La sindrome di Penelope della sinistra italiana: l’incognita Potere al Popolo nel campo da ricostruire per progettare un diverso modello sociale

Giuseppe D'Elia
38 min readApr 14, 2018

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https://poterealpopolo.org/indicazioni-dopo-assemblea-potere-al-popolo/

Le elezioni politiche del 4 marzo 2018 hanno definitivamente certificato, al di là di ogni ragionevole dubbio, quello che era già emerso chiaramente nella precedente tornata elettorale, nonostante cinque anni di sostanziale negazione della realtà, in una sorta di lungo stato di allucinazione collettiva.

I dati politici di assoluto rilievo sono almeno due:

1) lo schema bipolare in Italia è saltato e non si può sapere se e quando potrà essere ricomposto;

2) il M5S, la forza politica nuova che ha chiuso la stagione del falso bipolarismo all’italiana (quello in cui governa sempre e comunque il centro), è diventato primo partito per distacco rispetto a tutti gli altri con oltre 10,5 milioni di voti, pari al 32,7% circa.

Quale dei due campi bipolari sia stato maggiormente danneggiato dalla nascita e dal successo del terzo polo, “né di destra, né di sinistra”, è del tutto evidente.

Il vecchio centrodestra berlusconiano, vede la Lega di Salvini a fare da guida (17,4% circa) e Forza Italia ridimensionata (poco più del 14%), ma la coalizione — presente come tale nei collegi uninominali — raccoglie oltre 12 milioni di voti, pari al 37%.

A sinistra invece c’è un disastro che ha diverse gradazioni di intensità e il puro caos come prospettiva per l’immediato futuro.

Crolla il PD, che resta in ogni caso il partito più forte nel campo che tradizionalmente, nelle assemblee, si colloca alla sinistra dell’emiciclo.

I numeri sono eloquenti: il partito più forte ha poco più di 6 milioni di elettori, pari al 18,7% dei voti validamente espressi e va un po’ meglio come coalizione, solo perché riesce a sfruttare a pieno il meccanismo ad hoc della nuova legge elettorale che gli permette di avere qualche parlamentare in più grazie ai voti degli alleati che non hanno passato la soglia di sbarramento (la coalizione ha 4 punti percentuali in più, ma, oltre al PD, nel proporzionale, eleggono rappresentanti solo quelli del SVP, per le specificità territoriali alto atesine).

Tuttavia questo crollo, come si è visto, ha avvantaggiato solo il M5S, essendo sostanzialmente prossimo allo zero — 3,39% per Liberi e Uguali, con poco più di 1,1 milioni di voti e 1,13% Per Potere al Popolo, con poco più di 370mila elettori — il risultato di entrambe le principali liste che si candidavano a occupare lo spazio “in teoria” lasciato vuoto (le ormai leggendarie “praterie a sinistra”), dopo una lunga stagione di governi a guida PD, fondati su politiche liberali pure e semplici (e pure piuttosto annacquate, in verità).

Questo è un dato che non deve meravigliare perché è espressione di un fenomeno di lungo periodo che chiama tutto il vecchio centrosinistra prodiano a rispondere delle proprie deludenti politiche di governo, sia a livello nazionale che a livello locale.

Politiche di governo neoliberali — giova ripeterlo ancora una volta ed esplicitarlo al meglio — che il PD di Renzi ha avuto solo il merito storico di rendere decisamente più palesi, non essendo queste, nella sostanza, poi così diverse da quelle degli anni Novanta del secolo scorso.

Non era infatti già chiaro con la legge Turco-Napolitano in materia di immigrazione che la sinistra di governo sposava la piena libertà di circolazione delle merci e dei capitali ma non quella delle persone?

Certo Minniti, coi vergognosi accordi coi libici e col tentativo di posizionare un contingente di militari italiani in Niger, ha reso tutto ancora più esplicito, cinico e crudele, ma è appunto lo sviluppo all’ennesima potenza di un cedimento culturale che era già iniziato trent’anni fa.

Stesso identico parallelismo si potrebbe fare tra il cosiddetto pacchetto Treu — che introdusse il lavoro interinale e la prima iniezione di flessibilità nel mercato del lavoro italiano — e la mazzata definitiva ai diritti dei lavoratori che è stata assestata dagli ultimi governi a guida PD con l’accoppiata decreto Poletti e Jobs Act.

Anche in questo caso si amplifica e si porta alle estreme conseguenze una tendenza culturale assai risalente nel tempo: quella del dogma (antiscientifico, come tutti i dogmi) secondo cui le garanzie e i diritti dei lavoratori sarebbero un limite per lo sviluppo economico e sociale.

E idem dicasi per i falsi miti della concorrenza, delle privatizzazioni, della meritocrazia ovvero per tutti gli strumenti della legittimazione assiologica della competizione e della diseguaglianza.

La società meritocratica infatti non è la società del benessere diffuso, in cui il lavoro è garantito a tutti, e lo sviluppo delle potenzialità dei capaci e dei meritevoli non dovrà mai impedire a ciascun individuo di avere un’esistenza libera e dignitosa.

La società meritocratica è una società dove ci si accontenta del fatto che i vincitori della competizione di mercato siano i più meritevoli.

E gli altri? Quelli che hanno perso meritatamente che vita devono fare?

Quando si afferma — altro dogma senza alcun fondamento scientifico, oltre che storico — che il lavoro lo creano solo le imprese e che lo Stato deve avere un ruolo marginale nell’organizzazione sociale, per cui va privatizzato tutto (e pure la sinistra di governo ha privatizzato, come è noto), che tipo di modello sociale stiamo proponendo alla comunità?

Quando si afferma che le tasse vanno ridotte e che c’è un debito pubblico da ripagare come se lo Stato fosse un debitore qualunque e non una comunità democratica con potere normativo (dalla tassazione molto progressiva all’emissione di moneta), ancora una volta, che tipo di società si sta disegnando?

1. La fine di due cicli, nel trentennio post-sovietico, e lo spartiacque delle regole comunitarie come vincolo esterno alla creazione di modelli sociali alternativi all’economia di mercato senza intervento pubblico

https://movipolis.blogspot.it/2015/01/risultati-delle-elezioni-al-parlamento.html

Va detto che la tendenza della sinistra italiana verso il centro, ovvero — se vogliamo uscire dalle metafore sulla mera collocazione spaziale — la tendenza della sinistra a conformarsi ai dogmi del neoliberalismo o neoliberismo che dir si voglia è fenomeno di respiro internazionale ed il quadro politico europeo, nel quale l’Italia è perfettamente inclusa, ne è prova tangibile.

In tutta Europa (e nello stesso parlamento europeo) le forze politiche di governo, nell’alternanza tra conservatori (PPE) e progressisti (S&D) — centrodestra vs centrosinistra — si sono appiattite al centro, nei primi due decenni del pensiero unico post crollo dell’URSS (con conseguente esaltazione del capitalismo come unico modello socio-economico possibile), seguendo un’agenda politica basata su una singolare concezione di riformismo, che in ultima analisi altro non faceva che proteggere gli interessi degli attori economici più forti e il processo di accumulazione e concentrazione delle ricchezze, senza avere alcun riguardo agli effetti sociali della competizione di mercato senza regole e con lo Stato ridotto ai minimi termini.

Lo smantellamento pezzo dopo pezzo dell’economia pubblica e dello Stato sociale di diritto è funzionale solo ed esclusivamente all’estrazione di valore da settori che, passando dalla gestione pubblica a quella privata, moltiplicano le occasioni di creare nuovi profitti e nuovi processi di accumulazione per gli individui e i gruppi privati più intraprendenti.

La deregolamentazione del mercato del lavoro, il principio della massima flessibilità, l’idea che il lavoratore debba essere una mera variabile indipendente del sistema, rispondono alle stesse identiche istanze della minoranza più ricca e più forte, dimenticando ottusamente che i lavoratori sono persone e non merci da collocare e di cui disporre a proprio piacimento.

