Contributo di solidarietà dell’1%. Ecco l’alternativa al MES: 120 miliardi in 3 anni

Giuseppe D'Elia
12 min readNov 6, 2020

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Con un sacrificio minimo, pari all’1% annuo sulle sole ricchezze mobiliari, ci sarebbero oltre 40 miliardi di fondi extra da impiegare per le politiche sociali. 120 miliardi, se si varasse un programma su base triennale. Una somma molto più sostanziosa di quella del noto fondo europeo e che non ha nessuna seria controindicazione. Parliamone

https://www.istat.it/it/files//2019/05/Nota_Ricchezza_2005_2017.pdf

Ormai è chiaro che l’emergenza pandemica tuttora in atto potrebbe rendere necessario un secondo lockdown generalizzato che, parafrasando il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, va senz’altro scongiurato poichédanneggerebbe in misura ancora maggiore l’economia del Paese.

Per quanto possano essere state sincere le parole pronunciate del primo ministro nel Question Time alla Camera del 28 ottobre scorso, il rischio concreto è che siano tardive: che una nuova stagione di confinamento — più o meno lunga, a seconda delle evenienze — sia cioè di fatto già inevitabile, visto il livello di saturazione delle terapie intensive in continua crescita e la gradazione delle restrizioni in progressivo incremento.

Il lockdown dev’essere però un mezzo e non un fine. E proprio perché il fine ultimo del confinamento è la tutela della salute pubblica, non bisogna mai dimenticare che la salute di ciascun individuo dipende anche dal suo equilibrio psico-fisico. Ragione per la quale i provvedimenti di lockdown oltre che eccezionali devono essere tarati per durare il minimo indispensabile e, soprattutto, devono essere accompagnati da adeguate politiche pubbliche assistenziali che mettano al sicuro le persone quantomeno dalle incertezze di natura economica e lavorativa.

Ed è su questo secondo punto che dobbiamo soffermarci maggiormente, partendo dalle proteste che ci sono state in Italia a seguito delle prime parziali chiusure: “manifestazioni che hanno determinato momenti di tensione, sfociando in aggressioni e atti vandalici riconducibili spesso a gruppi antagonisti di destra e di sinistra, a esponenti delle tifoserie ultras e a elementi della criminalità, per le quali non sono emersi evidenti elementi su una regia unica”, stando alle determinazioni del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Chi non comprende le ragioni socio-economiche di queste proteste — “Tu ci chiudi, tu ci paghi”, lo slogan autoesplicativo — o è in malafede o ignora del tutto l’entità concreta del danno macroeconomico che è già stato fatto e che bisognerebbe assolutamente evitare o quantomeno minimizzare, se proprio non è più scongiurabile il ricorso a un nuovo lockdown (o a misure comunque analoghe).

L’ISTAT ha diffuso recentemente le stime del parziale recupero del PIL che c’è stato durante l’estate e, per quanto incoraggianti, come è evidente (sia in Fig. 1 che in Fig. 2), resta ancora il netto trend decrescente in atto su base annua: trend di decrescita che, naturalmente, si aggraverebbe ancor di più con un nuovo periodo di confinamento, più o meno esteso, soprattutto se questo dovesse avere una durata che sostanzialmente finirebbe col coincidere con l’intera stagione fredda (o quasi).

https://www.istat.it/it/files//2020/10/stima-PIL-2020q3.pdf

Il re è nudo, insomma, come nella fiaba di Andersen. E ora tocca capire se il finale della storia sarà diverso oppure no. Tocca capire, cioè, se la parata continuerà come se nulla fosse, oppure se c’è un potere politico democratico in grado di prendere atto del dramma epocale che stiamo vivendo, per affrontarlo e (cercare di) risolverlo, facendo ricorso pertanto a strumenti che non possono più essere quelli soliti degli ultimi decenni.

Lo Stato italiano deve stanziare un piano economico emergenziale di vasto respiro e individuare subito le risorse aggiuntive necessarie per finanziarlo.

