L’Elezione che potrebbe spaccare l’America

Sarah Tuggey
41 min readSep 26, 2020

Se i risultati della votazione fossero apparentemente incerti, Donald Trump potrebbe facilmente gettare le elezioni nel caos, sovvertendone il risultato. Chi lo fermerà?

di Barton Gellman (https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2020/11/what-if-trump-refuses-concede/616424/)

C’è un gruppo di attenti osservatori delle nostre elezioni presidenziali, studiosi, avvocati e strateghi politici, che si trovano nella difficile posizione in cui si erano ritrovati gli analisti di intelligence nei mesi precedenti l’11 settembre. All’approssimarsi del 3 novembre, i loro schermi lampeggiano in rosso, per via di alcuni segnali di allarme che il sistema politico non sa come assorbire. Vedono i segni evidenti che tutti noi vediamo, ma conoscono anche i piccoli dettagli che la maggior parte di noi ignora. Si è gradualmente affacciato alla ribalta qualcosa di pericoloso, e la nazione sta sbandando.

Il pericolo non è solo che le elezioni del 2020 creino tensioni. Chi teme qualcosa di peggio dà per scontate turbolenze e polemiche. Sulla scricchiolante macchina elettorale nazionale si stanno abbattendo la pandemia di Coronavirus, un Presidente incosciente, un diluvio di schede elettorali, un servizio postale ridotto allo stremo, un rinnovato sforzo per sopprimere la possibilità di votare, e un profluvio di cause legali.

Qualcosa dovrà cedere, e quando arriverà il momento di votare, di fare propaganda e di certificare le schede, molte cose lo faranno. Tutto è possibile, compresa una vittoria schiacciante nella Election Night che non lasci dubbi. Ma anche se una delle parti ottenesse un vantaggio iniziale, la tabulazione e i problemi del “conteggio overtime” — miliardi di voti postali e provvisori — potrebbero rendere l’esito incerto per giorni o settimane.

Se saremo fortunati, questo ciclo di elezioni, così teso e disfunzionale, raggiungerà un punto di arresto normale in tempo per rispettare le scadenze cruciali di dicembre e gennaio. La competizione sarà decisa con tale autorità che il candidato perdente sarà costretto a cedere. Collettivamente avremo fatto la nostra scelta — una scelta incasinata, senza dubbio, ma abbastanza chiara da dare al Presidente eletto un mandato per governare.

Come nazione, non abbiamo mai fallito nel superare questo ostacolo. Ma in questo anno elettorale fatto di epidemia, recessione e politica catastrofica, i meccanismi decisionali rischiano davvero di crollare. Gli studenti di diritto e di procedura elettorale lanciano segnali di avvertimento sul fatto che le condizioni sono ormai mature per una crisi costituzionale, che lascerebbe la nazione senza un risultato netto. Non abbiamo un sistema di sicurezza contro una calamità del genere. Di conseguenza, ecco che lampeggiano le luci rosse dei segnali di allarme.

“Se il risultato fosse troppo stretto, potremmo benissimo vedere una lunga lotta post-elettorale nei tribunali, e nelle strade”, dice Richard L. Hasen, professore alla UC Irvine School of Law e autore di un recente libro intitolato Election Meltdown. “Il tipo di tracollo elettorale che potremmo vedere sarebbe di gran lunga peggiore del caso Bush contro Gore del 2000”.

Molti, incluso Joe Biden, il candidato del Partito democratico, hanno frainteso la natura di una simile minaccia. La inquadrano come la preoccupazione, impensabile per i Presidenti del passato, che Trump possa rifiutarsi di lasciare lo Studio Ovale in caso perdesse le elezioni. Generalmente concludono, come ha fatto Biden, che in tal caso le autorità competenti “lo scorteranno fuori dalla Casa Bianca con grande sollecitudine”.

Il caso peggiore, tuttavia, non è che Trump rifiuti l’esito delle elezioni. Il caso peggiore è che usi il suo potere per impedire un risultato netto contro di lui. Se Trump rinunciasse a ogni moderazione, e se i suoi alleati repubblicani recitassero le parti che l’attuale Presidente assegna loro in questa ipotetica recita, questi potrebbe ostacolare l’emergere di una vittoria legalmente inequivocabile per Biden, nel Collegio Elettorale prima e nel Congresso poi. Potrebbe impedire la formazione di un consenso sull’esistenza o meno di un risultato. Potrebbe approfittare di quest’incertezza per mantenere il potere.

Le squadre legali statali e nazionali di Trump stanno già gettando le basi per manovre post-elettorali che aggirerebbero i risultati del conteggio dei voti negli Stati contesi. Le ambiguità contenute nella Costituzione, e le bombe logiche contenute nell’Electoral Count Act (Legge sul conteggio elettorale) permettono di estendere la controversia fino al giorno dell’inaugurazione: la nazione arriverebbe sull’orlo del precipizio. Il ventesimo Emendamento è chiarissimo: il mandato del Presidente “termina” a mezzogiorno del 20 gennaio, ma due uomini potrebbero presentarsi per prestare giuramento. Uno dei due ci arriverebbe con tutti gli strumenti e il potere di una Presidenza che è già nelle sue mani.

“Non siamo affatto preparati a questa eventualità”, mi ha detto Julian Zelizer, professore di storia e affari pubblici di Princeton. “Ne parliamo, alcuni si preoccupano, e immaginiamo cosa potrebbe succedere. Ma poche persone hanno risposte concrete su ciò che può accadere se la macchina della democrazia viene usata per impedire una legittima risoluzione alle elezioni”.

Non facciamo finta di nulla. Donald Trump può vincere o perdere, ma non riconoscerà mai il risultato elettorale.

Diciannove estati fa, quando gli analisti dell’antiterrorismo avvertirono di un imminente attacco di Al-Qaeda, potevano solo cercare di indovinare una data. Quest’anno, se gli analisti elettorali hanno ragione, sappiamo quando è probabile che il problema arrivi. Chiamatelo Interregno: l’intervallo tra il giorno delle elezioni e il giuramento del prossimo Presidente. È una terra di nessuno temporale tra la presidenza di Donald Trump e un successore incerto: un secondo mandato per Trump o un primo per Biden. Il trasferimento del potere, che di solito diamo per scontato, ha diversi passaggi intermedi, e questi passaggi sono fragili.

L’Interregno comprende 79 giorni, accuratamente delimitati dalla legge. Tra questi ci sono “Il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre”, quest’anno il 14 dicembre, quando gli elettori si riuniscono in tutti i 50 stati e nel District of Columbia per votare per la Presidenza; “il terzo giorno di gennaio”, quando si riunisce il Congresso appena eletto; e “il sesto giorno di gennaio”, quando la Camera e il Senato si riuniscono insieme per un conteggio formale del voto elettorale. Nella maggior parte delle elezioni moderne sono state pietre miliari pro forma, irrilevanti per il risultato. Quest’anno potrebbero non esserlo.

“La nostra Costituzione non assicura la transizione pacifica del potere, ma piuttosto la presuppone”, ha scritto lo studioso di diritto Lawrence Douglas in un recente libro intitolato semplicemente Will He Go? (Se ne andrà?). L’Interregno in cui stiamo per entrare sarà accompagnato da quella che Douglas, che insegna ad Amherst, definisce una “tempesta perfetta” di condizioni avverse. Non possiamo allontanarci da quella tempesta. Il 3 novembre navigheremo verso il suo esatto centro. Se ne usciremo senza traumi, non sarà una nave infrangibile a salvarci.

Non facciamo finta di nulla. Donald Trump può vincere o perdere, ma non riconoscerà mai il risultato elettorale. In nessuna circostanza. Non durante l’Interregno e non dopo. Se alla fine sarà costretto a lasciare il suo ufficio, insisterà dall’esilio, finché avrà fiato, che la gara è stata truccata.

L’impegno inarrestabile di Trump a mantenere questa posizione sarà il fatto più importante del prossimo Interregno. Deformerà il processo dall’inizio alla fine. Non abbiamo mai sperimentato niente del genere prima d’ora.

Forse esitate. È un dato di fatto che se Trump perdesse, rifiuterebbe la sconfitta, a qualunque costo? Lo sappiamo per certo? Tecnicamente, vi sentirete obbligati a precisare, l’ipotesi è inquadrata in un futuro condizionale, e la profezia non è un dono dell’uomo, e così via. Con tutto il dovuto rispetto, questo è un mero cavillo. Conosciamo bene quest’uomo. Non possiamo permetterci di fingere.

Il comportamento e l’intenzione dichiarata di Trump non lasciano spazio a supposizioni sul fatto che accetterà il verdetto del pubblico, se il voto andrà contro di lui. Mente in modo prodigioso — per manipolare gli eventi, per assicurarsi un vantaggio, per schivare le responsabilità e per evitare di ferire il suo orgoglio. Un’elezione produce il distillato perfetto di tutti questi moventi.