Su tutte queste criticità del modello economico e sociale — e sulla questione ambientale in particolar modo — la sinistra di governo per anni ha chiuso gli occhi e le orecchie, rifiutandosi di analizzare e valutare in prospettiva e in concreto, man mano che le sedicenti riforme venivano approvate e producevano i danni diffusi che erano ampiamente prevedibili, le conseguenze nella quotidiana esistenza delle persone in carne e ossa, e i rischi per la sopravvivenza stessa della vita sul pianeta, che questa prospettiva politica, apparentemente senza alternativa, andava perseguendo anno dopo anno.

Quando poi nel 2008 in tutta Europa è esplosa la bolla finanziaria che ha dato il via alla più grande crisi economica e sociale del capitalismo moderno dopo quella del 1929, le sinistre di governo si sono ritrovate insomma del tutto prive degli strumenti concettuali necessari per capire quello che stava succedendo.

E soprattutto nessuna delle sinistre di governo aveva una classe dirigente che fosse in grado di provare in qualche modo ad invertire la rotta tracciata agli inizi degli anni Novanta.

È a dir poco impressionante l’ottusità con la quale, nel secondo ciclo politico del pensiero unico imperante (2008–2018), si è continuato a imporre il dogma dell’austerità di bilancio, pretendendo sempre e solo politiche di tagli alla spesa pubblica anche in quei Paesi — il caso greco è paradigmatico, sul punto — che invece necessitavano urgentemente di mirati e ingenti interventi statali, per provare a riequilibrare le condizioni economiche e sociali del territorio da loro governato.

Ed è chiaro che se entrambe le principali forze di governo — in teoria i due poli opposti, di quello che in realtà, poi, si rivela essere un falso bipolarismo — continuano, senza alcuna esitazione o tentennamento, a interpretare la costruzione della comunità politica europea come l’implementazione della dottrina economica neo-liberale, l’opposizione a queste politiche si costruirà inevitabilmente proprio a partire dalla critiche del modello economico, sociale e politico europeo, quale vincolo esterno tale da impedire qualunque tipo di politica alternativa a quella dell’economia di mercato senza alcun tipo di intervento pubblico.

2. Diseguaglianze crescenti, devastazione ambientale, precarietà diffusa, disoccupazione (e migrazioni) di massa ed economie predatorie e criminali

https://www.nationalgeographic.org/encyclopedia/pollution/

Ci sono almeno cinque grandi aree tematiche sulle quali la sinistra di governo, in Italia e in Europa, non ha più (se mai l’ha avuta) una progettualità politica concretamente attuabile, perché per risolvere ognuno di questi problemi sarebbe necessario mettere in discussione il modello economico e sociale imperante, riformandolo in maniera strutturale nel breve periodo, per superarlo poi definitivamente su quello medio-lungo.

Non è un mero incidente di percorso la devastazione ambientale, né lo è l’accumulazione diseguale della ricchezza: sono processi funzionali alla massimizzazione del profitto, in un’economia di libero mercato e in assenza di un intervento pubblico con funzione di riequilibrio.

Lo sono nella misura in cui le produzioni ecologiche hanno un costo maggiore di quelle che rispettano l’ecosistema e, soprattutto, lo sono perché smaltire illegalmente i residui delle produzioni comporta un surplus ulteriore in termini di riduzione dei costi di gestione dell’impresa.

Lo sono nella misura in cui chi vince la competizione si sottrae all’equa contribuzione, in parte, trasferendo i capitali accumulati nei cosiddetti paradisi fiscali e, in parte, impiegandoli per propagandare l’idea che la tassazione non debba essere progressiva e che l’accumulo di ricchezza privata produce per la comunità benefici maggiori di quelli che potrebbero derivare dall’impiego pubblico di una quota delle risorse private accumulate.

Su quest’ultimo punto, l’esempio italiano è paradigmatico:

«In Italia il 10% più ricco della popolazione detiene il 50% della ricchezza complessiva.

Di quei quasi 4.000 miliardi di patrimonio sui conti correnti, nei fondi comuni, nelle polizze, impiegati in Borsa e in Btp ben 2.000 miliardi sono appannaggio di 2 milioni di famiglie italiane sui 20 milioni di nuclei familiari».

https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_countries_by_GDP_(nominal)

L’Italia è e resta uno dei 10 Paesi più ricchi del mondo con un’impressionante problema di ricchezza mal distribuita.

Se lo Stato potesse disporre e impiegare anche solo di una quota percentuale minima dei 2000 miliardi accumulati dal 10% di famiglie più ricche, ci sarebbero i fondi a sufficienza per risolvere tutte le emergenze volutamente ignorate negli ultimi decenni e in quello della crisi economica, in particolar modo.

Non è vero, insomma, che non ci sono i fondi per finanziare un settore pubblico che, con efficacia ed efficienza, possa garantire servizi pubblici di qualità in tutti i campi, dalla sanità, all’istruzione, passando per la gestione della giustizia e dell’ordine pubblico.

Non è vero che non si può finanziare un reddito minimo garantito per tutti quelli che sono in cerca di lavoro e un sistema pubblico per garantire la migliore collocazione possibile nel settore pubblico o in quello privato a ciascuna persona.

In definitiva, non è vero che non ci sono i fondi — come ripetono sempre tutti i politici al servizio del mantenimento dello status quo e della protezione esclusiva degli interessi dei più ricchi — ma è vero, piuttosto, che manca la volontà politica di ricercare e perseguire un diverso modello sociale che miri al benessere diffuso e alla protezione sociale di tutti e non solo di quelli che vincono, in un modo o nell’altro, la competizione di mercato.

Ed è in questo senso che anche la precarietà nel lavoro, la mancanza di posti di lavoro, le migrazioni come fenomeno di massa (interne ed esterne) sono elementi strutturali di questo sistema economico e non mere variabili che occasionalmente si possono verificare.

È sempre la massimizzazione del profitto e il processo di accumulazione diseguale delle ricchezze ciò che determina la compressione dei salari, l’iper-sfruttamento di ogni singolo lavoratore e la necessità di avere sempre un vasto esercito industriale di riserva come elemento di pressione costante sui lavoratori e disciplinante rispetto a ogni eventuale possibile rivendicazione individuale.

È sempre la massimizzazione del profitto ciò che favorisce l’economia predatoria tra le Nazioni (con modelli di natura neo-coloniale) e quella criminale su ciascun singolo territorio, con le imprese foraggiate dai capitali dell’economia illegale che sovente finiscono per accaparrarsi i più importanti appalti per la gestione privata dei servizi pubblici.

3. Le due sinistre del XXI secolo: da riforma vs rivoluzione a gestione dello status quo (sistema) vs cambiamento (anti-sistema), nell’era della trappola ideologica del debito pubblico

Il punto nodale sul quale concentrarsi nello scorcio conclusivo del Trentennio del Pensiero Unico neoliberista è dunque questo: mentre nel secolo scorso le (almeno) due sinistre avevano, in teoria, uno scopo comune — il superamento del capitalismo — e si dividevano sui mezzi per il raggiungimento di questo fine (Riforma sociale o Rivoluzione?), nei tre decenni a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo, la sinistra sedicente socialista ha smesso di ragionare o anche solo di immaginare un diverso tipo di società, appiattendosi sulla mera gestione conservativa dell’esistente.

Il liberalismo diventa così il valore costituente e scompare, quindi, ogni istanza egalitaria (né comunismo, né socialismo, né socialdemocrazia: solo mercato e competizione), con la distinzione tra desta e sinistra (o tra conservatori e progressisti, se lo si preferisce) che si riduce a mera questione di libertà individuali e diritti civili, tendenzialmente maggiori quando vince e governa la sinistra e minori quando è la destra a gestire la cosa pubblica.