I fondi ci sono, non c’è più tempo per la falsa coscienza: l’Italia è e resta uno dei Paesi più ricchi del mondo. La ricchezza privata netta complessiva delle famiglie italiane è più del quadruplo del debito pubblico.

Nel grafico pubblicato in apertura — elaborato sulla base dei dati ISTAT aggiornati al 2017 — abbiamo escluso dal computo la consistente quota che, notoriamente, è in larga misura ricchezza immobiliare e abbiamo evidenziato come, anche considerando la sola ricchezza “liquida” (azioni, titoli, biglietti e depositi, etc.), i fondi a cui attingere, per varare un programma economico straordinario di emergenza sociale, ci sono. E sono anche ingenti.

La quota di ricchezza mobiliare delle famiglie italiane, in costante crescita a partire dal 2011, nonostante la grave crisi economica di quegli anni, nel 2017 ha raggiunto (e superato) la cifra di 4.374 miliardi.

Considerando che il dato medio lordo della ricchezza mobiliare oscilla intorno ai 4.000 miliardi, con un sacrificio minimo, un contributo di solidarietà dell’1% su base annua, sarebbero pertanto disponibili 40 miliardi subito e un totale di 120 miliardi, in prospettiva, se si decidesse di varare un programma triennale di politiche sociali e assistenziali da attuare da qui alla fine della Legislatura.

Contributo di solidarietà dell’1% su base annua e non patrimoniale perché le parole sono importanti e il momento storico è particolarmente delicato: è di vitale importanza cioè che si riesca a creare un ampio consenso su questa modesta proposta, prima di passare alla fase concreta della sua attuazione.

Non si tratta di una spesa aggiuntiva che andrà a gravare sui tanti proprietari di immobili che possiedono solo la casa in cui vivono e avrebbero anche difficoltà a far fronte a una spesa del genere, in questo momento. Non si tratta di un mero prelievo forzoso sui conti correnti, da attuare in fretta e furia come accadde nel 1992 sotto il Governo Amato. Né si tratta della leggendaria patrimoniale sopra il milione di euro di cui periodicamente si torna a parlare, da sinistra, senza mai ottenere nulla di concreto.

Si tratta invece di un contributo solidaristico minimale che, sul piano quantitativo, si fonda sullo stesso principio per cui questa emergenza pandemica ci impone periodicamente di limitare al massimo la circolazione delle persone con provvedimenti di lockdown: così come un tasso di letalità effettivo (IFR) stimato su scala globale all’incirca nell’1% (0,68%, con intervallo di confidenza 0,53–0,82%) può produrre, su una massa molto consistente, un numero di morti comunque impressionante (tra i 300mila e i 500mila morti, se si proietta la percentuale di IFR sulla popolazione italiana), allo stesso modo, mutatis mutandis, un contributo di solidarietà dell’1%, su una massa di ricchezza ingente, può garantire risorse aggiuntive adeguate e immediatamente disponibili per le politiche pubbliche di sostegno sociale ed emergenziale.

Il carattere solidaristico di questa misura, chiaramente, non occulta le finalità di giustizia sociale in chiave tendenzialmente redistribuiva che ad essa si riconnettono.

Ed è questo il nodo più delicato da sciogliere, se si vuole realmente creare un consenso diffuso su questa iniziativa e, conseguentemente, una forte riprovazione sociale verso chi dovesse decidere di opporsi e tentare quindi di sottrarsi a questo sacrificio minimo, necessario per il bene comune.

