I Ristoranti turistici sono destinati ad estinguersi come i Dinosauri?

The Truffle Shuffle
4 min readAug 3, 2020

Si può dire che il Ristorante turistico sta a Roma come il Prosciutto sta al Melone.

L’affluenza di turisti durante tutto l’anno ha da sempre offerto un sacco di possibilità a chi, senza arte né parte, voleva investire nel business della ristorazione.

Durante l’università ho cominciato a lavorare come cameriera e, fino al momento in cui ho realizzato di voler fare il sommelier dedicandomi alla ristorazione in modo serio, è stato tutto un’entra-ed-esci da ristoranti turistici. La cosa buffa è che ogni tanto mi capita ancora: ci sono tante attività che si presentano come professionali e poi si rivelano essere affette da una triste mentalità turistica. Ma ormai lo capisco dopo poco e gentilmente declino l’offerta: not my cup of tea.

Eppure il primo ristorante in cui abbia mai lavorato in vita mia era un ristorante turistico, sebbene un po’ sui generis.

Si trovava vicino a una grande attrazione grazie alla quale godeva di una certa fortuna: trattasi di un’opera scultorea da cui zampilla acqua e in cui si va per lanciare una monetina. La conseguenza non sottostimabile era che chi stabiliva un legame con il luogo, attraverso il gesto magico, se tornava a Roma ritornava a mangiare proprio lì. E non aveva tutti i torti perché — e questa era la cosa veramente sorprendente — lì si mangiava bene.

Era un cocktail di elementi apparentemente inconciliabili: begli interni accoglienti e ben progettati, foto alle pareti che ritraevano il Colosseo, San Pietro e altri simboli della Capitale, materie prime bio, birre artigianali e coca-cola alla spina (servita in bicchieri pieni di ghiaccio da 330ml a 5,5 euro), cucina interamente bangla, sala interamente albanese, ritmi concitati dalle 10 di mattina alle 2 di notte. Poi la zona si riempiva del popolo della notte: ubriachi, barboni-ubriachi, prostitute e gente strana.

Ma, sebbene offrisse una cucina dignitosa, c’era qualcosa in quel ristorante che mi imponeva di etichettarlo come turistico.

La pizza Oceano.

Base rossa coi frutti di mare.

Un cliente americano una volta insistette per avere la Oceano con topping di mozzarella. Cercai di spiegargli che non era tanto per una questione di principio quanto era lo strato di mozzarella, che avrebbe coperto i gusci scheggiati delle cozze e delle vongole, a rischiare di trasformare il tutto in un boccone letale.

Però, se ci penso ora, turistico (nel senso di non professionale) era anche il modo di trattare lo staff.

Nonostante fosse assunto dalla solita cooperativa fasulla e per giunta part-time (quando in realtà si lavorava almeno una cinquantina d’ore a settimana), lo staff si impegnava in maniera ammirevole. Certo nessuno aveva mai ricevuto formazione né era stimolato a farlo, viste le possibilità di crescita inesistenti, con il risultato che il servizio era rimasto a 40 anni fa. Ma lavorare lì per una studentessa era tutto sommato divertente. Ogni tanto qualcuno cacciava qualche perla di saggezza come: “Pe’ fa il cameriere bisogna sapè ‘ndo stanno le cose”, oppure — quando si aveva a che fare con gruppi numerosi che la fame rendeva indocili un egualmente pragmatico- : “Appena se siedono, dateje er pane!”

E tutti sebbene fossero in grado di esprimersi in dialetto romano si tradivano con risultati esilaranti per la caratteristica R albanese.

Turistico era ribadire l’attenzione sulle materie prime e al tempo stesso mischiare vino bianco e rosso per fare il rosato. Turistico sarebbe stato l’acchiappino — che grazie al cielo non avevamo — però al suo posto c’era quella bieca mentalità per cui la ristorazione non poteva essere altro che il soddisfacimento veloce di un bisogno primario del tipo:

“Sono due ore che camminiamo sotto il sole, mamma! Ho fame!”

“Ok, appena arriviamo alla fontana ci fermiamo a mangiare nel primo ristorante che non sembra una trappola per turisti”.

In effetti era un punto di ristoro più che un ristorante, più simile ad un autogrill di successo.

Il Covid è stato una catastrofe per questo tipo di ristorazione ed ora la parte divertente è vederli come pesci fuor d’acqua. Un locale turistico non può funzionare senza turisti.

C’è chi spera nel loro ritorno come in quello di un messia con sandali e calzini e si ostina a mantenenere con tutti i crismi la sua routine precedente, c’è chi ha capito che per sopravvivere nell’immediato si deve de-turistificare, ossia deve guadagnare una clientela locale. La cosa divertente è che molti pensano di riuscire a farlo senza cambiare quasi niente del loro atteggiamento nei confronti dell’accoglienza e del servizio. Pensano che basti fare qualche proclama tramite comunicato stampa e cambiare qualcosa sul menù, togliendo le fettuccine Alfredo.

Quello che penso è che non è mica così facile. Non è una cosa da prendere alla leggera.

In teoria per cambiare testa non basta un taglio di capelli, deve cambiare qualcosa all’interno: una mentalità dell’accoglienza, una volontà di essere professionali in quel che si fa, nel rapporto con i clienti e con il proprio staff. E se sei abituato a non esserlo, come fai a impararlo tutto di botto?

I ristoranti turistici sono destinati ad estinguersi come i dinosauri?

Non lo so. Quello che so è che come sempre la situazione avrà un lato tragico ma anche uno divertente come le maschere tristi e felici della commedia dell’arte, d’altronde, chi lavora nei ristoranti ha sempre amato definire la sala un palcoscenico. E non appena si farà buio prenderò posto in prima fila e mi godrò lo spettacolo.

Come i popcorn alcune cose hanno bisogno di esplodere affinché possiamo capire che non erano commestibili.

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The Truffle Shuffle

Writes wine and drinks stuff, not necessarily in that order.