La patologia può esercitare la più forte influenza sulle scelte di Trump durante l’Interregno. Tesi ben supportate, e questa rivista ne ha esaminate alcune, hanno dimostrato che Trump si adatta ai criteri diagnostici di psicopatia e narcisismo. Per definizione medica, l’uno o l’altro disturbo lo renderebbe incapace di accettare la sconfitta.

L’opinione pubblica ha difficoltà ad affrontare questo problema in modo corretto. Giornalisti e opinionisti si sentono obbligati ad aggiungere disclaimer quando chiedono “cosa succederebbe” se Trump perdesse e si rifiutasse di accettare il risultato delle elezioni se a suo svantaggio. “Gli scenari sembrano tutti inverosimili”, ha scritto Politico, citando una fonte che li ha paragonati alla fantascienza. L’ex procuratore distrettuale Barbara McQuade, in un pezzo pubblicato a febbraio su The Atlantic, non riusciva a considerare il rischio come reale: “Che un presidente sfidasse i risultati di un’elezione è stato a lungo impensabile; ora è, se non una possibilità reale, almeno qualcosa su cui i sostenitori di Trump scherzano”.

Ma i sostenitori di Trump non sono gli unici a esprimere pensieri extraconstituzionali ad alta voce. A Trump è stato chiesto direttamente, sia durante questa campagna che durante la precedente, se rispetterà i risultati delle elezioni. Ha lasciato sfacciatamente aperte tutte le opzioni. “Quello che sto dicendo è che ve lo dirò in quel momento. Vi terrò in sospeso. Va bene così?” ha detto al moderatore Chris Wallace nel terzo dibattito presidenziale del 2016. Wallace ha fatto un altro tentativo con lui in un’intervista per Fox News lo scorso luglio. “Devo vedere”, ha detto Trump. “Guarda, tu… io devo vedere. No, non mi limiterò a dire di sì. Non ho intenzione di dire di no”.

E come deciderà quando sarà il momento? In realtà, Trump ha risposto anche a questo. A un raduno a Delaware, in Ohio, nei giorni conclusivi della campagna del 2016, ha iniziato la sua performance con un segnale di novità. “Signore e signori, oggi voglio fare un annuncio importante. Vorrei promettere, impegnandomi di fronte a tutti i miei elettori e sostenitori, e a tutto il popolo degli Stati Uniti, che accetterò totalmente i risultati di questa grande e storica elezione presidenziale”. Ha fatto una pausa, poi ha punteggiato le parole successive con gesti del dito indice: “Se… io… vinco!” Solo allora ha allungato le labbra in una sorta di sorriso.

La domanda non è del tutto ipotetica. Il rispetto di Trump per le urne è già stato testato. Nel 2016, con la presidenza in mano, dopo aver vinto il Collegio Elettorale, Trump ha rifiutato nettamente i conteggi certificati che dimostravano che aveva perso il voto popolare con un margine di 2.868.692 voti. Affermava, senza fondamento ma non per caso, che almeno 3 milioni di immigrati senza documenti avessero votato in modo fraudolento per Hillary Clinton.

Tutto questo per dire che non esiste una versione dell’Interregno in cui Trump si congratuli con Biden per la sua vittoria. Ce l’ha detto lui stesso. “L’unico modo in cui possono toglierci questa elezione è se si tratta di un’elezione truccata”, ha detto Trump alla Convention nazionale repubblicana del 24 agosto. A meno che non vinca una vittoria bona fide al Collegio Elettorale, il rifiuto di Trump di accettare il risultato a lui sfavorevole — la sua semplice negazione della sconfitta — avrà effetti a cascata.

Il rituale che segna la fine di un’elezione ha adottato la sua forma contemporanea nel 1896. La sera del giovedì, dopo la chiusura delle urne di quell’anno, una notizia sgradita arrivò al candidato democratico alle presidenziali, William Jennings Bryan. Un comunicato del senatore James K. Jones, presidente del Comitato Nazionale Democratico, lo informò che “quello che si sapeva bastava a rendere certa la mia sconfitta”, avrebbe poi ricordato Bryan in una memoria.

Compose quindi un telegramma indirizzato al suo avversario repubblicano, William McKinley. “Il Senatore Jones mi ha appena informato che i risultati indicano la sua elezione, e mi affretto a farle le mie congratulazioni”, scrisse Bryan. “Abbiamo sottoposto la questione al popolo americano e la sua volontà è legge”.

Dopo Bryan, il riconoscimento della sconfitta è diventata un dovere civico, eseguito con un telegramma o una telefonata e poi con un discorso pubblico. Nel 1928, Al Smith pronunciò il discorso di riconoscimento della sconfitta alla radio, e poco dopo questa tradizione è passata al mezzo televisivo.

Come altri rituali, il riconoscimento della sconfitta (concession) ha sviluppato una propria liturgia. Il candidato sconfitto esce per primo. Ringrazia i sostenitori, dichiara che la loro causa continuerà a vivere, e riconosce che l’altra parte ha prevalso. Il vincitore inizia il suo discorso rendendo onore al perdente.

Le concession utilizzano una formulazione che i linguisti definiscono “discorso performativo”. Le parole non descrivono o annunciano un atto; le parole stesse sono l’atto. “Il discorso di riconoscimento della sconfitta, quindi, non è semplicemente il resoconto di un risultato elettorale o l’ammissione di una sconfitta”, ha scritto il politologo Paul E. Corcoran. “È un atto costitutivo dell’autorità del nuovo Presidente”.

Nella guerra vera e propria, non quella politica, riconoscere la sconfitta è facoltativo. La parte vincente può prendere con la forza ciò che la parte perdente rifiuta di consegnare. Se la parte più debole non richiede l’ottenimento della pace, i suoi bastioni possono essere violati, il suo quartier generale raso al suolo, e i suoi leader presi prigionieri o messi a morte. Ci sono posti nel mondo dove la lotta politica finisce ancora in questo modo, ma non qui. La formula del concession speech da parte del perdente è quindi difficile da sostituire.

Si consideri l’elezione del 2000, che a prima vista può apparire come una dimostrazione del contrario. Al Gore dichiarò la sua sconfitta nei confronti di George W. Bush la notte delle elezioni, poi ritirò il gesto e combatté una battaglia di riconteggio in Florida fino alla chiusura del contenzioso da parte della Corte Suprema. Si dice comunemente che fu la sentenza della Corte, con 5 voti a favore e 4 contrari, a decidere l’esito di quelle elezioni, ma non è del tutto corretto.

La Corte emise la sua sentenza nel caso Bush contro Gore il 12 dicembre, sei giorni prima della convocazione del Collegio Elettorale e settimane prima che il Congresso certificasse i risultati. Anche se le indagini si erano interrotte in Florida, Gore aveva i mezzi costituzionali per combattere, e alcuni consiglieri lo avevano esortato a farlo. Se avesse portato la disputa al Congresso, avrebbe mantenuto la maggioranza in quanto presidente del Senato.

Solo quando Gore si è rivolto alla nazione il 13 dicembre, il giorno dopo la decisione della Corte, la sfida si è veramente conclusa. Parlando da uomo che avrebbe avuto ancora delle carte da giocare, Gore ha deposto le armi. “Accetto l’inappellabilità di questo risultato, che sarà ratificato lunedì prossimo nel Collegio Elettorale”, ha detto. “E stasera, per il bene della nostra unità come popolo e per la forza della nostra democrazia, offro la mia resa”.

Se Biden sembrasse vincere il Collegio Elettorale, ma Trump si rifiutasse di cedere, non abbiamo alcun precedente o procedura per porre fine a questa elezione. Dovremo inventarne uno.
Trump è, in qualche misura, un autoritario debole. Ha la bocca, ma non i muscoli per mettere in atto con sicurezza quello che vuole. Trump ha denunciato il Consigliere Speciale Robert Mueller, ma non ha potuto licenziarlo. Ha accusato i suoi nemici di tradimento, ma non è riuscito a imprigionarli. Ha piegato la burocrazia e violato la legge, ma non si è liberato del tutto dei loro vincoli.

Un vero despota non rischierebbe l’inconveniente di perdere le elezioni. Truccherebbe la sua vittoria in anticipo, evitando di dover ribaltare un risultato che non gli aggrada. Trump non può farlo.

Ma non è del tutto privo del potere di stravolgere le procedure — prima nel giorno delle elezioni e poi durante l’Interregno. Potrebbe disturbare il conteggio dei voti dove sta andando male, e se questo non dovesse funzionare, provare a bypassarlo del tutto. Il giorno delle elezioni, Trump e i suoi alleati possono cominciare col nascondere i voti per Biden.