Nel rapporto AIPB-CENSIS “Gli italiani e la ricchezza — Affidarsi al futuro, ripartire dalle infrastrutture” del 22 ottobre 2019 emerge con chiarezza che la prospettiva di finanziare la spesa sociale, attingendo alla ricchezza liquida delle famiglie italiane, ha una platea di persone favorevoli che è minoritaria ma comunque solida: se quasi un italiano su quattro (24,3%) è propenso a finanziare la spesa pubblica per un welfare di qualità con una tassa ad hoc sulla ricchezza mobiliare, la percentuale di favorevoli all’incremento della spesa sociale e assistenziale cresce moltissimo (42,6%) qualora gli interventi previsti fossero finanziati con strumenti e titoli di debito pubblico espressamente dedicati.

https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/II%20RAPPORTO%20AIPB-CENSIS.pdf

La particolarità del momento storico che stiamo vivendo, con una adeguata campagna di sensibilizzazione, potrebbe allargare di molto la platea del consenso, ma occorre intendersi bene sulla portata complessiva del problema e su quanto siano inadeguati (se non addirittura dannosi) gli strumenti fin qui messi in campo dall’Europa per una gestione comunitaria dell’emergenza pandemica e della crisi economica che da questa deriva.

I famigerati 36 miliardi del MES potrebbero essere immediatamente disponibili ma sono un prestito una tantum, da restituire a un ente creditore privilegiato, con i meccanismi della cosiddetta sorveglianza rafforzata che risulterebbero “sospesi” sulla scorta di una semplice missiva, del cui valore giuridico, in termini di prevalenza del trattato istitutivo, è quantomeno lecito dubitare.

In ogni caso, i fondi MES sono utilizzabili solo ed esclusivamente per la spesa sanitaria e nessuno Stato europeo vi ha ancora fatto ricorso, con il che si dovrebbe facilmente comprendere il senso di alcune recenti dichiarazioni del Presidente del Consiglio: I soldi necessari alla sanità possiamo trovarli anche diversamente. Il Mes è un debito. Se ne avremo bisogno, vuol dire che aumenteremo il deficit, ha affermato infatti Conte, ricordando peraltro come persino il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco non può negare il fatto che “visto che nessuno prende il Mes, ci sarebbe uno stigma per chi lo chiede”.

L’altra linea di credito europea, il c.d. Recovery Fund, nell’ambito del programma Next Generatuion EU, ha il vantaggio di prevedere, in linea di principio, anche delle elargizioni a fondo perduto e tuttavia la prima quota effettivamente disponibile ammonterebbe in tutto a 10 miliardi e sarebbe utilizzabile nella primavera del 2021; se si accede anche alla quota di prestito agevolato, il ministro Gentiloni ci ricorda che la quota della prima tranche potrebbe anche arrivare a 20 miliardi.

È appena il caso di ricordare che dei complessivi 208 miliardi che il Recovery Fund metterebbe a disposizione per l’Italia, la quota maggiore è quella dei prestiti (127 miliardi di euro, i prestiti; 81 miliardi, i trasferimenti a fondo perduto), per i quali vale sempre lo stesso discorso, con particolare riferimento alla questione della sorveglianza rafforzata e del vincolo esterno in cui questa si può tradurre, nelle concrete scelte di spesa.

Inoltre, per il MES l’Italia ha già versato 14,3 miliardi all’atto della costituzione del fondo, così come altri 43,5 miliardi erano stati precedentemente versati nel Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF), quindi nel computo complessivo del dare e avere vanno calcolati anche questi contributi versati in anticipo prima dell’eventuale “prestito” (e va da sé che se la somma che si preleva, alla fine, è complessivamente inferiore o giusto leggermente superiore a quanto versato si tratta di un meccanismo “assistenziale” davvero singolare).

La logica complessiva dei fondi europei, in definitiva, è sempre quella dei prestiti: anche il SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency), la c.d. Cassa Integrazione europea, in sostanza è un meccanismo di prestito “agevolato”.

Le somme disponibili “a fondo perduto” sono veramente esigue, soprattutto, se si considera che vanno comunque spalmate su più anni: 81 miliardi tra il 2021 e il 2026 significa che l’effettiva e concreta dotazione di spesa, su base annua, oscilla tra i 10 e 15 miliardi.