Il tutto in un contesto — quello del ciclo della crisi economica, prodottasi nell’ultimo decennio, che in parte stiamo ancora vivendo — in cui l’egemonia culturale della classe dominante è tale da realizzare un capolavoro ideologico dagli esiti paradossali, dato che il dogma dell’austerità nelle politiche di spesa pubblica, in nome della necessità di andare a ridurre il debito pubblico non solo produce l’effetto di comprimere anche il PIL (e quindi la ricchezza complessiva di ciascun sistema Paese), ma crea anche una sorta di socialismo al contrario.

La tendenza già in atto nell’ultima decade del secolo scorso di privatizzare tutti i profitti e socializzare solo le perdite, mettendole a carico della collettività, in occasione dei vari salvataggi bancari realizzati negli anni della crisi, si traduce in sostanza in un trasferimento di ricchezza che ha il carattere tipico del circolo vizioso, dato che quegli stessi soggetti privati che scaricano le perdite bancarie sui bilanci pubblici, poi, possono per altro verso figurare come creditori dello Stato, in quanto acquirenti di titoli del debito pubblico.

In altri termini, si realizza — in via ipotetica ed estremamente semplificata — una sorta di metamorfosi del debitore in creditore con uno schema di questo tipo: alcuni debitori privilegiati riescono a scaricare i propri debiti privati sulla collettività, ma contestualmente figurano anche come creditori della collettività grazie all’acquisto di titoli del debito pubblico, fatto con i propri capitali privati, i quali ultimi, però, sono stati accumulati anche trasformando le proprie perdite private in passività del bilancio pubblico.

Quale utilità sociale di carattere generale possa mai avere un sistema economico così strutturato è un mistero che lasciamo agli apologeti del capitalismo senza regole e senza istanze solidaristiche e/o egalitarie.

Qui ci interessa invece sottolineare come la crisi della sinistra di governo è in ultima analisi un prodotto di risulta della crisi economica e sociale del sistema che i vari partiti del socialismo europeo hanno abbracciato acriticamente negli ultimi trent’anni.

La risposta populista — usando la categoria che i media schierati in difesa dello status quo hanno utilizzato per descrivere tutti i fenomeni di crescita in termini di consenso elettorale di tutte le forze politiche genericamente anti-sistema — è quindi una risposta potremmo dire istintiva delle masse che avvertono il peso esistenziale e la profonda ingiustizia di questo sistema economico e sociale, ma non hanno coscienza di sé come classe subalterna, né hanno una prospettiva politica alternativa praticabile, coerente ed organica da seguire.

La risposta populista insomma individua e riconosce le responsabilità politiche dei governanti e quindi li punisce col voto contro, ma senza che si riesca contestualmente a trasformare questo voto di protesta in una organica proposta politica realmente alternativa.

Questo fenomeno ha una sua traduzione pratica nel successo di quelle istanze politiche che, in ogni caso, abbracciano le istanze dei più ricchi e dei più forti, presentandosi al popolo come quelli che risolveranno i problemi sociali riducendo le tasse e fermando l’invasione dei migranti.

Questo tipo di risposta ha una connotazione politica che è chiaramente di destra: la riduzione delle tasse con modelli ad aliquota unica (c.d. flat tax) è infatti un favore ai ricchi e la stessa identica finalità ha l’individuazione di ciascun singolo migrante come potenziale problema sociale (senza che nulla si faccia per rimuovere invece le cause sociali delle migrazioni come fenomeno di massa).

Questo tipo di risposta politica, anche se avesse successo, non andrebbe quindi minimamente ad intaccare gli assetti sociali ed economici consolidati (il che spiega benissimo perché lo spauracchio dell’invasione dei migranti sia veicolato dai media tradizionali in maniera così massiccia e, a cascata, finisca col riverberarsi anche sui nuovi media).

Una risposta anti-sistema sui generis è quella tipicamente italiana del M5S che si pone innanzi tutto come forza nuova e alternativa ai governi uscenti ma lo fa con istanze politiche che più che essere “né di destra, né di sinistra” sono in realtà sia di destra (riduzione delle tasse, freno alle migrazioni e generico richiamo alla meritocrazia) che di sinistra (ambientalismo, reddito di cittadinanza, rilancio del settore pubblico).

Ma — come si accennava brevemente sopra — una risposta politica anti-sistema alla crisi economica e sociale, da sinistra, con istanze meramente socialdemocratiche nel breve periodo e di trasformazione sociale in prospettiva, in Europa c’è stata, col successo politico di Syriza in Grecia, che ha portato al governo una forza politica che non offriva soluzioni tipicamente di destra e che, quindi, minacciava di poter andare concretamente a toccare gli interessi dei più ricchi e dei più forti.

Il modo in cui è stato di fatto neutralizzato il successo elettorale di Syriza, confermato anche da un successivo referendum, l’affermazione cioè del principio secondo cui ogni istanza politica e sociale di matrice egalitaria deve essere sacrificata sull’altare dell’austerità di bilancio finalizzata alla riduzione del debito pubblico, ha mostrato a tutti, in maniera plastica, come il problema della sinistra di alternativa, qui e ora, non è solo un problema di mancanza di consenso.

Anche qui si è realizzato, insomma, un clamoroso circolo vizioso: come si può costruire il consenso democratico su una proposta di alternativa sociale egalitaria, quando laddove il consenso c’è stato, la costruzione dell’alternativa è stata bloccata sul nascere, invocando la prevalenza dell’interesse privato dei creditori su quello pubblico degli elettori?

4. PD, LEU e Potere al Popolo: ovvero tre attori politici per le due parti da interpretare (sinistra di governo vs sinistra di alternativa)

http://elezioni.interno.gov.it/camera/scrutini/20180304/scrutiniCI

Concentrando l’analisi solo sulla situazione italiana, a questo punto, dovrebbe essere chiaro innanzi tutto che il successo del M5S e il crollo del PD sono due fenomeni strettamente correlati e legati, in estrema sintesi, alla dicotomia sistema/anti-sistema.

Il PD, nei fatti, rappresenta l’archetipo di quella sinistra di governo che difende lo status quo e protegge prioritariamente gli interessi dei ceti sociali più agiati.

Il PD, in particolare, è stato il principale attore politico della lunga stagione di governo della crisi.

E lo ha fatto, da novembre 2011 fino al momento del voto del 4 marzo 2018, prima sostenendo il governo tecnico a guida Monti e poi con i governi Letta, Renzi e Gentiloni, tutti all’insegna dell’ossequioso rispetto dei due pilastri dogmatici del doppio vincolo esterno all’azione politica, imposto dall’adesione all’Europa comunitaria e dalla dottrina dell’austerità di bilancio per la riduzione del debito pubblico.

È sulla netta opposizione a questi dogmi e a queste politiche che si è costruito il successo del M5S, il cui marchio di fabbrica è appunto l’essere forza nuova e fattore di cambiamento: il governo dei cittadini che si contrappone ex novo a quello di una classe politica vecchia e corrotta.

Il movimento politico che lavora sui territori ed è in continua connessione col (suo) popolo attraverso internet, lo strumento che grazie al successo del blog di Beppe Grillo ha spezzato il monopolio comunicativo dei media tradizionali già prima dell’avvento e della diffusione dei social network (e di Facebook in particolar modo).

Ed è appunto la forza di questa narrazione nuovista — la capacità di usare internet in maniera tale da influenzare anche la comunicazione politica dei media tradizionali e il consenso di massa che si è consolidato e rafforzato, nel decennio della crisi, attorno a M5S — che spiega anche molto bene perché il crollo del PD, quale esponente tipico della sinistra di governo dello status quo, non si traduce automaticamente in una crescita di consenso della vecchia sinistra anti-sistema.