Non dobbiamo nasconderci neppure un’altra verità: Trump non vuole che i neri votino. (Lo ha detto anche nel 2017 — nel Martin Luther King Day, nientemeno — a un gruppo di diritto di voto co-fondato da King, secondo una registrazione fatta trapelare a Politico). Non vuole che i giovani o i poveri votino. Ritiene, a ragione, di avere meno probabilità di vincere le elezioni se l’affluenza alle urne è alta. Non si tratta di un fenomeno che vale “per entrambe le parti”. Nella politica attuale, abbiamo un partito che cerca costantemente il vantaggio di privare del diritto di voto gli aderenti dell’altro.

Poco meno di un anno fa, Justin Clark ha tenuto un discorso a porte chiuse in Wisconsin, rivolto a un pubblico selezionato di avvocati repubblicani. Pensava di parlare in privato, ma qualcuno aveva portato un registratore. Aveva molto da dire sulle operazioni del giorno delle elezioni, le Election Day Operations, o “EDO”.

All’epoca, Clark era un assistente senior della campagna per la rielezione di Trump; a luglio, è stato promosso a vicedirettore della campagna elettorale. “Il Wisconsin è lo stato che deciderà le cose, in un modo o nell’altro… Quindi questo rende le EDO davvero, davvero, davvero importanti”, ha detto. Ha chiarito la missione: “Tradizionalmente sono sempre stati i Repubblicani a nascondere i voti … gli elettori [dei Democratici] sono tutti in una parte dello stato, quindi cominciamo a giocare un po’ in attacco. Ed è quello che vedrete nel 2020. È questo che sarà marcatamente diverso. Sarà un programma molto più ampio, un programma molto più aggressivo, un programma finanziato molto meglio, e avremo bisogno di tutto l’aiuto possibile”. (in seguito Clark affermò che le sue osservazioni erano state fraintese, ma la sua spiegazione non aveva senso).

Di tutti i segnali favorevoli a Trump per gli ELO, ha spiegato Clark, “prima di tutto c’è che il Consent Decree è stato cancellato”. Si riferiva a un’ordinanza del tribunale che vietava agli operativi repubblicani di usare una qualsiasi di una lunga lista di tecniche di spoliazione e intimidazione degli elettori. La cancellazione di quell’ordine è stato un “affare enorme, enorme, enorme, enorme, enorme”, ha detto Clark.

Il suo pubblico di avvocati sapeva cosa voleva dire. Le elezioni presidenziali del 2020 saranno le prime in 40 anni a svolgersi senza che un giudice federale richieda al Comitato Nazionale Repubblicano di chiedere l’approvazione in anticipo per qualsiasi operazione di “sicurezza elettorale” alle urne. Nel 2018, un giudice federale ha lasciato scadere il Consent Decree, stabilendo che i ricorrenti non avevano prove di recenti violazioni da parte dei Repubblicani. Secondo questa logica, il Consent Decree non era più necessario perché aveva funzionato.

L’Ordine era nato durante le elezioni per il governatore del New Jersey del 1981. Secondo il parere del tribunale distrettuale nel caso Democratic National Committee v. Republican National Committee (Comitato Nazionale Democratico, DNC, contro Comitato Nazionale Repubblicano, RNC), l’RNC avrebbe cercato di intimidire gli elettori assumendo ufficiali di polizia fuori servizio come membri di una “National Ballot Security Task Force” (Task Force per la sicurezza nazionale del voto), alcuni dei quali armati e con radio ricetrasmittenti. Secondo i querelanti, fermavano e interrogavano gli elettori nei quartieri dove vivevano le minoranze, impedivano agli elettori di entrare a votare, trattenevano con la forza gli addetti alle votazioni, contestarono l’idoneità al voto delle persone, minacciarono accuse penali per aver votato illegalmente, e in generale fecero del loro meglio per spaventare gli elettori e allontanarli dalle urne. Il potere di questi metodi si basava sui fondati timori delle persone di colore riguardo il contatto con le forze di polizia.

Quest’anno, senza un giudice che sovrintenda, i Repubblicani stanno reclutando 50.000 volontari in 15 stati contesi per monitorare i seggi e sfidare gli elettori che ritengono sospetti. Il 20 agosto, Trump ha chiamato Fox News per dire a Sean Hannity: “Avremo sceriffi e forze dell’ordine e, si spera, avvocati statunitensi” per tenere sotto controllo le urne. Per la prima volta da decenni, secondo Clark, i Repubblicani sono liberi di combattere le frodi elettorali nei “posti guidati dai Democratici”.

La crociata di Trump contro il voto postale è la strategia di un uomo che si aspetta di essere messo in minoranza, e che si propone di ostacolare il conteggio.

I brogli elettorali sono una minaccia fittizia all’esito delle elezioni, un pretesto che i Repubblicani usano per ostacolare o scartare le schede dei probabili avversari. Un autorevole rapporto del Brennan Center for Justice, un think tank apartitico, ha calcolato che il tasso di brogli elettorali in tre elezioni si attesta tra lo 0,0003% e lo 0,0025%. Un’altra indagine, condotta da Justin Levitt della Loyola Law School, ha portato alla luce 31 accuse credibili di sostituzione di persona su oltre 1 miliardo di voti espressi negli Stati Uniti dal 2000 al 2014. I giudici, nei casi di diritto di voto, hanno ottenuto risultati di fatto comparabili.

Ciononostante, i Repubblicani e i loro alleati hanno contestato decine di casi in nome della prevenzione dei brogli nelle elezioni di quest’anno. Stato per stato, hanno cercato — a volte con successo — di eliminare le liste elettorali, di inasprire le regole sul voto provvisorio, di sostenere i requisiti di identificazione degli elettori, di vietare l’uso delle caselle elettorali, di ridurre l’idoneità al voto per posta, di scartare le schede con difetti tecnici e di vietare il conteggio delle schede che vengono spedite entro il giorno delle elezioni ma che arrivano dopo. L’intento — e l’effetto — è quello di cancellare voti in grandi quantità.

Queste manovre legali sono tratte da un vecchio copione repubblicano. Ciò che è diverso durante questo ciclo, a parte la ferocia degli sforzi, è l’attenzione al voto per posta. Il Presidente ha montato un implacabile assalto al voto via posta, nel momento esatto in cui la pandemia da Coronavirus sta spingendo decine di milioni di elettori a utilizzarlo.

Le elezioni presidenziali di quest’anno vedranno il voto via posta su una scala diversa da qualsiasi altra: alcuni Stati prevedono che aumenterà anche di dieci volte. Un sondaggio condotto dal Washington Post su 50 stati ha rilevato che 198 milioni di elettori idonei, o almeno l’84%, avranno la possibilità di votare per posta.

Trump ha denunciato il voto per corrispondenza spesso e in modo pressante, ipotizzando incubi fantasiosi. Un giorno ha twittato: “Il voto via posta porterà a frodi e abusi massicci. Porterà anche alla fine del nostro grande Partito Repubblicano. Non possiamo permettere che questa tragedia si abbatta sulla nostra nazione”. In un’altra occasione, ha ipotizzato uno scenario immaginario — e facilmente contestato — di falsificazione dall’estero: “Le elezioni truccate del 2020: milioni di schede elettorali saranno stampate da nazioni straniere, e da altri. Sarà il più grande scandalo dei nostri tempi!”

Prima della fine dell’estate, Trump si è espresso contro il voto per corrispondenza una media di quasi quattro volte al giorno, un ritmo che aveva riservato in passato a pericoli esistenziali come l’impeachment e l’indagine Mueller: “Molto pericoloso per il nostro paese”. “Una catastrofe”. “La più grande elezione truccata della storia”.

In estate sono anche giunte le notizie sul Servizio postale americano, l’agenzia governativa più popolare, che è stato assediato dall’interno da Louis DeJoy, il nuovo direttore generale delle poste, nominato da Trump, e uno dei maggiori donatori repubblicani. I tagli ai servizi, le ristrutturazioni dell’alta dirigenza e i caotici cambiamenti operativi stavano producendo lunghi ritardi. In un impianto di smistamento, come ha riportato il Los Angeles Times, “gli operai sono rimasti talmente indietro con la lavorazione dei pacchi che all’inizio di agosto moscerini e roditori brulicavano intorno a contenitori di frutta e carne marcite, e i pulcini erano morti dentro le loro scatole”.

