Il re di Roma che tutti dimenticano

Tito Tazio e Romolo, un trono per due

Storie di Storia
4 min readJun 10, 2023
Il Ratto delle Sabine, dipinto di Jacques Stella (XVII secolo)

Alzi la mano chi non ricorda i re di Roma: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo.

D’accordo, magari dai tempi della scuola i nomi e l’ordine di successione ce li siamo un po’ dimenticati e abbiamo dovuto sbirciare su Internet, ma sul numero siamo sicuri: sette.

Sette?

E se invece ci fossimo scordati di qualcuno?

Alla nostra lista manca infatti un nome: Tito Tazio.

Chi era costui?

Tito Tazio era re dei Sabini al tempo di Romolo; e proprio presso quel popolo e altre genti vicine i Romani, in buona parte scapoli avventurieri senza grosse prospettive snobbati da tutti, avevano trovato mogli con l’inganno e la violenza, nell’episodio noto come il Ratto delle Sabine, così narrato da Tito Livio nel I libro della sua opera Ab Urbe Condita:

Quando arrivò il momento stabilito dello spettacolo [a cui i Romani avevano invitato i popoli vicini] e tutti erano concentrati sui giochi, fu dato il segnale e i giovani romani si misero a correre per rapire le ragazze presenti. La maggior parte cadeva nelle mani del primo che incontrava: quelle più belle, destinate ai senatori più importanti, erano portate a casa di costoro da plebei a cui era stato dato tale compito.

La vendetta dei Sabini e dei loro alleati era inevitabile, scoppiò una guerra, ma l’intervento improvviso – e, diciamolo, decisamente improbabile – delle Sabine rapite scongiurò un nuovo spargimento di sangue, secondo Livio:

Imploravano ora i mariti, ora i padri perché non compissero un crimine orribile, macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero ed evitassero di commettere parricidio verso i figli che avrebbero partorito, figli per gli uni e nipoti per altri.

In apparenza disposte ad accettare di buon grado la loro nuova vita di spose romane o addirittura già innamorate dei loro improvvisati consorti, le donne sabine si fecero quindi ambasciatrici tra il popolo d’origine e quello di adozione.

Grazie ai loro sforzi, e nonostante gli inizi a dir poco burrascosi, i rapporti tra Romani e Sabini diventarono perciò così buoni da portarli a riunirsi sotto l’autorità congiunta dei rispettivi re:

Da allora i due re ebbero un regno non solo comune ma anche unito.

Ecco quindi Romolo diventare re anche dei Sabini, e Tazio essere a sua volta anche re a Roma, almeno fino alla sua morte, quando Romolo rimase alla guida di entrambe le genti.

Dopo Romolo fu eletto re il sabino Numa Pompilio, già marito di Tazia, figlia di Tazio, come racconta lo storico Plutarco nelle sue Vite Parallele:

Tale era la sua fama che Tazio, collega di Romolo, lo scelse come genero, dandogli la sua unica figlia.

Morto Numa fu scelto come sovrano il romano Tullo Ostilio, che secondo Livio dovette vedersela con l’ostilità dei Sabini, e dopo di lui salì al trono Anco Marzio, figlio di un Romano e della figlia di Numa e Tazia: un simbolo vivente dell’unione dei due popoli.

Ma si tratta di Storia o di finzione?

Se consideriamo che i sette re di Roma di solito ricordati dalla tradizione sono figure che ci arrivano attraverso uno spesso velo di leggenda, è facile immaginare che lo stesso valga per il personaggio di Tito Tazio, un mito nato come espressione dell’interazione (in realtà forse molto meno positiva) tra i Sabini e il nascente Stato romano, se non addirittura di una dominazione dei primi sul secondo; così come i re Tarquini rappresenterebbero invece un’eco assai romanzata dell’egemonia sulla giovane Roma della vicina ma più sofisticata civiltà etrusca, cosa che dovette causare un certo imbarazzo ai suoi orgogliosi abitanti dei secoli successivi.

Questa, quindi, è forse l’origine della vicenda di Tito Tazio, re di Roma “dimenticato”: un racconto che oggi possiamo definire senza dubbio “problematico” per il suo esaltare la violenza degli uomini romani e il compito ingrato imposto alle Sabine, chiamate a risolvere una crisi causata da altri; e che tuttavia resta un’importante testimonianza della funzione di propaganda e revisionismo che il potere ha cercato di attribuire alla tradizione storica dai tempi più antichi fino a oggi.

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