Il tutto ovviamente aggravato dalla assoluta incapacità tattica e strategica dei gruppi dirigenti dei partiti che avrebbero dovuto lavorare alla costruzione di una nuova forza politica di sinistra anti-sistema, in questi dieci anni, e che invece di compiere una scelta di campo coerente e credibile da seguire puntando al risultato futuro, hanno inseguito ad ogni tornata elettorale la formula magica col nuovo nome e col nuovo simbolo che avrebbe dovuto portare subito il grande risultato in termini di consenso.

Tecnicamente in Italia una nuova e riconoscibile forza politica della sinistra anti-sistema, alternativa al PD e al governo inteso come mera gestione dell’esistente, in questi dieci anni di crisi non è mai nata proprio perché si continua ossessivamente a fare e a disfare questa nuova tela.

La sindrome di Penelope della sinistra italiana può essere riassunta in questi termini:

  • fase 1 - occorre lavorare alla creazione di un nuovo soggetto unitario della sinistra di alternativa che contrasti le politiche antipopolari del PD;
  • fase 2 - dopo anni di discussioni inconcludenti (che si arenano quasi sempre sul tema del rapporto col PD: opposizione sempre e comunque o alleanze decise volta per volta?) si sceglie il nuovo nome e il nuovo simbolo sotto elezioni;
  • fase 3 - le elezioni non soddisfano le ambizioni teoriche (a grandi linee si rimane sempre intorno al 3-4%);
  • fase 4 - si ritorna alla fase 1 e si ripete tutto il percorso con variazioni minimali.
http://elezionistorico.interno.gov.it/index.php?tpel=C&dtel=13/04/2008&tpa=I&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S

La prima lista unitaria della nuova sinistra di alternativa, che doveva contrastare il PD, l’abbiamo vista alle politiche del 2008.

È interessante notare come il risultato, in termini di voti effettivi, de La Sinistra L’Arcobaleno coincida quasi perfettamente con quello recentissimo di LEU: poco più di un milione e centomila voti per entrambe le liste.

Se il dato elettorale del 4 marzo 2018 lo guardiamo con la prospettiva storica del bilancio politico del decennio della crisi — oltre a scoprire la costanza del dato minoritario della sinistra di alternativa costruita, di volta in volta, come mera sommatoria di ceto politico in prossimità del voto — si può notare un’altra singolare coincidenza numerica: il PD, nel decennio, perde circa 6 milioni di voti; il centrodestra berlusconiano ne perde quasi 5 milioni.

Ecco spiegato plasticamente da dove arrivano i quasi 11 milioni di voti del M5S del 2018.

In questi dieci anni, insomma, mentre il Movimento 5 Stelle — che si è presentato per la prima volta a un’elezione nazionale nel 2013 — diventava il primo partito, riuscendo da solo a rappresentare circa un terzo dell’elettorato votante, la sinistra di alternativa riproduceva costantemente lo schema della tela di Penelope, con i seguenti risultati:

  • Politiche 2008

LA SINISTRA L’ARCOBALENO

Voti: 1.124.298 (3,08%)

  • Europee 2009

RIFOND. COM. SIN. EUROPEA / COM. ITALIANI

Voti: 1.034.730 (3,39%)

SINISTRA E LIBERTÀ

Voti: 951.727 (3,12%)

  • Politiche 2013

SINISTRA ECOLOGIA LIBERTÀ

Voti: 1.089.231 (3,20%)

RIVOLUZIONE CIVILE

765.189 (2,25%)

  • Europee 2014

L’ALTRA EUROPA CON TSIPRAS

Voti: 1.103.203 (4,03%)

  • Politiche 2018

LIBERI E UGUALI

Voti: 1.109.198 (3,38%)

POTERE AL POPOLO!

Voti: 370.320 (1,13%)

Di seguito, in foto, la sequenza simbolica della sindrome di Penelope della sinistra italiana, nelle cinque tornate elettorali del decennio della crisi.

http://elezionistorico.interno.gov.it/index.php

Cosa ci dicono questi numeri e questa continua alternanza di nuovi nomi e nuovi simboli della sinistra, nell’ultimo decennio?

Procediamo con ordine:

  1. non esistono le leggendarie “praterie a sinistra” del PD: non ci sono, cioè, milioni e milioni di elettori che aspettano solo di vedere la nuova lista unitaria, col nome giusto e col simbolo giusto, per poterla votare;
  2. in due elezioni su cinque la lista era unica: in entrambi i casi gli elettori della lista unica sono stati poco più di 1,1 milioni;
  3. quando le liste sono state due si sono ottenuti più voti, ma la variazione è comunque minimale (si sono sfiorati i due milioni di voti complessivi nel 2009; leggermente inferiore il dato del 2013; poco meno di 1,5 milioni il dato ultimo del 2018);
  4. i dati peggiori, in ogni caso, si sono riscontrati quando si è presentata la lista unitaria, costruita per sommatoria di ceto partitico e senza un reale processo politico di rinnovamento.

5. La farsa del cosiddetto “percorso del Brancaccio” e la necessità di spezzare il circolo vizioso del continuo cambio di nomi e simboli che fa perdere credibilità a tutta la sinistra di alternativa oltre a renderla di fatto irriconoscibile

http://popoffquotidiano.it/2017/11/13/sinistra-annullata-lassemblea-del-brancaccio/

A volte per capire meglio un processo politico è utile partire dalla fine e procedere a ritroso:

«14 deputati e 4 senatori, sono questi i seggi assegnati alla forza guidata da Pietro Grasso e Laura Boldrini, Liberi e Uguali.

Tra gli eletti, oltre agli stessi Grasso (al Senato) e Boldrini (alla Camera), anche Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza e Stefano Fassina».

Se nel decennio della crisi il più grande fattore di divisione nel campo a sinistra del PD è stato sempre il rapporto politico con questo partito (alleato o avversario?), le elezioni del 2018 sono state segnate da una lunga ed estenuante discussione sul ruolo politico degli ex dirigenti del PD, che si auto-candidavano alla guida della nuova forza unitaria della sinistra da costruire da capo, per l’ennesima volta.

La piccola pattuglia di deputati e senatori eletti con LEU — quasi tutti ex PD, oltre ai due presidenti uscenti di Camera e Senato — mostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, quanto tutto si possa dire di questo progetto politico tranne che sia identificabile come innovativo e anti-sistema.

Questo elemento di criticità era già stato posto con estrema chiarezza in un documento, fatto uscire dagli attivisti del centro sociale napoletano Ex Opg - Je so’ pazzo, a inizio giugno, in risposta all’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari che convocavano, per il 18 giugno, una prima assemblea del ‘nuovo’ processo unitario della sinistra — Alleanza popolare per la democrazia e l’eguaglianza — al teatro Brancaccio di Roma:

«I dirigenti della “sinistra”, come testimoniano le storie personali, sono parte del problema e non della soluzione. L’unico modo che hanno di contribuire è farsi da parte. Se non si parte da questa premessa nulla di buono potrà mai realizzarsi.

Sappiamo che può suonare duro, ma la realtà è così. Questa è gente che ha vissuto di politica, non può capirci, non può parlare il linguaggio della maggioranza, sarebbe falsa. È gente che ha traghettato la sinistra sempre più a destra, l’ha svergognata davanti alle masse (quale tarantino intossicato dall’ILVA dimenticherà mai la telefonata di Vendola al faccendiere della famiglia Riva?). Appena vedono i loro simboli e i loro nomi, le masse iniziano a bestemmiare…

Noi pensiamo che debba essere data a tutti la possibilità di ravvedersi. Siamo umani e comprensivi. Ma quando ti ravvedi, se sei sincero, ricominci da capo, dai volantinaggi e dallo spazzare a terra, come fanno tanti militanti di 50 e 60 anni in tanti circoli, associazioni, centri sociali di questo paese. Se ti sei ravveduto cerchi di metterti al servizio, non di comandare ancora, o di andare in televisione. Cerchi di riguadagnarti la fiducia con il lavoro, non evitando ancora il lavoro o la lotta contro la sopravvivenza che noi viviamo ogni giorno.