Certamente l’Europa avrebbe potuto fare molto di più — operando tramite la BCE si sarebbe potuto finanziare un reddito di base comunitario, per esempio — ma nelle condizioni date, la politica italiana non può continuare ad affrontare questa emergenza pandemica confidando nel fatto che le chiusure, già nuovamente in atto in questi giorni, siano le ultime e che i danni economici saranno contenuti e che basterà solo qualche provvedimento pubblico eccezionale perché, senz’altro, poi ci penserà a riequilibrare tutto.

Nel perdurare del blocco dei licenziamenti e fintanto che la Cassa Integrazione dà copertura immediata al grosso dei lavoratori dipendenti, le persone più direttamente esposte alle strozzature economiche che accompagnano ogni nuova ondata di contagi e progressive chiusure sono una minoranza composita ed eterogenea che, tuttavia, è numericamente molto consistente e non resterà certo ferma e in silenzio a fare la fame nell’indifferenza generale.

http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2020/10/03_XIX-Rapporto-INPS-24.10.2020_ver3_compressed.pdf

L’ultimo rapporto annuale dell’INPS, ci mostra plasticamente come ci siano già oltre 4 milioni di persone in attesa di risposte adeguate alla crisi economica che si preannuncia per questa stagione di coprifuoco, zone rosse e lockdown più o meno estesi.

Dopo le prime proteste di piazza di fine ottobre, il Governo ha varato il c.d. “Decreto ristori”, che dovrebbe essere seguito a breve da una misura analoga (un “ Decreto ristori-bis”), stando a quanto annunciato dal Presidente Conte il 4 novembre in sede di comunicazione delle nuove e ulteriori restrizioni introdotte col DPCM che regolamenta il periodo tra il 5 novembre e il 3 dicembre.

Questi stanziamenti, per complessivi 7 miliardi circa (5,4 col primo; 1,5 col secondo), danno il polso immediato di quanto sia urgente il bisogno di risorse consistenti e che, soprattutto, non comportino aggravi e scompensi, sul fronte dell’indebitamento del Paese.

Con i ben noti problemi di equilibrio di bilancio toccherà infatti farci di nuovo seriamente i conti, non appena i falchi dell’austerità torneranno a premere con maggiore insistenza e, anche adesso, dal FMI continuano ad arrivare i soliti avvertimenti ai Paesi il cui debito è insostenibile: “dovrebbero ristrutturarlo prima possibile” (così il Chief Economist, Gita Gopinath, al Financial Times).

In un quadro del genere, è del tutto evidente quanto sarebbe importante e decisivo avere la possibilità concreta di mettere a bilancio nuove entrate per complessivi 120 miliardi, da qui alla fine della Legislatura: 40 miliardi l’anno, per tre anni, come abbiamo visto, con un contributo minimo dell’1% sulla ricchezza mobiliare, da versare tutti in egual misura, ma ovviamente col peso maggiore della nuova misura solidaristica che andrà a gravare sulle spalle degli italiani più ricchi, stante la persistente concentrazione di ricchezza nelle mani di una ridotta fascia di popolazione (il 20% più ricco che detiene il 70% circa della ricchezza nazionale).

Entrate aggiuntive, quindi (non nuovo debito), ripartite pro quota in modo tale che il peso minimo dell’1% sia uguale per tutti, ma con effetti che saranno chiaramente di natura redistributiva, essendo le misure da attuare espressamente finalizzate alla realizzazione di politiche sociali e assistenziali.

Tutti contribuiscono versando l’1%, dunque, ma in concreto: da un lato, avremo una vasta platea che verserà contributi annui di 1, 10 e 100 euro rispettivamente per ogni cento, mille e diecimila euro di ricchezza accumulata; dall’altro, avremo la minoranza più ricca che verserà contributi di 1.000, 10.000 e 100.000 euro l’anno, a fronte di ricchezze mobiliari che vanno da 100mila euro, fino a 10 milioni di euro.

Ed è chiaro che nessuno, versando l’1% annuo, si sarà “impoverito”: chi ha 100 euro, alla fine del triennio, avrà circa tre uro in meno e chi ha 100 milioni di euro, ovviamente, avrà circa tre milioni in meno ma nessuna di queste persone muterà le proprie condizioni di vita per l’esborso, in percentuale minima, dovuto a causa di questo provvedimento.