In nome dell’efficienza, il Servizio Postale ha iniziato a smantellare il 10% delle sue macchine per lo smistamento della posta. Dopodiché è arrivata la notizia che il Servizio non avrebbe più trattato le schede elettorali come posta di prima classe, a meno che alcuni Stati non triplicassero o quasi le spese postali pagate, da 20 a 55 centesimi a busta. DeJoy ha negato qualsiasi intenzione di rallentare il voto per posta, e sotto il fuoco incrociato delle critiche il servizio postale ha ritirato il piano.

Se c’erano dubbi sulla posizione di Trump su questi cambiamenti, il Presidente li ha sciolti in una conferenza stampa del 12 agosto. I Democratici stavano negoziando un aumento di 25 miliardi di dollari dei finanziamenti postali e di altri 3,6 miliardi di dollari per l’assistenza alle elezioni negli Stati. “Non hanno i soldi per permettere il voto per corrispondenza universale. Quindi immagino non possano farlo”, ha detto Trump. “È molto semplice. Come faranno se non hanno i soldi per farlo?”

E quindi?

In parte, l’ostilità di Trump nei confronti del voto via posta è il riflesso della sua convinzione che in generale un maggior numero di voti sia per lui un male. I Democratici, ha detto su Fox & Friends alla fine di marzo, vogliono “Livelli di voto che, se mai accettaste, vi poterebbero a non avere mai più un Repubblicano eletto in questo Paese”.

Alcuni Repubblicani considerano la vendetta di Trump come autolesionista. “A me sembra del tutto irrazionale”, mi ha detto Jeff Timmer, ex direttore esecutivo del Partito repubblicano del Michigan. “La campagna di Trump, l’RNC e le organizzazioni del partito nei vari stati si stanno impegnando per sopprimere la loro stessa affluenza alle urne”, compresi gli anziani Repubblicani che votano per posta per anni.

Ma la crociata di Trump contro il voto via posta è un’espressione strategicamente valida del suo piano per l’Interregno. In realtà, il Presidente non sta cercando di impedire del tutto il voto per corrispondenza, cosa che non ha i mezzi per fare. Sta screditando la pratica e la sta privando di risorse, dicendo ai suoi sostenitori di votare di persona e preparando il terreno per i piani della notte post-elettorale per contestare i risultati. È la strategia di un uomo che si aspetta di essere messo in minoranza, e che si propone di ostacolare il conteggio.

Secondo un team di ricercatori di Stanford, il voto per posta non favorisce nessuna delle due parti “durante tempi normali”, ma questa frase ha un grande significato. I risultati della loro ricerca, pubblicati a giugno, non hanno tenuto conto di un Presidente le cui parole da sole potrebbero produrre un’asimmetria faziosa. Le sistematiche previsioni di frode di Trump sembrano aver avuto un potente effetto sulle intenzioni di voto dei Repubblicani. In Georgia, per esempio, un sondaggio della Monmouth University di fine luglio ha rilevato che il 60% dei Democratici, ma solo il 28% dei Repubblicani, probabilmente voterà via posta. Negli Stati contesi della Pennsylvania e della Carolina del Nord, centinaia di migliaia di Democratici in più rispetto ai Repubblicani hanno richiesto di votare per posta.

In altre parole, Trump ha creato un proxy che gli permette di distinguere gli amici dai nemici. Gli avvocati repubblicani di tutto il paese lo troveranno utile quando si tratterà di contestare il conteggio. Giocando con i numeri, possono considerare ostili le schede elettorali spedite per posta, proprio come considerano ostili i voti espressi di persona dagli elettori delle aree urbane e delle città universitarie. Queste sono le schede che contesteranno.

Lo spazio di battaglia dell’Interregno, se le tendenze si dimostreranno vere, sarà plasmato da un fenomeno noto come “blue shift” (letteralmente, cambiamento verso il blu, cioè verso i Democratici, ndt).

Edward Foley, professore di diritto costituzionale dell’Ohio e specialista in diritto elettorale, è stato un pioniere della ricerca sul blue shift. Ha trovato un modello di conteggio di voti tardivi (voti overtime) che non era mai stato notato in precedenza — il conteggio dopo la Notte delle Elezioni, che si basa sui distretti che riportano i risultati tardivi, i voti via posta non elaborati e i voti provvisori di elettori la cui idoneità doveva essere confermata. Per la maggior parte della storia americana, questo conteggio non ha prodotto un effetto prevedibilmente fazioso. In un dato anno elettorale, alcuni Stati si sono spostati in “rosso” (cioè, sono diventati repubblicani, ndt) dopo il giorno delle elezioni e altri in “blu” (cioè, sono diventati democratici, ndt), ma raramente i cambiamenti sono stati abbastanza grandi da essere significativi.

Due cose hanno cominciato a cambiare circa 20 anni fa. Il conteggio dei voti overtime è cresciuto, e la tendenza è diventata sempre più “blu”, cioè verso i Democratici. In un articolo aggiornato di quest’anno, Foley e il suo coautore, Charles Stewart III del MIT, hanno detto di non riuscire a spiegare del tutto come mai questo cambiamento favorisca i Democratici. (Alcuni fattori: in ambiente urbano le schede elettorali richiedono più tempo per essere conteggiate, e la maggior parte dei voti provvisori sono espressi da giovani, persone a basso reddito, o elettori mobili, che tendono a votare per i Democratici). Durante l’overtime del 2012, Barack Obama ha rafforzato i suoi margini di vittoria negli swing State (stato nel quale nessun candidato o partito ha un sostegno predominante e tale da assicurare i voti dello stato stesso nel Collegio Elettorale, ndt) come Florida (con un aumento netto di 27.281 voti), Michigan (aumento netto di 60.695), Ohio (aumento netto di 65.459) e Pennsylvania (aumento netto di 26.146). Obama avrebbe comunque vinto la Presidenza, ma in una gara più ravvicinata cambiamenti di questa portata avrebbero potuto modificarne l’esito. Hillary Clinton ha raccolto decine di migliaia di voti overtime nel 2016, ma non abbastanza per salvarla.

Il blue shift non ha ancora mai deciso un’elezione presidenziale, ma ha sconvolto la corsa al Senato dell’Arizona nel 2018. La repubblicana Martha McSally sembrava avere la vittoria in pugno, con un vantaggio di 15.403 voti il giorno dopo l’Election Day. Il conteggio elettorale dei giorni successivi ha portato il democratico Kyrsten Sinema al Senato con “un gigantesco guadagno di 71.303 voti overtime”, ha scritto Foley.

Quell’anno è stata la Florida, tuttavia, a catturare l’attenzione di Trump. Nella notte delle elezioni, i Repubblicani erano in testa in una serrata competizione per la nomina a Governatore e Senatore degli Stati Uniti. Quando avvenne il blue shift, Ron DeSantis vide il suo vantaggio ridursi di 18.416 voti nella corsa a Governatore. Il margine per il Senato di Rick Scott scese di 20.231 voti. La mattina presto del 12 novembre, sei giorni dopo le elezioni, Trump aveva visto abbastanza. “Rick Scott e Ron DeSantis dovrebbero essere dichiarati i vincitori delle elezioni in Florida, dato che un gran numero di nuove schede sono apparse dal nulla, e molte schede sono mancanti o falsificate”, ha twittato, senza alcuna prova. “Non è più possibile un conteggio dei voti onesto — i voti sono troppo truccati. Si deve decidere tutto la notte delle elezioni!”

Trump è stato talmente preso dal panico per il blue shift dell’elezione di qualcun altro da fabbricare accuse di frode. In questa elezione, quando è il suo stesso nome ad essere sulla scheda elettorale, il blue shift potrebbe essere il più grande mai osservato. Anche in un anno normale, i voti via posta richiedono più tempo per essere conteggiati, e quest’anno ce ne saranno decine di milioni in più rispetto a qualsiasi elezione precedente. Molti Stati vietano l’elaborazione di schede elettorali che arrivano in anticipo prima del giorno delle elezioni; alcuni permettono di contare le schede che arrivano in ritardo (ma che sono state spedite in tempo, ndt).

“Qualsiasi scenario vi venga in mente, non sarà strano quanto la realtà”, dice un consulente legale di Trump.

L’istinto di Trump come spettatore nel 2018 — quello di fermare il conteggio — quest’anno sembra più una strategia. “Ci sono risultati che arrivano nella Notte delle Elezioni”, mi ha detto un consulente legale della campagna nazionale di Trump, che preferisce non essere nominato. “Il paese sia aspetta che vengano annunciati vincitori e vinti. Se i risultati della Notte delle Elezioni vengono cambiati a causa delle schede elettorali contate dopo il giorno delle elezioni, si hanno gli ingredienti di base per una tempesta di proteste.”