(…) Serve un cambio anche nel linguaggio, una rottura visibile rispetto al passato. Con il parlare forbito, con l’educazione, non si cambiano le cose. Non è che non siete bravi voi, ma è proprio il limite di ogni progetto che parta dal mondo intellettuale. Negli ultimi quindici anni abbiamo già visto il fallimento dei “Girotondi”, della “Sinistra Arcobaleno”, di “Rivoluzione Civile”, delle liste dei “professori”…. Ci è bastato. Se gli intellettuali vogliono essere utili si devono mettere a servizio delle masse popolari e non tentare di rappresentarle. Non devono fare gli “illuminati”, ma mettere a disposizione dei più deboli le loro risorse, i loro soldi, i loro contatti, la loro visibilità.

Se vogliamo vincere, magari non oggi, ma domani sicuro, a dare la linea devono essere quelli che quotidianamente mettono le mani nella merda, che sono forse un po’ rozzi ma sanno cos’è il lavoro salariato, l’antifascismo in periferia, la violenza del padrone, la distribuzione di pasti ai senza tetto, l’accoglienza dei rifugiati.

Se vogliamo vincere — e guardate che vincere non è piazzare un parlamentare o superare soglie di sbarramento, ma in questa fase è radicarsi fra le masse, far sì che ascoltino con interesse un messaggio diverso, che siano colpite da un’altra umanità possibile –, è inutile stilare bei programmi super dettagliati che non verranno mai realizzati. Servono — a tutti i livelli, non solo come leader! — persone vere, umane, credibili. Servono poche parole chiare e comprensibili sulle quali politicizzare le persone, aggregarne qualcuna in più e basare la nostre pratiche quotidiane.

È questo che secondo noi bisogna fare, insieme a tutte le realtà che ci vogliono stare. L’abbiamo già scritto: più che di accrocchi elettorali, abbiamo bisogno di una vera campagna politica che attraversi il dibattito elettorale. Una campagna che ci porti a un maggiore livello di coordinamento a partire dalle pratiche, che ci faccia animare il dibattito e imponga dal basso il nostro ordine del giorno.

Diremo poche cose ma chiare:

1. In questo paese la ricchezza c’è, sappiamo anche dov’è, dobbiamo andarcela a prendere e redistribuirla. Dobbiamo attaccare i grandi patrimoni e l’evasione fiscale come non è mai stato fatto prima.

2. In questo paese, e soprattutto al Mezzogiorno, c’è bisogno di lavoro. Oggi non c’è perché i rapporti di produzione e i rapporti di forza sono strutturati a nostro svantaggio. Dobbiamo spingere con la lotta per avere lavoro vero, intervento pubblico, rispetto dei diritti sui posti di lavoro, democrazia sindacale, maggiori salari, pensionamenti, ricambio generazionale, riduzione dell’orario di lavoro.

3. In questo paese il pubblico funziona male, non per colpa dei lavoratori ma per colpa della politica, dei dirigenti, delle clientele, delle commistioni con il privato. Solo il controllo popolare, solo le conoscenze dei lavoratori e dei cittadini che usano quel servizio, solo la vigilanza dal basso può impedire che vengano violati i nostri diritti. Dobbiamo estendere ovunque il controllo popolare e dargli visibilità. Dobbiamo stare con il fiato sul collo su chi fa grandi e piccole truffe, sui mafiosi, sui conniventi.

4. L’Italia non è solo l’Italia ignorante, che odia, in competizione, schiacciata fra ansia e depressione. C’è un po’ dovunque un’Italia che resiste, allo stesso tempo arrabbiata e solare, che si dà una mano, che si viene in soccorso. Cristiana o comunista, laica o credente, proletaria e a volte pure borghese: magari sporca, ma generosa. È un’Italia di cui andare fieri, che deve smettere di nascondersi, che deve essere orgogliosa. Questa è l’Italia a cui bisogna dare voce, che va mostrata alle masse, che deve diventare modello.

Cara Anna, caro Tomaso,
conoscendo la vostra intelligenza e umanità, crediamo che vi siate rivisti in queste riflessioni, e che ci vorrete rispondere. In ogni caso, chiunque condivida queste paginette sappia che noi siamo a disposizione, pronti da subito ad avviare collaborazioni. Non possiamo subire mesi di campagna elettorale, e guardarci la partita fra le tre destre di Salvini, del PD e di Grillo! Dobbiamo subito irrompere con un’immagine concreta di speranza e di riscatto!

Potere al popolo!».

Potere al popolo, insomma, poteva e voleva essere il progetto comune della sinistra di alternativa che si rinnova nelle persone e nelle pratiche.

Peccato che il cosiddetto percorso del Brancaccio avesse ben altre priorità.

Emblematica è la scena della contestazione che Viola Carofalo è costretta a fare il 18 giugno, sul palco del Brancaccio, là dove tutti pendono dalla labbra del senatore ex PD Gotor (che, ovviamente, parla solo della necessità di dare «discontinuità alla stagione renziana» e non di superamento della lunga stagione di cedimento politico alle istanze neoliberiste), mentre la richiesta di un concreto ed effettivo rinnovamento viene semplicemente ignorata, rifiutandosi anche di discutere le istanze poste nel documento poc’anzi citato, con evidente fastidio di chi coordina gli interventi per la presenza di «chi disturba».

Dopo mesi e mesi di una discussione surreale, in cui una parte dei soggetti in campo sosteneva l’urgenza e la necessità di chiudere la stagione del centrosinistra e di opporsi alle politiche antipopolari dei governi PD, facendo una nuova lista unitaria della sinistra che poi avrebbe candidato le stesse identiche persone che avevano sostenuto tutti i governi a guida PD, fino a pochi mesi dal voto, Sinistra Italiana (partito nato in seguito allo scioglimento di Sel e composto, in larga misura, dal gruppo dirigente e dal corpo militante del partito fondato da Vendola, dopo aver perso di misura il congresso di Rifondazione comunista del 2008), Possibile e Articolo 1- MDP — ovvero i due partiti nati dalle due scissioni subite dal PD, a causa della gestione accentratrice della segreteria di Matteo Renzi — danno vita a una lista guidata dall’allora Presidente del Senato in carica, Pietro Grasso, definito enfaticamente «un programma politico vivente».

Questa svolta avviene a pochi giorni da quella che, in teoria, doveva essere l’assemblea conclusiva del cosiddetto percorso del Brancaccio, fissata per il 18 novembre a Roma.

Questa assemblea viene quindi annullata con decisione unilaterale dei due promotori e con un comunicato a firma Tomaso Montanari, che punta il dito contro tutti i partiti della sinistra (attaccando quindi anche chi non ha sostenuto la lista Grasso):

«I segretari di Mdp, Possibile e Sinistra italiana hanno scelto un leader. E questo ha ‘risolto’ tutti i problemi: nella migliore tradizione messianica italiana.

Poi hanno lanciato un’assemblea, che si sta costruendo come una spartizione di delegati tra partiti, con equilibri attentamente predeterminati. E per di più un’assemblea che potrà decidere, sì e no, il nome e il simbolo della lista: ma non certo la leadership (scelta a priori, dall’alto e dal dentro), non il programma (collage di quelli dei partiti), non le liste (saldamente in mano alle segreterie). Un teatro, che copre l’obiettivo reale: rieleggere la fetta più grande possibile degli attuali gruppi parlamentari. Vorrei molto essere smentito: ma ho fortissimi argomenti per credere che, quando saranno note le liste, tutti potranno constatare che le cose stanno proprio così.

Certo non me lo auguro, ma temo che questa inerziale riedizione nazionale della coalizione che in Sicilia ha sostenuto Claudio Fava (per di più senza Rifondazione Comunista) non avrà un enorme successo elettorale.