Col vantaggio oggettivo e innegabile di permettere allo Stato, con la massa complessiva di questi contributi, di assistere immediatamente le categorie più esposte alla crisi economica legata alla gestione dell’emergenza pandemica, durante le fasi (più o meno stringenti) di chiusura, garantendo così la tenuta sociale anche nell’eventualità di un periodo prolungato di alternanza tra fasi di prudenti aperture e ritorno a nuovi e frequenti provvedimenti di confinamento.

Questo scambio tra contributo solidaristico minimo sulla ricchezza mobiliare accumulata e pace sociale, nel particolare momento storico che stiamo vivendo, dovrebbe essere più che sufficiente a mettere a tacere le solite obiezioni, tutt’altro che disinteressate, a politiche di questo tipo.

Nondimeno, a chi si ricorda dell’evasione fiscale (“ si recuperi prima l’evasione fiscale!”) solo quando c’è il rischio di vedere intaccati gli assetti distributivi consolidati, possiamo rammentare che — come è emerso nello studio “Tax evasion and inequality (2019)” — sono proprio i più ricchi i maggiori evasori, quindi il contributo solidaristico che questi verseranno, assieme anche a quelli meno ricchi di loro, varrà anche come parziale recupero della quota di ricchezza che alcuni di loro hanno verosimilmente accumulato omettendo di pagare, in tutto o in parte, quanto regolarmente dovuto al Fisco negli anni precedenti.

E a chi paventa la corsa agli sportelli bancari per ritirare tutti i depositi e/o il trasferimento dei capitali verso l’estero, al netto dei possibili rimedi legalmente attuabili, sarebbe appunto interessante chiedere cosa penserebbe la comunità, nel suo complesso, di chi si rifiuta di versare un contributo dell’1%, nel pieno di un’emergenza pandemica che non sappiamo ancora quando avrà fine.

Sarebbe molto interessante, in altri termini, verificare se e quanto inciderà sul versante della contribuzione economica quella riprovazione sociale che abbiamo visto essere particolarmente intensa, durante questi mesi, verso qualsiasi forma di comportamento reputato (talvolta anche a torto) come antisociale e non collaborativo nell’impegno comunitario che ci siamo tutti impegnati a fornire per uscire al meglio da questa crisi sanitaria.

In fondo è questo il senso complessivo della modesta proposta che abbiamo fin qui illustrato: puntare più sull’aspetto solidaristico generalizzato che non sull’individuazione di una sola fascia contributiva da sollecitare; evitare insomma che il messaggio sia “paghino solo i più ricchi” (come è stato fatto ad esempio in Spagna). Intervento pubblico in economia per sopperire ai fallimenti del mercato — resi particolarmente evidenti dalla pandemia — e stanziamento dei fondi necessari alle politiche sociali emergenziali, da mettere in campo urgentemente, mediante un meccanismo solidaristico che preveda nuove entrate extra con un contributo minimo (1%), a carico di tutti, sulla ricchezza mobiliare accumulata.

Creare un vasto consenso su questa proposta, comunque redistribuiva (stante la grande concentrazione di ricchezza che c’è in Italia), in modo da spingere il governo a prenderla in considerazione e concretamente attuarla, si può fare.

Si è sempre potuto fare, in realtà.

Tocca solo capire se l’emergenza pandemica in atto sarà sufficiente (o meno) a generare quella scintilla solidaristica che sia in grado di mettere in moto un processo di riforme che, una volta tanto, proceda davvero nella direzione del progresso sociale da realizzare qui e ora.

Tocca solo capire se ne usciremo davvero migliori, insomma.

Una gran bella sfida.

Originally published at https://www.lafionda.org.

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Giuseppe D'Elia

Giornalista e avvocato. Segue da oltre vent’anni le tematiche politiche legate ai diritti dei lavoratori. Musicista nel poco tempo che resta