Non c’è nessun “se”, ve l’ho detto. Il conteggio è destinato a cambiare. “Sì,” si è detto d’accordo il consigliere, e il conteggio successivo alla Notte delle Elezioni produrrà più voti per Biden che per Trump. I Democratici insisteranno a trascinare questo conteggio per tutto il tempo necessario a contare ogni voto. Il conflitto che ne risulterà, ha detto il consigliere, ricadrà su di loro.

“Lo stanno chiedendo a gran voce”, ha detto. “Stanno cercando di massimizzare la loro partecipazione elettorale, e pensano che non ci siano lati negativi”. Ha aggiunto: “Ci sarà un conteggio nella Notte delle Elezioni, che si protrarrà nel tempo, e quando verrà dato il conteggio finale i risultati saranno messi in discussione perché imprecisi, fraudolenti, scegliete voi la parola che preferite”.

Lo scenario peggiore per un conteggio ordinato è anche considerato da alcuni modellisti elettorali come il più probabile: Trump sarà in vantaggio nella Notte delle Elezioni, sulla base dei voti di persona, ma il suo vantaggio cederà lentamente il passo a una vittoria di Biden, mentre i voti via posta vengono conteggiati. Josh Mendelsohn, amministratore delegato della società democratica di modelling di dati Hawkfish, definisce questo scenario “il miraggio rosso”. La turbolenza di quell’intervallo, alimentata dalle proteste di strada, dai social media e dai disperati tentativi di Trump di assicurarsi la leadership, è qualcosa che si può solo immaginare. “Qualsiasi scenario vi venga in mente, non sarà strano quanto la realtà”, dice il consulente legale di Trump.

Gli avvocati elettorali parlano di “margine di contenzioso” in gare dall’esito ravvicinato. Più stretto è il margine nei primi rapporti, e più voti rimangono da contare, maggiore è l’incentivo a battersi in tribunale. Se esistesse una cosa come la ‘Preghiera di un Amministratore Elettorale’, come alcuni di loro dicono, scherzando solo in parte, sarebbe: “Signore, fa’ che ci sia una vittoria schiacciante”.

Una vittoria schiacciante potrebbe risparmiarci il conflitto nell’Interregno? In teoria, sì. Ma le probabilità non sono promettenti.

È difficile immaginare un vantaggio di Trump talmente grande nella Notte delle Elezioni da metterlo fuori dalla portata di Biden. A meno che gli swing States non riescano a conteggiare la maggior parte delle loro schede elettorali quella sera, cosa che per alcuni di loro sarà praticamente impossibile, l’aspettativa di un blue shift farà sì che Biden continui a lottare. Un grande vantaggio di Biden nella notte delle elezioni, d’altra parte, potrebbe lasciare Trump senza una plausibile speranza di recuperare. Se questo dovesse accadere, potremmo vederlo in Florida prima che altrove. Ma questo scenario è incredibilmente ottimistico per Biden, considerando il vantaggio del Partito Repubblicano tra coloro che votano di persona, e in ogni caso Trump non ammetterà la sconfitta. All’inizio dell’Interregno, avrà delle opzioni pratiche per mantenere viva la battaglia.

Entrambi i partiti si stanno preparando a una marea di mozioni d’emergenza nei tribunali statali e federali. Per tutto l’anno si sono già verificati scontri da un tribunale all’altro in più di 40 Stati, e il giorno delle elezioni inizierà una fase culminante di battaglie legali.

I voti via posta avranno un sacco di carenze che gli avvocati di Trump dovranno individuare. Votare per posta è più complicato che votare di persona, e gli errori tecnici sono all’ordine del giorno ad ogni passaggio. Se gli elettori forniscono un nuovo indirizzo, o se scrivono una versione diversa del loro nome (per esempio, abbreviando Benjamin in Ben), se la loro firma è cambiata nel corso degli anni, se scrivono il loro nome sulla riga della firma, o se non riescono a sigillare la scheda all’interno di una busta di sicurezza interna, i loro voti potrebbero non contare. Con il voto di persona, un addetto alle votazioni nel distretto elettorale può risolvere piccoli errori come questi, ad esempio indirizzando un elettore sulla riga della firma corretta, ma le persone che votano per posta possono non avere la possibilità di rivolgersi a loro.

Durante le primarie di questa primavera, gli avvocati repubblicani hanno fatto le prove generali per il voto di novembre negli uffici elettorali delle contee di tutto il paese. A giugno, una nota interna preparata da un avvocato di nome J. Matthew Wolfe per il Partito Repubblicano della Pennsylvania ha descritto una di queste prove. Wolfe, insieme a un altro avvocato repubblicano e a un membro della campagna elettorale di Trump, ha seguito da vicino, ma non è intervenuto, mentre i commissari elettorali a Philadelphia votavano i voti via posta e provvisori. Wolfe ha catalogo i difetti riscontrati, prendendo nota delle obiezioni che il suo partito avrebbe potuto sollevare.

Mancavano firme, c’erano firme parziali e firme apposte nel punto sbagliato. C’erano nomi sulle buste di sicurezza interne, che si supponeva non fossero contrassegnate, e schede senza buste di sicurezza. Alcune buste sono arrivate “senza timbro postale o con un timbro postale illeggibile”, scrive Wolfe. Alcuni elettori hanno scritto la loro data di nascita dove c’era da apporre la data della firma, mentre altri hanno scritto “una data impossibile, come una data che cadeva dopo quella delle primarie”.

Alcune delle decisioni dei commissari “erano chiare violazioni delle direttive contenute nel codice elettorale e della sua codifica”, ha scritto Wolfe. Ha raccomandato che “qualcuno collegato al Partito esamini ogni domanda e ogni busta elettorale via posta” a novembre. Questo è esattamente il piano.

I team legali di entrambe le parti stanno pianificando un contenzioso simultaneo, sul modello della Florida durante le elezioni del 2000, in più stati contesi. “Scommetterei su Texas, Georgia e Florida”, mi ha detto Myrna Pérez, direttrice dei diritti di voto e delle elezioni al Brennan Center.

In ogni elezione, ci sono infinite circostanze che gli avvocati possono sfruttare. Nella contea di Montgomery, in Pennsylvania, non lontano dall’esperimento di Wolfe a Philadelphia, durante le primarie il Comitato Repubblicano della contea ha raccolto fotografie in pieno stile “sorveglianza” di presunti avvenimenti sospetti in un’urna elettorale. In una sequenza, un impiegato della contea viene descritto come se avesse messo delle “schede non sicure” nel bagagliaio di un’auto. In un’altra, pare che una guardia di sicurezza “stacchi il generatore che alimenta le telecamere di sicurezza”. Le foto potrebbero significare qualsiasi cosa — è impossibile dirlo, fuori dal contesto — ma sono esattamente il tipo di prova artificiale che sicuramente diventerà virale nei primi giorni dell’Interregno.

La battaglia elettorale non si limiterà alle aule di tribunale. I giudici arbitro delle elezioni locali possono aspettarsi di essere nominati, dossierati e messi alla gogna come agenti di George Soros o antifa. Frotte aggressive di autoproclamatisi “guardiani del voto” non faranno altro che tentare di rimettere in scena la “rivolta dei Brooks Brothers” del riconteggio Bush contro Gore in Florida, quando i manifestanti pagati dalla campagna Bush inscenarono una violenta protesta che impedì fisicamente a chi doveva farlo di completare un riconteggio nella contea di Miami-Dade.

Cose del genere sono già successe, anche se in scala minore rispetto a quella che possiamo aspettarci a novembre. Con Trump, dobbiamo anche chiederci: uno spietato Presidente in carica cosa potrebbe fare che non è mai stato provato prima?

Supponiamo che carovane di sostenitori di Trump, agghindate degli accessori consentiti dal Secondo Emendamento, convergano sui seggi elettorali delle grandi città il giorno delle elezioni. Sono venuti, dicono, per indagare sulle segnalazioni di frodi elettorali apparse sui social media. I contromanifestanti arrivano, scoppiano risse, viene sparato qualche colpo e gli elettori scappano o non riescono a raggiungere i seggi.

Supponiamo allora che il Presidente dichiari l’emergenza. Il personale federale, in assetto di guerra, precedentemente dislocato nelle vicinanze, entrerebbe in azione per ristabilire la legge e l’ordine e assicurare le votazioni. Nel mezzo di scontri in corso, rimarrebbero poi per monitorare la campagna elettorale, chiudendo le strade che portano alle urne, prendendo in custodia le schede non contate per preservare le prove di frode.

“Il Presidente non può annullare le elezioni, ma se dicesse: ‘Siamo in una situazione di emergenza, e stiamo chiudendo questa zona per un certo tempo a causa delle violenze in corso’?”, si chiede Norm Ornstein dell’American Enterprise Institute. Se siete dalla parte di Trump, e siete incuranti dei limiti, ha detto, “quello che mi aspetto è che non farete una o due di queste cose — ne farete quante più possibile”.