È anche per questo che quella dei vertici di Mdp, Possibile e Sinistra italiana a me pare una scelta drammaticamente miope. Non è nemmeno più questione di ‘alto e basso’, o di ‘vecchio e nuovo’: la logica è quella per cui chi è ‘dentro’ il sistema della politica professionale si chiude ermeticamente verso chi è ‘fuori’.

È la logica del partito che garantisce se stesso. E il partito che è stato lasciato fuori dall’accordo, Rifondazione Comunista, ha reagito in modo identico. Dopo aver sostanzialmente preso in ostaggio l’assemblea provinciale del Brancaccio a Torino, Rifondazione ha fatto capire di voler fare altrettanto con quella del 18 a Roma: «prendiamoci il Brancaccio», si è letto sui social.

Non ci sono, dunque, le condizioni minime di lealtà e serenità per garantirvi che l’assemblea non si trasformi in un campo di battaglia tra iscritti a diversi partiti.

In quella assemblea avremmo voluto chiedere, pubblicamente e con forza, come ultima possibilità di una unione più vasta fuori dai confini dei partiti, l’adozione di un percorso veramente democratico (in cui fossero contendibili la leadership, il programma, i criteri di innovazione per le liste): quel percorso dettagliato che avevamo mandato ai responsabili di Mdp, Possibile e Sinistra italiana, senza peraltro ottenere risposta. Rifondazione Comunista (l’unico partito che a questo punto avrebbe partecipato all’assemblea) ci ha annunciato che, invece, avrebbe preteso di votare su una proposta incompatibile con il senso stesso del Brancaccio: e cioè quella di porre condizioni agli altri partiti, come se fossimo un’altra forza politica in cerca di alleanze.

E invece no: il Brancaccio non è una componente. È uno stile, un metodo, un modo di fare politica. Avrebbe avuto successo se fosse riuscito ad essere il motore di un’alleanza tra partiti e forze civiche, tra iscritti a partiti e cittadini senza tessera, non uno strumento per fare alleanze

A questo punto lo scopo del Brancaccio, lo scopo per cui vi avevamo convocati a Roma, è irraggiungibile in ogni caso: e non saremmo responsabili se non dicessimo che un’assemblea senza più nulla da decidere sarebbe solo un rissoso palcoscenico offerto all’impeto autodistruttivo dell’ultimo partito rimasto. L’unica cosa che potrebbe essere partorita ora, infatti, sarebbe una piccola lista di Rifondazione, riverniciata di civismo: ma il Brancaccio era un percorso per una vasta alleanza civica che tenesse insieme i partiti e andasse ben oltre. Qualunque risultato diverso da questo tradirebbe il mandato condiviso da tutti noi: non può e non deve finire con una seconda lista improvvisata, destinata all’irrilevanza e alla coltivazione del risentimento.

È per questo che oggi scendo dal famoso ‘autobus’. Lo avevo promesso a tutti voi, il 18 giugno: «questa ‘cosa’ nasce per ambire a percentuali a due cifre: perché ambisce a recuperare una parte dell’astensione di sinistra. E se dovesse ridursi a una lista arcobaleno con davanti le sagome della cosiddetta ‘società civile’ saremo i primi a dire che il tentativo è fallito». Ecco: oggi, lealmente, vi dico che è così».

A questo punto, chi non si sentiva rappresentato dalla lista Grasso e non voleva astenersi aveva due strade: votare il meno peggio (e per molti questo meno peggio sarebbe stato verosimilmente il M5S e non LEU) oppure provare a mettere in campo una diversa proposta politica, andando a raccogliere le firme in pieno inverno e avendo poco più di tre mesi per fare la campagna elettorale.

Questa seconda strada prende le mosse da un video appello messo online proprio dai ragazzi dell’ex OPG, il centro sociale napoletano che aveva denunciato fin da subito il rischio di creare un secondo arcobaleno egemonizzato dagli ex PD: l’assemblea romana del 18 novembre viene così riconvocata per cercare di dare rappresentanza politica agli esclusi.

All’assemblea fondativa partecipano vari partiti e movimenti della galassia della sinistra antagonista, ovvero:

  • Partito della Rifondazione Comunista (PRC),
  • Partito Comunista Italiano (PCI),
  • Rete dei Comunisti (RdC),
  • Sinistra Anticapitalista (SAC),
  • Partito dei Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo (CARC),
  • Movimento RadicalSocialista (MRS),
  • Risorgimento Socialista (RS),
  • Partito del Sud — Meridionalisti Progressisti (PdS-MP),
  • Democrazia Atea (DA),
  • Clash City Workers,
  • Fronte Popolare,
  • Movimento Pirata Rivoluzionario,
  • Eurostop,
  • nonché singoli membri dei movimenti No TAV, No TAP, No MUOS e No TRIV.

Nasce così Potere al Popolo, nome che invero non piace molto a qualcuno dei tanti soggetti individuali e collettivi che hanno dato vita a questo diverso progetto unario, che mira a dare una rappresentanza politica alle varie istanze di lotta radicate sui territori.

E tuttavia questo nome ha un significato specifico e molto semplice, come chiariva la stessa Viola Carofalo, scelta come portavoce nazionale (“capo politico” ai sensi della normativa elettorale vigente e quindi anche volto mediatico nei pochi spazi televisivi concessi per obbligo di legge), in un’intervista che vale la pena di rileggere, col senno di poi:

«In realtà “Potere al popolo!” è solo la traduzione letterale della parola democrazia.

Oggi molti lo hanno dimenticato, e pensano che democrazia sia andare a votare una volta ogni cinque anni partiti tutti uguali, e per il resto subire le decisioni che vengono prese altrove, non solo in parlamenti che ormai non rispecchiano più il paese, non solo da governi che sono macchine sempre più autoritarie, ma magari in qualche incontro riservato fra banche, finanza, associazioni di impresa, in qualche riunione di tecnocrati dell’Unione Europea…

Con “Potere al Popolo!” vogliamo innanzitutto mandare un messaggio: le decisioni sulla nostra vita e sui nostri territori spettano a noi.

Oggi non decidiamo nemmeno dove passeremo la nostra esistenza, visto che per trovare un lavoro andiamo ovunque. Non decidiamo quando avere un figlio, perché dipende dal contratto che qualcuno ci farà. Non decidiamo come gestire il bilancio di una municipalità o di una città, anche perché ce lo tagliano. Figuriamoci se decidiamo su questioni di politica economica e internazionale… Ecco, noi pensiamo che una democrazia sia tale se non è formale ma sostanziale, se è radicale nel senso che parte dalle radici; se le classi popolari possono effettivamente contare ed esercitare il potere. “Potere” può essere anche una bella parola, è la possibilità di fare, di creare. Pensiamo che non debba essere negata ad alcun essere umano, che sia bianco o nero, povero o ricco.

Poiché diciamo queste cose che non dice nessuno, non temiamo di essere confusi con la destra che oggi, nelle varianti di PD, 5 Stelle e Lega/Forza Italia, è di fatto l’unica forza politica. Nessuno di questi partiti vuole una partecipazione reale dei cittadini, nessuno vuole mettere in discussione le basi economiche di questa società, o la disuguaglianza. Quando anche sembrano parlare nell’interesse del popolo, è per ingannarlo, per dividerci e governarci meglio.

Il 4 marzo milioni di persone vedranno sulla scheda elettorale i soliti partiti che fanno gli interessi di vari gruppi imprenditoriali in lotta fra loro. E poi vedranno un movimento nuovo, che manda un messaggio di rottura, non ha dietro nessuno se non le persone che lo stanno costruendo. Ci sembra una bella novità!».

La novità politica, però, supera solo il primo scoglio — ovvero la raccolta delle firme in meno di dieci giorni effettivi — ma si arresta di fronte alla soglia di sbarramento del 3%.

