Fake news, che palle.

Simone Spetia
6 min readSep 25, 2017

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Ancora una volta ci ritroviamo qua, così come in altri luoghi digitali, a raccontarci sempre la stessa storia. Lo svolgimento è questo.

  1. Qualcuno, politico o mezzo di comunicazione, decide di intraprendere una battaglia contro le fantomatiche fake news e addita la rete come fonte di tutte le falsificazioni
  2. Noi, che ci occupiamo un po’ dei temi dell’informazione e che ci sentiamo una sorta di evoluzione della specie, perché consideriamo fuse la vita digitale e la vita fisica, ci incazziamo
  3. Tramite i mezzi che reputiamo più consoni, in genere quelli digitali, proviamo a spiegare cosa non funzioni in questo concetto.
  4. Generalmente veniamo respinti con perdite o, più di frequente, non calcolati.

Mario Tedeschini Lalli, che dedica un bel post all’ipotesi che la Rai si doti di una struttura di fact checking, ha combattuto queste battaglie per molti più anni di me e lo sa perfettamente: se non si è stancato lui, non vedo perché debba stancarmi io e quindi non mi esimo. Chiedo scusa a tutti se sarò un po’ didascalico e ripeterò alcune cose già dette e a Mario per il titolo del post.

Punto uno. Le cosiddette “fake news” non sono un fenomeno recente. Il fenomeno recente (e quindi, per certi versi, l’anomalia storica) è il giornalismo come ci piacerebbe che fosse, ossia attento solo ai fatti, analitico, verificato. Ha poco più di cent’anni, è un grande conquista per tutti noi e per le nostre democrazie, ma ha continuato a convivere con la produzione di bufale, falsi e propaganda. Questo è particolarmente vero in Italia dove anche i cosiddetti “giornaloni” mescolano contenuti alti a contenuti da tabloid, mentre in altri luoghi del mondo (USA e UK su tutti) le cose tendono a rimanere separate, con testate ed editori diversi.

Punto due. Le fake news dunque non nascono con internet, ma sono un prodotto molto antico e, in base alle circostanze storiche, politiche e mediatiche, hanno mostrato forti capacità di resistere nel tempo alla loro stessa inconsistenza. Uno degli esempi più rappresentativi lo abbiamo studiato tutti o ne abbiamo sentito parlare ed è la donazione di Costantino, il documento con il quale — tra le altre cose — si stabiliva la supremazia del potere papale su quello imperiale. Ci sono voluti circa 11 secoli perché Lorenzo Valla, nel ‘400, ne smontasse la credibilità, con parole che lo rendono un capostipite del giornalismo moderno. In particolare per quello “svellere l’errore dalle menti”

Non mi accingo a scrivere per vanità di accusare e lanciare filippiche: questa che sarebbe una turpe azione, sia lontana da me. Scrivo, invece, per svellere l’errore dalle menti, per allontanare, con moniti e rimproveri, dalle colpe e dai delitti.

Punto tre. La persistenza delle bufale ha, a mio giudizio, molto a che fare con ciò che siamo e ciò in cui vogliamo credere.

New York Sun, agosto 1835

Qualsiasi fact checker o semplice giornalista potrà raccontarvi dei problemi quotidiani che ha nel convincere il suo pubblico del fatto che la storia nella quale hanno voluto credere fino ad un minuto prima è falsa. Ma anche questo non è un fenomeno nuovo e non nasce su internet. Nel 1835 il New York Sun pubblicò in sei puntate quella che è rimasta nota come “The Great Moon Hoax” (La grande bufala della Luna), raccontando che un astronomo britannico era riuscito, con il suo eccezionale telescopio, a vedere com’era la vita sul nostro satellite, descrivendone minuziosamente gli abitanti. Edgar Allan Poe, già abbastanza infastidito per il fatto che considerava la cosa un semiplagio di un suo racconto uscito nel giugno dello stesso anno e irritato perché ne avrebbe voluto scrivere il seguito, provò a confutare la storia.

Scrissi un’analisi di questa storia, dimostrandone chiaramente il suo carattere di finzione, ma rimasi attonito nello scoprire come così poche persone fossero disposte ad ascoltarmi.

Punto quattro. Obiezione classica: ma la velocità di diffusione che i produttori di notizie false possono avere grazie alla rete non ha paragoni storici possibili. Replica classica: la rete è molto veloce a diffondere il falso, altrettanto veloce a smentirlo. Il problema, ribadisco, è nella testa di chi legge.

Punto cinque. La storia anche recente del giornalismo italiano (stampa, radio e tv, non internet) è ricca di notizie false, date male, o parziali. Inutile che ne scriva io, perché se ne è occupato meglio di me Luca Sofri nel suo libro, del quale qua trovate un estratto.

