Violenza sulle donne, spesso l’orco è in famiglia

Simone Ramella
3 min readJun 13, 2007

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A dispetto di stereotipi duri a morire, la violenza sulle donne non ha colore né cultura ma solo un sesso, quello maschile. A confermarlo è un lancio di Stefania Cecchetti pubblicato oggi dall’agenzia Redattore Sociale, che cita i dati del Soccorso violenza sessuale (Svs), un’associazione di volontariato che ha sede presso la clinica Mangiagalli di Milano. Si scopre così che la maggioranza delle vittime non sono vestite in modo provocante e aggredite in luoghi pericolosi delle città. Nel 59 per cento dei casi, infatti, l’aggressore è una persona conosciuta dalla donna e solo nel 37 per cento dei casi un estraneo.

«Non c’è una categoria a rischio — sottolinea Cecilia Zoffoli, assistente sociale del Svs — Ci capita di seguire donne con situazioni di partenza difficili: senza fissa dimora o con una qualche forma di dipendenza, spesso indirizzate a noi da altri servizi socio sanitari. Ma nel 60 per cento dei casi la vittima è una donna integrata, con un lavoro e una famiglia, con un regolare permesso di soggiorno se straniera (le italiane sono il 62 per cento, le straniere il 38 per cento del totale)».

A conclusioni simili erano arrivate anche altre ricerche condotte negli ultimi anni nel nostro paese. Gigi Riva, in un articolo pubblicato in ottobre sull’Espresso, aveva citato per esempio un’analisi Ipsos del 2005 che nell’85 per cento dei casi identificava nel marito o nel convivente l’autore della violenza. E una relazione presentata nel novembre 2003 a Marina di Ravenna, in occasione del secondo convegno nazionale dei Centri antiviolenza e delle Case delle donne, aveva denunciato stereotipi e accenti sensazionalistici usati dalla stampa nei casi di stupro, abuso sessuale e maltrattamento, che «creano un eccessivo e falsato allarmismo riguardo alla percezione della sicurezza dei cittadini», identificando nello spazio esterno, nella strada — storicamente e culturalmente maschile — il luogo del pericolo. In realtà, si legge nella relazione, «la stragrande maggioranza degli episodi di violenza sulle donne accade nei posti che dovrebbero essere più sicuri: la famiglia, il luogo di lavoro, quello di studio».

Alessandra Kustermann, ginecologa alla Mangiagalli e responsabile del centro antiviolenze sessuali, precisa che chi arriva al Svs nella maggior parte dei casi ha già compiuto una scelta, ha deciso di denunciare. Ma si tratta di un passo tutt’altro che facile da compiere: «Spesso la vergogna e il senso di colpa sono troppo forti per decidere di parlare con le forze dell’ordine. Molte ritengono di aver sbagliato, di non essere state abbastanza attente, di non aver lottato a sufficienza. E poi parlarne vuol dire ricordare particolari percepiti come degradanti. Queste donne si sentono contaminate nel proprio io più profondo, sporche. Ecco perché la prima cosa che chiedono quando arrivano da noi è di lavarsi».

Per denunciare ci vuole un coraggio che spesso è frutto di un percorso, quello che gli operatori del Svs cercano di far compiere alle donne che assistono. Il primo passo è la visita medica, che ha lo scopo di prevenire le malattie sessualmente trasmissibili attraverso la somministrazione di antibiotici. A chi la vuole viene somministrata anche la cosiddetta “pillola del giorno dopo”. Le donne sono inoltre inserite in un programma di richiami per il controllo dell’Hiv a uno, tre e sei mesi di distanza dallo stupro. La visita serve inoltre a raccogliere eventuali prove nel caso la vittima decida — può farlo entro sei mesi — di intraprendere un iter giudiziario.

L’intervento forse più qualificante del Svs, scrive ancora Stefania Cecchetti citando Cecilia Zoffoli, è quello di sostegno psicologico. La violenza, infatti, non è soltanto una ferita del corpo, «ma soprattutto della mente. Per questo forniamo un’assistenza psicologica che in molti casi si rivela fondamentale per elaborare la fase acuta del trauma. Certo, non possiamo impostare terapie a lungo termine, perché siamo un centro di pronto intervento: per questo lavoriamo in rete con altri servizi sul territorio, dai consultori alle Caritas. Cerchiamo di capire, innanzitutto, se la vittima ha le risorse per rimettersi in piedi, se ha una rete di sostegno, se ha un posto dove tornare». E rischia di essere proprio questo il problema più difficile da risolvere, se l’orco è in famiglia.

Pubblicato originariamente su Ramella.org

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Simone Ramella

Sono un precario ante litteram che da piccolo sognava di fare il giornalista e poi ha fatto anche molte altre cose.