6. Perché bisognerebbe dare continuità all’esperienza di Potere al Popolo e perché invece, ancora una volta, vinceranno le forze che mirano a distruggere tutto, nell’illusione di poter ricostruire da zero, trovando la formula magica del successo immediato o, peggio ancora, per meri calcoli tattici di convenienza di breve periodo

http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cl/mdcl8d29-003031.htm

«Molti sacrifici hanno sopportato i rivoluzionari russi nella lotta contro il capitale.

Sono periti i migliori rappresentanti del proletariato e dei contadini, combattenti per la libertà, ma non per la libertà che propone il capitale, una libertà con le banche, le fabbriche e le aziende private, con la speculazione.

Abbasso questa libertà; a noi occorre una libertà reale, che sarà possibile quando i membri della società saranno soltanto dei lavoratori.

Ci vorrà molto lavoro, ci vorranno molti sacrifici per conquistare questa libertà.

E noi faremo tutto per questo grande scopo, per la realizzazione del socialismo».

A un secolo esatto dalla Rivoluzione russa e trent’anni dopo il crollo rovinoso di quel modello di società — con tutto il suo portato di incognite per la costruzione futura di una effettiva società egalitaria — restano intatti i problemi di fondo del capitalismo e la necessità di comprendere che la vera libertà non è e mai potrà essere quella che protegge solo ed esclusivamente gli interessi privati delle banche, delle imprese e della speculazione finanziaria.

Il fatto che Lenin usasse esattamente queste parole — banche, fabbriche, aziende, speculazione — per arringare la folla centro anni fa, pur conoscendo bene la complessità dell’opera di Marx, dovrebbe dare un indizio chiaro ai tanti compagni che non comprendono l’importanza di una buona comunicazione e che spesso confondono il processo rivoluzionario coi convegni accademici.

La sinistra di alternativa, alla fine dei due cicli storici di massima espansione egemonica della cultura filo-capitalista, mostra i più incoraggianti segnali di ripresa proprio laddove si riesce a riprendere il filo delle tematiche marxiane classiche, attraverso un efficace opera di rinnovamento del linguaggio, del personale politico e delle pratiche.

Pablo Iglesias di Podemos, sulla questione di una comunicazione chiara e immediata, per riuscire a parlare nuovamente alle masse, qualche anno fa scrisse poche righe assai efficaci che vale la pena di andarsi a rileggere con estrema attenzione:

«César Rendulues, un tipo molto acuto, afferma che la maggior parte delle persone sono contro il capitalismo ma non lo sanno.

La maggior parte delle persone difende il femminismo, anche se non ha mai letto Judith Butler o Simone de Beauvoir.

Ogni volta che vedete un padre fare i piatti o giocare con suo figlio, o un nonno spiegare a suo nipote di condividere i suoi giocattoli, c’è più trasformazione sociale in questi piccoli episodi che in tutte le bandiere rosse che potete portare ad una manifestazione.

E se falliamo nel comprendere che queste cose possono fungere da fattori unificanti, loro continueranno a riderci in faccia.

Quello è il modo in cui il nemico ci vuole.

Ci vuole piccoli, mentre parliamo un linguaggio che nessuno capisce, fra di noi, mentre ci nascondiamo dietro i nostri simboli tradizionali.

È deliziato da tutto ciò, perché sa che finché continueremo ad essere così, non saremo mai pericolosi.

Possiamo avere toni radicali, dire che vogliamo organizzare uno sciopero selvaggio, parlare di popolo armato, brandire simboli, portare ritratti dei grandi rivoluzionari alle nostre manifestazioni… loro ne saranno deliziati!

Ci rideranno in faccia.

È quando metterete insieme centinaia, migliaia di persone, quando inizierete a convincere la maggioranza, persino quelli che votavano per il nemico: è in quel momento che inizieranno a spaventarsi.

Questo è quello che si chiama “politica”, ed è questo che dobbiamo capire.

Ve lo ricordate quel compagno calvo e col pizzetto che nel 1905 parlava di soviet?

Era un genio.

Aveva intuito l’importanza di un’analisi concreta della situazione concreta.

In tempo di guerra, nel 1917, quando il regime russo era sull’orlo del collasso, disse una cosa molto semplice ai russi, fossero essi soldati, contadini o lavoratori.

Disse: “Pane e pace”.

E quando disse “pane e pace”, che era ciò che tutti volevano — che la guerra finisse e che si potesse avere abbastanza da mangiare — molti russi che non sapevano neppure se fossero di “destra” o di “sinistra”, ma sapevano di essere affamati, dissero: “Il tizio calvo ha ragione”.

E il tizio calvo fece molto bene.

Non parlò ai russi di “materialismo dialettico”, gli parlò di “pane e pace”.

E questa è una delle lezioni più importanti del ventesimo secolo».

Le buone pratiche, una comunicazione semplice ed efficace, il rinnovamento del personale politico, l’uso di internet, la democrazia partecipata, la necessità di produrre un governo di cambiamento sono tutti elementi che spiegano molto bene sia il successo di massa di Podemos che quello del M5S, con una differenza notevole: difficilmente sentirete Luigi Di Maio citare Lenin e la rivoluzione russa (per invitare il movimento a riprenderne i valori di fondo e non solo la mera testimonianza nostalgica, tra l’altro).

Proprio Pablo Iglesias, a nome di Podemos, assieme a Jean-Luc Mélenchon (La France Insoumise) ed a Catarina Martins (Bloco de Esquerda), nei giorni scorsi, ha firmato a Lisbona una dichiarazione programmatica che traccia una strada molto chiara e lineare per tutte le forze politiche della sinistra di alternativa europea:

«L’Europa non è mai stata ricca come ora. Eppure non è mai stata così diseguale.

A dieci anni dallo scoppio di una crisi finanziaria che i nostri popoli non avrebbero mai dovuto pagare, oggi constatiamo che i governanti europei hanno condannato i nostri popoli a perdere un decennio.

L’applicazione dogmatica, irrazionale e inefficace delle politiche di austerità non è riuscita a risolvere nessuno dei problemi strutturali che causarono quella crisi.

Al contrario, ha generato un’enorme inutile sofferenza per i nostri popoli.

Con la scusa della crisi e dei loro piani di aggiustamento, è stata intrapresa un’opera di smantellamento dei sistemi di diritti e protezione sociale conquistati in decenni di lotte.

Hanno condannato generazioni di giovani all’emigrazione, alla disoccupazione, alla precarietà, alla povertà.

Hanno colpito con particolare ferocia i più vulnerabili, quelli che più hanno bisogno della politica e dello stato.

Hanno preteso di abituarci al fatto che ogni elezione diventi un plebiscito tra lo status quo neoliberista e la minaccia dell’estrema destra.

È ora di rompere la camicia di forza dei trattati europei che impongono l’austerità e favoriscono il dumping fiscale e sociale.

È ora che chi crede nella democrazia faccia un passo in avanti per rompere questa spirale inaccettabile.

Abbiamo bisogno di porre un sistema oggi ingiusto, inefficace e insostenibile, al servizio della vita e sotto il controllo democratico della cittadinanza.

Abbiamo bisogno di istituzioni al servizio delle libertà pubbliche e dei diritti sociali, che sono la base materiale stessa della democrazia.

Abbiamo bisogno di un movimento popolare, sovrano, democratico, che difenda le migliori conquiste delle nostre nonne e dei nostri nonni, dei nostri padri e delle nostre madri, e che possa lasciare un ordine sociale giusto, praticabile e sostenibile alle generazioni che verranno.

Con questo spirito di disobbedienza di fronte all’esistente, di ribellione democratica, di fiducia nella capacità democratica dei nostri popoli di fronte al progetto fallito delle élite di Bruxelles, oggi facciamo, a Lisbona, un passo avanti.

Lanciamo un appello ai popoli d’Europa perché si uniscano alla sfida di costruire un movimento politico internazionale, popolare e democratico per organizzare la difesa dei nostri diritti e la sovranità dei nostri popoli di fronte a un ordine fragile, ingiusto e fallito che ci porta con passo deciso verso il disastro.

