sul sito dell’Aiap è possibile abbonarsi o acquistare il numero.

Una rivista che non si confronta col mercato, cos’è? Riviste gratuite n’è pieno il mondo e la storia; di solito compensano i mancati introiti — e il confronto dirimente col potere economico del proprio pubblico — con la pubblicità o con l’idealismo.

Quanto orienta, nelle scelte grafiche, nella selezione dei materiali testuali e iconografici, la necessità di un riscontro economico? Quando si progetta una rivista settoriale ci si muove su una linea che va da ciò ch’è stato e ciò che si immagina — si spera — sarà; il confronto con le esperienze precedenti orienterà le scelte; le scelte precedenti diventano — oltre la loro efficacia — linguaggio con il quale fare i conti; questo è più vero tanto più la settorialità è stretta, tale da creare un doppio codice comunicativo, uno palese, comune, e uno nascosto, alluso, criptato. È possibile eludere il pregresso, uscire dai codici? Quanto lo slittamento da un codice pregresso o la sua scotomizzazione muta il pubblico che sarà raggiunto dalla comunicazione?

«Handkerchief» si pone al centro di queste questioni, nella pratica e nel risultato. Prima di descriverlo è bene citare integralmente un testo pubblicato in copertina sul numero 3 della rivista: «Questo stampato è distribuito gratuitamente, ma non è una pubblicazione. Rappresenta la simulazione di una rivista — un magazine — in un contesto di editoria periodica, ma non ha un’uscita periodica. Viene diretto da un professore, ma non c’è un editore. Ha un gruppo di cinque ragazzi che si riunisce nel salotto buono di una casa per studenti, ma non c’è una redazione. Ha il codice Handkerchief, ma non ha un codice ISSN. Non ha un target, ma ha un pubblico.
Se stai leggendo questa copertina, forse per la prima volta non sei parte di un piano di marketing, ma solo un lettore attratto dai colori forti.»

Ogni numero ruota attorno a una tematica principale. La prima uscita, sull’Assenza, è stata completamente dedicata al nascondere e reprimere la diversità: dalla vita di John Cage, alla storia degli Arrusi catanesi confinati alle Tremiti durante il Ventennio fascista. Il numero ha visto la collaborazione col Collettivo fotografico Domino, e con l’Archivio di Stato, che ha concesso l’utilizzo e la riproduzione originale delle schede detentive dei confinati.

«Handkerchief» è un compito (assegnato da Mauro Bubbico dell’ISIA di Urbino). La parola usata nel testo citato è più esatta, ma è a posteriori: simulazione. È un compito, perché nasce come esercitazione all’interno di un corso di laurea: a materiali e input dati, si provi a realizzare una rivista. Gli studenti hanno fatto un passo oltre: anziché limitarsi a un ipotetico numero zero, che lascia aperte più questioni di quante provi a risolverne, hanno intrapreso una simulazione che li portasse a confrontarsi con tutti i nodi che la filiera produttiva avrebbe proposto loro. Naturalmente la rivista sconta il peccato d’origine d’essere un’esercitazione accademica, ma questa è la natura delle simulazioni: essere ricerca, non risultato.

Il primo dato, forse il più significativo, è che possiamo essere abbastanza certi che nessuna rivista incentrata sull’omofobia avrebbe in Italia, oggi, l’aspetto grafico — brillante, rigoroso, delicatamente pop — che i cinque studenti (Francesco Barbaro, Giulia Cordin, Giacomo Delfini, Alessandro Piacente,
Lorenzo Toso) hanno dato a «Handkerchief». I pregressi, non simulati ma reali, delle riviste italiane di generico ambito lgbtqi, indicano una strada molto diversa: una qualità grafica spesso mediocre; un irrisolto rapporto con l’omofobia — interiorizzata o meno — che porta a privilegiare il codice dell’ammiccamento a sfavore della chiarezza; un uso pronunciato di immagini di corpi più o meno nudi — che definisce dal punto di vista del genere con certezza il pubblico al quale si ritiene di dover arrivare; un tentativo — questo in anni più recenti, e realizzato in modo inefficace — di presentarsi come appetibili nei confronti degli inserzionisti. Il fallimento culturale che le prove degli ultimi decenni rappresentano stanno proprio nella tensione — spesso culturale e ideologica — all’interno del triangolo fra redazione, propria proiezione su un’idea di pubblico e pubblico reale. La simulazione degli studenti di Urbino elude questo passaggio, non solo perché non si confronta col mercato, ma soprattutto perché elude il discorso identitario risolvendolo in quello, dato, di studenti. In questo «Handkerchief» è prezioso per chi si occupi di grafica, per chi si occupi di comunicazione e per chi si occupi di lgbtqi studies: perché rivela la natura del pregresso per assenza, indica una strada possibile — che tutti si vorrebbe tale — immaginando un mondo migliore di quello ch’è stato: libero.

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Rivista Internazionale di Grafica - International Graphic Design Magazine