Di quest’incubo ci sono alcune varianti. I luoghi di intervento potrebbero essere gli uffici postali. Il pretesto potrebbe essere un presunto rapporto dell’intelligence su schede elettorali falsificate inviate dalla Cina.

Sono solo ipotesi, naturalmente. Ma nessuno di questi scenari è troppo lontano da ciò che il presidente ha già fatto o ha minacciato di fare. Trump ha inviato la Guardia Nazionale a Washington, D.C., e ha inviato le forze del Dipartimento della Sicurezza Nazionale a Portland, Oregon, e a Seattle durante le proteste per la giustizia razziale di quest’estate, con l’esile pretesto di proteggere gli edifici federali. Ha detto che avrebbe potuto invocare l’Insurrection Act del 1807 e “dispiegare l’esercito degli Stati Uniti” nelle “città gestite dai Democratici” per proteggere “la vita e la proprietà”. Il governo federale ha poche basi per intervenire durante le elezioni, che sono in gran parte governate dalla legge statale e amministrate da circa 10.500 giurisdizioni locali, ma nessuno che conosca il punto di vista del procuratore generale Bill Barr sul potere presidenziale dovrebbe dubitare che possa trovare un pretesto per permettere a Trump di esercitare questa autorità.

Ogni giorno che passa dopo il 3 novembre, il Presidente e i suoi alleati possono trasmettere il messaggio che il conteggio legittimo è finito, e che i Democratici si rifiutano di onorarne i risultati. Trump ha già cavalcato questo tema per mesi. A luglio ha twittato: “Dobbiamo sapere i risultati delle elezioni la notte delle elezioni, non giorni, mesi o addirittura anni dopo!”

Ha importanza cosa dice Trump? Si è tentati di paragonare il conteggio dei voti al punteggio di un evento sportivo. L’allenatore perdente può avere il mal di pancia quanto vuole, ma quando l’arbitro decreta il risultato, la partita è finita. Una cosa importante da sapere sull’Interregno è che non c’è un arbitro — nessuna singola autorità che possa decidere l’esito e farla finita. C’è tutta una serie di arbitri minori, ognuno confinato nella sua giurisdizione e aggrovigliato in regole poco chiare.

La strategia di Trump per questa fase dell’Interregno sarà tanto un gioco per guadagnare tempo quanto un tentativo concertato di interrompere il conteggio e squalificare i voti per Biden. Alla fine, i tribunali potrebbero avere un peso. Ma per allora, il centro decisionale potrebbe già essersi spostato altrove.

L’Interregno prevede 35 giorni per il conteggio e le relative cause legali da risolvere. Il 36° giorno, l’8 dicembre, è il giorno di un’importante scadenza.

In questa fase, l’effettivo conteggio del voto diventa meno saliente per l’esito. Sembra impossibile, ma non lo è: i combattenti, in particolare Trump, sposteranno ora la loro attenzione sulla nomina degli elettori presidenziali.

L’8 dicembre è noto come il la scadenza “sicura” (detta “safe harbour”, approdo sicuro, ndt) per la nomina dei 538 uomini e donne che compongono il Collegio Elettorale. Gli elettori si riuniscono solo sei giorni dopo, il 14 dicembre, ma ogni Stato deve nominarli entro la data safe harbor per garantire che il Congresso accetti le loro credenziali. Lo statuto di controllo dice che se resta “qualsiasi controversia o contestazione” oltre quella data, allora il Congresso deciderà quali elettori, se presenti, potranno votare per la presidenza dello Stato.

Siamo abituati a scegliere gli elettori con il voto popolare, ma niente nella Costituzione dice che debba essere così. L’Articolo II prevede che ogni Stato nomini gli elettori “secondo le modalità stabilite dalla sua legislatura”. Dalla fine del XIX secolo, ogni Stato ha lasciato questa decisione ai propri elettori. Nonostante ciò, la Corte Suprema ha affermato, nella causa Bush contro Gore, che uno Stato “può riprendersi il potere di nominare gli elettori”. Da oltre un secolo non viene messo alla prova come e quando uno Stato può farlo.

Trump invece può testarlo. Secondo fonti del Partito repubblicano a livello statale e nazionale, la campagna di Trump sta discutendo piani di emergenza atti ad aggirare i risultati elettorali e nominare elettori leali negli Stati in cui i repubblicani detengono la maggioranza legislativa. Giustificato da rivendicazioni di frode dilagante, Trump chiederebbe ai legislatori statali di mettere da parte il voto popolare ed esercitare il loro potere di scegliere direttamente una lista di elettori. Più a lungo Trump riuscirà a mantenere in dubbio il conteggio dei voti, più i legislatori si sentiranno sotto pressione, spinti ad agire prima della scadenza del termine di sicurezza.

Agli occhi di una moderna sensibilità democratica, scartare il voto popolare a favore di una vincita di parte appare sgradevole quanto un colpo di stato, qualunque sia la giustificazione legale che si vuol trovare. I Repubblicani troverebbero questa posizione abbastanza inquietante da opporre resistenza? Ammetterebbero la sconfitta alle elezioni prima di ricorrere a un simile stratagemma? La base elettorale di Trump esigerebbe un prezzo elevato per quel tradimento, e a questo punto i funzionari del partito verrebbero travolti dalle accuse di frode.

Il consulente legale della campagna elettorale di Trump con cui ho parlato mi ha detto che la spinta a nominare gli elettori verrebbe inquadrata in termini di protezione della volontà popolare. Una volta presa la posizione che il conteggio dei voti overtime è stato truccato, dice il consigliere, i legislatori statali vorranno giudicare da soli ciò che gli elettori intendevano fare.

“I legislatori statali diranno: ‘Va bene, ci è stato dato questo potere costituzionale. Non pensiamo che i risultati del nostro Stato siano accurati, quindi ecco la lista di elettori che noi riteniamo rifletta i risultati del nostro Stato in modo corretto’”, il consigliere ha spiegato. Sono i Democratici, ha aggiunto, ad essersi esposti all’utilizzo di questo stratagemma creando le condizioni per un lungo conteggio dei voti overtime.

“Se si è dell’idea che le schede possano arrivare per non so quanti giorni — in alcuni Stati una settimana, 10 giorni — allora l’assalto delle schede viene continuamente respinto,” il consigliere ha aggiunto. “Quindi, scegliete il vostro veleno. È peggio avere elettori nominati dai legislatori o ricevere i voti entro il giorno delle elezioni?”.

Quando The Atlantic ha fatto domande alla campagna di Trump sui piani per aggirare il voto e nominare gli elettori fedeli, e sulle altre strategie discusse in questo articolo, il vice segretario nazionale della stampa non ha risposto direttamente. “È oltraggioso che il presidente Trump e la sua squadra siano stati maltrattati per aver sostenuto lo stato di diritto e per aver combattuto in modo trasparente per un’elezione libera ed equa”, ha detto Thea McDonald in una e-mail. “I media mainstream stanno dando ai Democratici un lasciapassare gratuito per i loro tentativi di sradicare completamente il sistema e gettare le elezioni nel caos”. “Trump sta lottando per un’elezione di cui ci si possa fidare”, ha scritto, “e qualsiasi teoria diversa è una teoria cospirazionista volta a confondere le acque”.

In Pennsylvania, tre leader repubblicani mi hanno detto di aver già discusso tra di loro la nomina diretta degli elettori, e uno ha detto di averne discusso con la campagna elettorale nazionale di Trump.

“Gliel’ho accennato, e spero che anche loro ci stiano riflettendo sopra”, mi ha detto Lawrence Tabas, presidente del Partito Repubblicano della Pennsylvania. “Non credo che questo sia il momento giusto per discutere di queste strategie e approcci, ma [la nomina diretta degli elettori] è una delle opzioni. È una delle opzioni legali disponibili previste dalla Costituzione”. Ha aggiunto che tutti preferirebbero ottenere un conteggio rapido e preciso. “Se il processo, però, è imperfetto, e ha difetti significativi, il nostro pubblico potrebbe perdere fiducia” nella validità delle elezioni.

Jake Corman, il leader della maggioranza del Senato, ha preferito cambiare argomento, sottolineando che spera che un spoglio preciso dei voti possa produrre un conteggio finale nella notte delle elezioni. “Più si va avanti, più opinioni e più teorie e più cospirazioni si creano”, mi ha detto. Se le controversie persistessero con l’approssimarsi della data safe harbor, ha ammesso, i legislatori non avranno altra scelta che nominare gli elettori. “Non vogliamo percorrere questa strada, ma sappiamo dove ci porta la legge e la seguiremo”.