Chi condivide la difesa della democrazia economica, contro i grandi imbroglioni e contro quell’1% che controlla da solo una ricchezza maggiore del resto degli abitati di tutto il pianeta; della democrazia politica contro chi resuscita le bandiere dell’odio e della xenofobia; della democrazia femminista, contro un sistema che discrimina ogni giorno e in ogni ambito della vita metà della popolazione; della democrazia ecologista, contro un sistemo economico insostenibile che minaccia la sostenibilità della vita stessa nel pianeta; della democrazia internazionale e della pace, contro chi costruisce una volta di più l’Europa della guerra; chi condivide la difesa dei diritti umani e i principi fondamentali del buon vivere troverà in questo movimento la propria casa.

Ci stiamo stancati di aspettare.

Ci siamo stancati di credere a chi ci governa da Berlino e da Bruxelles.

Ci mettiamo all’opera per costruire un nuovo progetto di ordine per l’Europa.

Un ordine democratico, giusto ed equo, che rispetti la sovranità dei popoli.

Un ordine all’altezza dei nostri desideri e delle nostre necessità.

Un ordine nuovo, al servizio del popolo».

Certo, passare dalle prospettive di coordinamento internazionale delle lotte locali (“think global, act local”, parafrasando uno slogan ancora degli anni Novanta del secolo scorso, ancora molto attuale) alle miserie italiane del dibattito politico post-elettorale è sconfortante, ma tant’è.

In campo ci sono almeno sette diverse ipotesi per il futuro della sinistra in Italia:

1) quelli che vogliono rilanciare Sinistra Italiana come partito unico della sinistra;

2) quelli che voglio fare qualcosa tipo LEU ma non necessariamente con questo nome;

3) quelli che vogliono rilanciare Potere al Popolo come soggetto unitario della sinistra di alternativa;

4) quelli che vogliono ricreare un nuovo soggetto unitario della sinistra di alternativa (con varie ipotesi di nome, simbolo e composizione);

5) quelli che vogliono l’unità dei comunisti con nomenclatura e simbologia tradizionale;

6) quelli che vogliono rilanciare l’unità della vecchia rifondazione comunista originaria;

7) quelli che vogliono fare il partito transnazionale con Varoufakis (Diem25) e de Magistris (Dema).

Potrebbero anche essere di più, se si allargasse il campo anche a quel poco che si muove dentro al PD — e, d’altra parte, che in LEU ci siano dirigenti, militanti ed elettori che stanno fuori dal PD solo perché c’è Renzi e che senza di lui mai sarebbero usciti dal partito è un fatto che solo un cieco potrebbe non vedere — e ad altre possibili scomposizioni e ricomposizioni di tutte le variabili considerate, ma è del tutto evidente che già questo quadro iper-semplificato è qualcosa di inquietante.

I due processi unitari realizzatisi in occasione delle elezioni politiche del 2018 rischiano, insomma, di rivelarsi come i soliti cartelli elettorali transitori, utili solo ed esclusivamente ad aggiungere nuove sigle alle tante tribù di una sinistra che sembra avere come unico obiettivo di lungo periodo l’incremento dei partiti e non quello degli elettori.

L’analisi del dato politico strutturale sembra cedere il passo, ancora una volta, alla logica tribale di ciascun gruppo (inteso come insieme di dirigenti e militanti) e la creazione di due comunità politiche coese, coerenti e consistenti sembra insomma un miraggio.

Lasciando da parte le sorti di quel gruppo politico — negli ultimi anni guidato da Nicola Fratoianni, segretario della disciolta SEL e della neonata SI — che da dieci anni oscilla perennemente tra la sinistra di governo e quella di alternativa, non riuscendo mai a risolvere la contraddizione profonda di una dichiarata volontà di contrasto alle politiche del PD, che si risolve poi sistematicamente o in coalizioni con questo partito o, come è accaduto nei mesi scorsi, in una lista comune con gli ex dirigenti piddini, in rotta con la gestione muscolare del segretario Renzi (ma comunque fedeli fino a pochi mesi dal voto al governo nazionale a guida Gentiloni e a maggioranza PD), qualche nota conclusiva sull’incognita Potere al Popolo occorre metterla agli atti.

E occorre farlo, pur nella piena consapevolezza che quanto si dirà qui, verrà quasi sicuramente superato dai fatti e disatteso già alle prossime tornate elettorali amministrative e, quasi sicuramente, anche alle europee del 2019.

Va detto subito, con estrema chiarezza, che le elezioni non sono andate bene e non solo perché non si è superato lo sbarramento, ma per la distanza che ha separato Potere al Popolo dal fatidico tre percento: l’un per cento, con 370mila voti, ottenuto il 4 marzo 2018, è senz’altro un risultato negativo, insomma.

Tuttavia si fa un errore di lettura politica clamoroso se si ignora quando inizia la crisi politica della sinistra anti-sistema in Italia, quanto abbiano pesato le disastrose politiche dei vari governi di coalizione della lunga stagione di centrosinistra, quanto pesino ancora oggi le troppe divisioni a sinistra, la doppiezza politica di alcuni dei suoi protagonisti e i continui cambi di nomi, simboli e posizionamenti, senza dimenticare soprattutto quanto tutto ciò abbia favorito il successo del M5S, che — come si è visto — pesca a larghissime mani anche in quell’elettorato che, negli anni del bipolarismo, ha votato convintamente e ripetutamente a sinistra.

Qui e ora occorrerebbe comprendere prioritariamente che se si vuole creare, anche in Italia, un nuovo soggetto politico di massa della sinistra anti-sistema non si può continuare in eterno con le scomposizioni e ricomposizioni del quadro partitico esistente per andarsi a contendere quel milioncino di elettorato fidelizzato.

Potere al Popolo, da questo punto di vista, potrebbe essere il fattore unificante e il campo da coltivare, per poter far crescere realmente e consistentemente l’uno per cento (invece di rimettersi a cercare una nuova alchimia e nuove formule per aggregare il solito tre degli ultimi dieci anni).

Bisognerebbe iniziare diligentemente e con spirito di leale collaborazione a seguire tutte le indicazioni emerse nella prima assemblea nazionale post voto, ed in particolare quelle relative agli strumenti per l’elaborazione della proposta politica per mezzo di internet, nonché quelle relative alla struttura organizzativa, da rendere assolutamente democratica e trasparente.

https://poterealpopolo.org/indicazioni-dopo-assemblea-potere-al-popolo/

Bisognerebbe, quindi, incominciare subito a presentarsi in tutte le tornate elettorali con questo nome e questo simbolo, e farlo per almeno dieci anni, coordinandosi con le altre forze della sinistra di alternativa europea e mondiale ed essendo pronti ad intercettare gli eventuali ex elettori M5S che, avendo istanze politiche e culturali più di sinistra, inevitabilmente, rimarrebbero delusi da un eventuale governo coi leghisti (o peggio ancora da un governo con quasi tutta la destra ex berlusconiana).

Bisognerebbe insomma avere pazienza e lungimiranza politica, invece di ricercare continuamente la scorciatoia per il successo immediato (che puntualmente poi non arriva): fare cioè di Potere al Popolo quella casa comune di tutti i partiti, i movimenti, i singoli e le realtà associative che si riconoscono nelle istanze politiche della sinistra anti-sistema e non aggiungere Potere al Popolo alla lista infinita di tutte queste realtà minuscole in perenne aumento.

L’esatto contrario, insomma, di ciò che si è fatto nell’ultimo decennio e che si è intravisto anche in queste prime settimane post voto.

Ciò che, purtroppo, lascia presagire che le solite logiche tribali e la sindrome di Penelope della sinistra italiana finiranno col prevalere, inesorabilmente, anche questa volta.

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Giuseppe D'Elia

Giornalista e avvocato. Segue da oltre vent’anni le tematiche politiche legate ai diritti dei lavoratori. Musicista nel poco tempo che resta