Punto sei. I media cosiddetti mainstream e, da quando il rapporto con il pubblico è diventato più diretto, anche i singoli giornalisti hanno un’enorme responsabilità nella scarsa accuratezza con la quale tendono a trattare anche le notizie apparentemente più inoffensive: ogni cedimento è un picconata al lavoro di tutti, anche dei tanti che cercano di farlo come si deve. Facciamo un esempio stupido: mettiamo che io debba scrivere cinque righe sul fatto che un eroico vigile del fuoco, in un paesino della provincia nella quale vivo, ha salvato un gatto su un albero. Se è successo in via Garibaldi e ho scritto corso Mazzini, in tutto il comune sapranno che sono stato impreciso. Se ho scritto che il gatto era su un pino marittimo e si trattava di un faggio, chiunque abbia una minima conoscenza del territorio e sa che in quella zona non crescono pini marittimi saprà che ho fatto un lavoro poco documentato. Due errori possono essere perdonati, specie nel caso di una storia così piccola, ma bastano a instillare il germe della diffidenza, che al prossimo errore si tramuterà in sfiducia, la quale tende ad estendersi a tutta la categoria. Da qui all’uso politico di questa sfiducia (Lugenpresse, espressione largamente usata da Pegida e AFD) è un attimo.

Punto sette. C’è poi tutto un altro capitolo, solo in parte relativo alla stampa cosiddetta mainstream, che riguarda il tipo di fake news. Per una bella classificazione vi rimando a questo post di Valigia Blu. Spero che Arianna Ciccone mi perdonerà se ne pesco questo schemino che mi pare particolarmente utile

Fonte: Facile dire fake news. Guida alla disinformazione

Mi sembra utile ricordare, a questo proposito, che le cosiddette fake news hanno molte sfumature, che a volte un’interpretazione politicamente forzata di una notizia sfuma nella bufala in maniera talmente sottile che è difficile distinguere l’una dall’altra. E che una delle fonti primarie delle notizie false da sempre è la propaganda politica. In questo senso ha perfettamente ragione Mario nel suo post: una struttura di fact checking avrebbe innanzitutto il dovere di occuparsi di questa, perché se veramente il giornalismo e la libera stampa vogliono essere il cane da guardia della democrazia (prima ancora che del potere, come vuole il vecchio adagio) è da là che bisogna partire.

Una questione epocale. Esiste un problema culturale di fondo, che esula però dalle nostre possibilità di intervento: la quantità di cambiamenti tecnologici, le possibilità di connessione e la disponibilità di informazioni che abbiamo raggiunto era impensabile solo dieci anni fa. Non è solo l’ormai già vecchio tema del sovraccarico (overload) di informazione, ma più in generale la condivisione, la velocità di navigazione, l’apertura del privato al pubblico, la grande narrazione sulla disoccupazione tecnologica; il tutto correlato e interconnesso ad una fase di cambiamenti politici e geopolitici radicali, dei quali il principale è stato la globalizzazione. Il tutto genera smarrimento, paura, talvolta rifiuto e spinge all’identificazione di un nemico o di qualcuno a cui dare la colpa del fatto che le cose non sono semplici come una volta. Può darsi che il disoccupato della Germania Est se la prenda con gli immigrati o con l’Europa e il giornalista o l’operatore del mondo dei media se la prendano con la rete, che ha effettivamente scosso dalle fondamenta un sistema dell’informazione, il quale però aveva già al suo interno i germi di una possibile decadenza, non tanto (o non solo) nei modelli di business vecchi, quanto in una mentalità antica e abitudinaria nelle stesse persone che ci lavorano e che hanno visto il loro universo implodere a velocità stratosferiche. “E’ colpa di internet”, un mantra che abbiamo sentito ripetere per anni da editori, direttori, giornalisti e al quale abbiamo provato ad opporci con scarso successo, sapendo perfettamente che era un modo più o meno cosciente di nascondersi una verità più cruda e fastidiosa. Quindi non mi stupisce affatto che ancora oggi, nel 2017, la Rai possa far passare uno spot di quel genere, perché c’è un intero pezzo dell’informazione italiana che concorda perfettamente con quel tono apocalittico.

Disclaimer. Chi scrive ha sicuramente commesso qualche imperdonabile errore, tra i quali quello di sbagliare il nome della strada nella quale è stato salvato un gattino è sicuramente il minore. Quando l’ho ritenuto opportuno mi sono corretto, in diretta o per vie digitali. Probabilmente non basta e per questo chiedo scusa.

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Simone Spetia

Giornalista a Radio24. Padre. Le opinioni sono mie, non della radio. Faccio informazione dalle 13 alle 14 con Effetto Giorno. Amo il Corpo Forestale (semicit)