I Repubblicani controllano entrambe le camere legislative nei sei stati più combattuti. Tra questi, l’Arizona e la Florida hanno anche governatori repubblicani. In Michigan, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin, i governatori sono invece democratici.

Foley, lo studioso delle elezioni dello Stato dell’Ohio, ha mappato gli effetti a catena che si produrrebbero se i legislatori repubblicani nominassero elettori favorevoli a Trump in spregio al voto in Stati come la Pennsylvania e il Michigan. I governatori Democratici risponderebbero certificando il conteggio ufficiale, un esercizio di routine della loro autorità, e sosterrebbero che i legislatori non potevano legittimamente scegliere elettori diversi dopo che la votazione aveva avuto luogo. I loro “certificati di ratifica”, inviati agli Archivi Nazionali, direbbero che i loro Stati hanno nominato elettori in favore di Biden. Ogni gruppo di elettori in competizione avrebbe l’imprimatur di un ramo diverso del governo statale.

In Arizona, il Segretario di Stato Katie Hobbs, che sovrintende alle elezioni, è una Democratica. Potrebbe esercitare il potere di certificare i risultati del voto, e inoltrare una lista di elettori favorevoli a Biden. Anche in Florida, totalmente governata dai Repubblicani, gli elettori favorevoli a Biden potrebbero riunirsi e certificare i loro voti, nella speranza di scatenare una “controversia o competizione”, che lascerebbe l’esito del loro Stato nelle mani del Congresso. Quasi accadde la stessa cosa durante la battaglia per il riconteggio del 2000 in Florida. Il Governatore repubblicano Jeb Bush certificò gli elettori per suo fratello, George W. Bush, il 26 novembre, mentre il contenzioso sul riconteggio era ancora in corso. L’avvocato capo di Gore, Ronald Klain, rispose prenotando una stanza nel vecchio edificio del campidoglio della Florida per gli elettori Democratici per votare per Gore. Solo il fatto che Gore ammise la sconfitta, cinque giorni prima del voto del Collegio Elettorale, fermò questo piano.

In uno qualsiasi di questi scenari, il Collegio Elettorale si riunirebbe il 14 dicembre senza un consenso su chi possa legittimamente avere la pretesa di esprimere i voti decisivi.

Le liste rivali degli elettori potrebbero tenere riunioni speculari a Harrisburg, Lansing, Tallahassee, o Phoenix, e dare gli stessi voti elettorali ai fronti opposti. Ogni lista trasmetterebbe le proprie schede, come prevede la Costituzione, “al seggio del Governo degli Stati Uniti, diretto al Presidente del Senato”. La mossa successiva spetterebbe quindi al Vicepresidente Mike Pence.

Sarebbe una vera e propria crisi costituzionale, la prima, ma non l’ultima, dell’Interregno. “Dopodiché, verremmo catapultati in un mondo dove tutto è possibile”, dice Norm Ornstein.

Due uomini rivendicano la Presidenza. La prossima occasione per risolvere la questione è a più di tre settimane di distanza.

Il 6 gennaio arriva subito dopo il giuramento del nuovo Congresso. Il controllo del Senato sarà ora cruciale per la presidenza.

Pence, in qualità di presidente del Senato, avrebbe tra le mani due certificati elettorali contrastanti da ciascuno dei diversi swing State. Su quello che potrebbe succedere dopo, il XII Emendamento dice solo questo: “Il Presidente del Senato, alla presenza del Senato e della Camera dei Rappresentanti, aprirà tutti i certificati e i voti saranno poi contati”.

Si noti il passivo. Chi fa il conteggio? Quali certificati vengono contati?

Il team di Trump sosterrebbe la posizione che la formula costituzionale lascia queste questioni al Vicepresidente. Ciò significa che Pence ha il potere unilaterale di annunciare la propria rielezione, e un secondo mandato per Trump. I Democratici e gli studiosi di diritto denuncerebbero l’autoproclamazione, e sottolineerebbero che il Congresso ha colmato le lacune del XII Emendamento con l’Electoral Count Act (Legge sul Conteggio Elettorale), che fornisce istruzioni su come risolvere questo tipo di controversie. Il problema delle istruzioni è che sono ampiamente considerate, secondo le parole di Foley, “contorte e impenetrabili”, “confuse e brutte” e “uno dei pezzi di linguaggio statutario più strani mai emanati dal Congresso”.

Se l’Interregnum è un concorso alla ricerca di un arbitro, ora ne avrebbe 535, e un manuale che nessuno è sicuro di saper leggere. Oltretutto, il Presidente sarebbe uno dei giocatori in campo.

Foley ha prodotto uno studio di 25.000 parole, pubblicato sul Loyola University Chicago Law Journal, che delinea i percorsi che la lotta potrebbe intraprendere se solo i voti elettorali di uno Stato fossero in gioco.

Se i Democratici riconquisteranno il Senato e manterranno la Camera, alla fine tutte le strade tracciate dalla legge sul conteggio elettorale porteranno alla presidenza di Biden. Se i Repubblicani manterranno il Senato e inaspettatamente riconquisteranno la Camera, varrà il contrario. Ma se il Congresso rimanesse diviso, ci sono condizioni in cui non è possibile un risultato decisivo — nessun risultato che abbia una chiara forza di legge. Ogni partito potrebbe citare una lettura plausibile delle regole in cui il suo candidato ha vinto. Non esiste un voto di parità.

Com’è possibile che il Congresso scivoli in una situazione di stallo indissolubile? La legge è un labirinto in questo frangente, troppo intricato per poterlo mappare in un articolo di rivista, ma posso tracciare un percorso.

Supponiamo che solo la Pennsylvania invii liste di elettori rivali, e che i loro 20 voti decidano la presidenza.

Una lettura dell’Electoral Count Act dice che il Congresso deve riconoscere gli elettori certificati dal Governatore, che è un democratico, a meno che la Camera e il Senato non concordino diversamente. La Camera non sarà d’accordo, e così Biden vince la Pennsylvania e la Casa Bianca. Ma Pence batte il martelletto e si pronuncia contro questa lettura della legge, favorendo invece un’altra, che ritiene che il Congresso debba scartare entrambe le liste elettorali contestate. Lo statuto, confuso, può essere plausibilmente letto in entrambi i sensi.

Con gli elettori della Pennsylvania squalificati, rimangono 518 voti elettorali. Se fra di loro Biden detiene un vantaggio limitato, rivendica di nuovo la Presidenza, perché ha “il maggior numero di voti”, come prescrive il XII Emendamento. Ma i Repubblicani sottolineano che lo stesso Emendamento richiede “la maggioranza dell’intero numero di elettori”. L’intero numero di elettori, Pence decreta, è di 538, e Biden non ha i 270 voti richiesti.

Data la controversia, nessuno ha ottenuto la Presidenza, e la decisione viene trasferita all’Assemblea, con un voto per Stato. Se l’attuale equilibrio fra i partiti rimane valido, 26 voti su 50 saranno a favore di Trump.

Prima che Pence possa passare dalla Pennsylvania al Rhode Island, che è il successivo Stato in ordine alfabetico, mentre il Congresso conta il voto, la Speaker della Camera Nancy Pelosi espelle tutti i Senatori dalla sua Camera. Ora a Pence è impedito di completare il conteggio “in presenza” della Camera, come richiede la Costituzione. Pelosi annuncia l’intenzione di temporeggiare a tempo indeterminato. Se il conteggio sarà ancora incompleto il giorno dell’inaugurazione, la Speaker stessa diventerà presidente ad interim.

Pelosi si prepara a prestare giuramento il 20 gennaio, a meno che Pence non revochi la sua decisione e accetti la vittoria di Biden. Pence non si smuove. Riunisce il Senato in un’altra sede, con i Repubblicani della Camera, e pretende di completare il conteggio, facendo di Trump il Presidente Eletto. Tre persone possono ora rivendicare in modo sostenibile l’Ufficio Ovale.

Ci sono altre strade in questo labirinto. Molte portano a vicoli ciechi.

Questa è la prossima crisi costituzionale, più grave di quella di tre settimane prima, perché la legge e la Costituzione non prevedono altre autorità da consultare. La Corte Suprema può ancora intervenire, ma può anche rifuggire da un altro traumatico incontro con una questione fondamentalmente politica.

Sono passati sessantaquattro giorni dalle elezioni. Regna lo stallo. Mancano due settimane all’Inauguration Day (giorno del giuramento del nuovo Presidente, ndt).

Foley, che ha previsto questa impasse, non conosce soluzioni. Non può dirvi come evitarlo secondo la legge attuale, né come andrà a finire. Non è tanto, a questo punto, una questione di legge. È una questione di potere. Trump è in possesso della Casa Bianca. Fino a che punto si spingerà per mantenerla, e chi lo frenerà? È la stessa domanda che il Presidente si è posto dal giorno in cui è entrato in carica.

Speravo di ottenere qualche informazione da una serie di simulazioni condotte quest’estate da un gruppo di ex funzionari eletti, accademici, strateghi politici e avvocati. In quattro giorni di simulazioni, il Transition Integrity Project ha modellizzato l’elezione e le sue conseguenze, nel tentativo di trovare punti cardine nei quali le cose potessero andare a rotoli.

Ne hanno trovati un sacco. Alcuni degli scenari includevano liste di elettori in competizione come quelle che ho descritto. In una versione, è stato il Governatore democratico del Michigan a ricorrere per primo alla nomina degli elettori, dopo che Trump ha ordinato alla Guardia Nazionale di fermare il conteggio dei voti e un membro della Guardia Nazionale amico di Trump ha distrutto le schede elettorali. John Podesta, Presidente della campagna elettorale di Hillary Clinton nel 2016, ha guidato una squadra di Biden in un altro scenario, preparato a seguire Trump fino all’orlo della guerra civile, incoraggiando tre stati Democratici a minacciare la secessione. Infrangere le regole genera infrazione delle regole. (La stessa Clinton, in un’intervista fatta ad agosto per The Circus di Showtime, ha colto lo stesso spirito. “Joe Biden non deve riconoscere la sconfitta per nessun motivo”, ha detto).

Se sei un elettore, considera l’idea di andare a votare di persona. Se siete a basso rischio di COVID-19, offritevi volontari per lavorare ai seggi.

Sul procedimento è stato scritto molto, compreso un resoconto in prima persona del mio collega David Frum. Ma la copertura aveva una lacuna sconcertante. Nessuna delle storie ha spiegato appieno come si è conclusa la battaglia. Volevo sapere chi ha prestato giuramento.

Ho chiamato Rosa Brooks, professoressa di Georgetown che ha co-fondato il progetto. In modo inquietante, non aveva risposte da darmi. Non sapeva com’era andata a finire la storia. Nella metà delle simulazioni, i partecipanti non sono arrivati fino al giorno del giuramento.

“Siamo arrivati a momenti in cui c’era un’impasse costituzionale, nessun chiaro mezzo di risoluzione in vista, violenza per le strade”, ha detto. “Penso che in uno di essi avessimo previsto Trump che invocava l’Insurrection Act, con le truppe schierate in strada…Erano passate cinque ore e abbiamo detto: ‘Ok, abbiamo finito’.” Ha aggiunto: “Una volta che le cose erano chiaramente fuori controllo, non vi era alcun particolare beneficio nel vedere di preciso fin dove si sarebbero spinte.”

“Il nostro obiettivo era quello di cercare di individuare i momenti di intervento, di individuare i momenti in cui avremmo potuto guardarci indietro e dire: ‘Cosa avrebbe cambiato tutto questo? Cosa avrebbe impedito che le cose andassero così male?’,” mi ha detto la professoressa Brooks. Il progetto non ha fatto molti progressi. Non sono state imparate lezioni su come trattenere un Presidente che non rispetta la legge, a conflitto in corso, né sono state escogitate mosse alternative per evitare il disastro. “Suppongo che si possa dire che eravamo su un terreno sconosciuto: nessuno poteva più prevedere cosa sarebbe successo”, mi ha detto Brooks in una successiva e-mail.

Il sistema politico potrebbe non essere più abbastanza forte da preservare la sua integrità. È un errore dare per scontato che le commissioni elettorali, le legislature statali e il Congresso siano in grado di tracciare delle linee di demarcazione che garantiscano un voto legittimo e un ordinato trasferimento di potere. Potremmo dover trovare il modo di tracciare noi stessi quelle linee.

Ci sono riforme che un giorno dovremo prendere in considerazione, quando non ci saranno elezioni alle porte. Piccole, come il ripulire la Legge sul Conteggio Elettorale dalle parti oscure. Grandi, come l’eliminazione del Collegio Elettorale. Ovvie, come la confisca di denaro per aiutare le autorità elettorali bisognose di fondi a migliorare le loro operazioni, al fine di accelerare e garantire il conteggio dei voti nel giorno delle elezioni.

Al momento, il meglio che possiamo fare è una difesa ad hoc della democrazia. Cominciate rifiutando la tentazione di pensare che queste elezioni procederanno come al solito. È probabile che succeda qualcosa che è parecchio fuori dalla norma. Probabilmente più di una cosa. Aspettarsi qualcosa di diverso ci annebbierà i riflessi. Ci cullerà nella speranza fasulla che Trump sia gestibile da forze che vincolano i normali Presidenti in carica.

Se sei un elettore, considera l’idea di andare a votare di persona. Alle primarie di quest’anno sono stati respinti più di mezzo milione di voti via posta, anche senza che Trump cercasse di sopprimerli. Se siete a rischio relativamente basso di contrarre il COVID-19, offritevi volontari per lavorare alle urne. Se conoscete persone aperte alla ragione, fate loro sapere che è normale che i risultati continuino a cambiare dopo la notte delle elezioni. Se gestite la copertura delle notizie, prevedete che verranno prese misure extra-costituzionali, e posizionate giornalisti e squadre per rispondere. Se sei un amministratore elettorale, pianifica piani di contingenza che non hai mai dovuto immaginare prima. Se sei un Sindaco, pensa a come impiegare le tue forze di polizia per allontanare gli intrusi con cattive intenzioni. Se sei un ufficiale delle forze dell’ordine, proteggi la libertà di voto. Se sei un legislatore, scegli di non partecipare a truffe. Se sei un giudice in uno swing state, aggiorna la tua conoscenza della giurisprudenza elettorale. Se hai un posto nella catena di comando militare, ricorda il tuo dovere di rifiutare gli ordini illegali. Se sei un funzionario pubblico, sappi che il tuo Paese ha più che mai bisogno che tu faccia la cosa giusta quando ti viene chiesto di fare altrimenti.

Impegnati. Un’elezione non può essere rubata se il popolo americano, a un certo livello, non acconsente. Una cosa a cui la professoressa Brooks ha pensato da quando la sua esercitazione è terminata è il potere di protestare pacificamente su grande scala. “Avevamo giocatori da entrambe le parti che cercavano di mobilitare i loro sostenitori per far sì che si presentassero in gran numero, e non avevamo un buon meccanismo per decidere, questo ha fatto la differenza? Che tipo di differenza ha fatto?” ha detto. “Ha lasciato alcuni con grandi domande su cosa sarebbe successo se la protesta di massa in stile ‘rivoluzione arancione’ ( il movimento di protesta sorto in Ucraina all’indomani delle elezioni presidenziali del 21 novembre 2004, parte del più ampio fenomeno delle rivoluzioni colorate, ndt) fosse stata sostenuta per settimane. Che effetti avrebbe avuto?”

Solo una volta, nel 1877, l’Interregno portò il Paese sull’orlo del vero collasso. Quell’episodio non rappresenta più un modello per noi.

Quattro Stati inviarono liste di elettori rivali al Congresso nella corsa presidenziale del 1876 tra il democratico Samuel Tilden e il repubblicano Rutherford B. Hayes. Quando un tribunale speciale approvò gli elettori per Hayes, i Democratici iniziarono manovre parlamentari per ostacolare il conteggio elettorale al Congresso. Il loro piano era quello di far passare il tempo fino al giorno del giuramento, quando il Repubblicano in carica, Ulysses S. Grant, avrebbe dovuto dimettersi.

Tilden ha ammesso la sconfitta solo due giorni prima della scadenza della presidenza di Grant. La sua ammissione era basata su un accordo ripugnante per il ritiro delle truppe federali dal Sud, dove stavano proteggendo i diritti dei neri emancipati. Ma questo non fu l’unico incentivo per Tilden.

C’era nell’aria la minaccia di utilizzare la forza militare. Grant fece sapere di essere pronto a dichiarare la legge marziale a New York, dove si diceva che Tilden avesse intenzione di prestare giuramento, e di sostenere il giuramento di Hayes con truppe in uniforme.

Questo è un precedente inquietante per il 2021. Se le nostre istituzioni politiche non riusciranno a produrre un presidente legittimo, e se Trump manterrà la situazione di stallo fino al nuovo anno, il candidato del caos e il Commander-In-Chief (comandante in capo delle forze armate, ndt) saranno la stessa persona.

Questo articolo appare nell’edizione cartacea del The Atlantic di novembre 2020 con il titolo “The Election That Could Break America” (L’elezione che potrebbe spaccare l’America).

di Barton Gellman (https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2020/11/what-if-trump-refuses-concede/616424/)

Traduzione di Marion Sarah Tuggey

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