Diario di viaggio dal Frejus alla Svezia

Destinazione Stoccolma

Terre di mezzo
13 min readJun 19, 2015

“Ha il visto?” domanda la poliziotta. “No”, replica l’uomo con l’aria rassegnata di chi sa già come andrà a finire. “Dove abita?”. Silenzio. “In Francia o in Italia?”. “In Francia”. La parola si rompe a metà, come se la voce non fosse in grado di sorreggerla fino in fondo. L’autobus è appena arrivato alla frontiera con la Francia, dopo quattro ore di viaggio da Milano. Una volante della gendarmeria ferma la corsa per il controllo di routine. È a questo punto che cominciano i problemi per l’uomo seduto alla quinta fila.

Il suo sguardo, in bilico tra colpevole e disperato, si perde all’orizzonte, mentre giù dal mezzo due poliziotti , un uomo e una donna, confabulano con in mano il suo documento e quello di altri tre passeggeri: una coppia di cingalesi e un africano. Quando i gendarmi tornano a bordo, la donna distribuisce i documenti, mentre l’uomo chiama a sé il pakistano seduto alla quinta fila, piegando indice e medio. Raccatta il suo zaino nero e scompare nel buio, insieme ai poliziotti. Sulla quarantina, vestito con un golf beige a strisce, tra le mani aveva un libro sull’Islam, prima di salire a bordo.

“Lo porteranno alla polizia italiana, dove gli faranno un verbale per ingresso irregolare. Dicono che il suo documento fosse truccato”, spiega il conducente.

I respingimenti alla frontiera sono storie di ogni giorno. Di casi così, racconta, ce ne sono ad ogni viaggio. Sul mezzo della sua collega, questa mattina, ne hanno fermati cinque. Molti altri tentano di uscire dall’Italia facendosi portare in auto con gli “scafisti di terra” che trovano a Milano. “La Francia non vuole più ospitare le miserie del mondo”, sintetizza l’autista del bus.

Alla stazione degli autobus di Parigi, destinazione Copenhagen.

Nel novembre del 2013 abbiamo percorso in autobus il tragitto che centinaia di migranti stanno compiendo da anni, da Milano a Stoccolma, passando da Parigi. Ne riproponiamo, aggiornato, il diario di viaggio. Per renderci conto che la nostra cara Europa è attraversata da un’umanità in transito alla ricerca di una nuova casa, di una nuova vita.

PARIGI

سورية الحرة. “Suriya al hurryia”. “Siria libera”. Si legge su tutte le pareti del Bistrot Syrien, scritte come pagine di una diario. Il locale è un angolo di Siria ritagliato nel centro di Parigi, al 10 di Boulevard de Bonne Nouvelle. I muri del locale, però, di “buone novelle” ne portano ben poche: più che altro conservano le grida di rabbia della comunità siriana che vive a Parigi fin dagli anni Settanta, fuggita dalle grinfie del padre di Bashar al Assad, il dittatore di oggi. È un non-segreto che dentro quelle mura hanno dormito in migliaia di profughi, dal 2013, per evitare d’infilarsi nell’opprimente sistema d’accoglienza francese, che fa di chiunque ci transiti un nuovo cittadino francese. È l’“integrazione per assimilazione”. La Francia chiede al migrante di lasciare la vecchia cultura per indossarne una nuova. Non tutti sono disposti.

Jassem al Bistrot Syrien

Jasem avrebbe voluto raggiungere il Nord Europa. Ma ha avuto l’opportunità di scappare qui, a Parigi, e l’ha colta al volo. Lavorava come traduttore per Yves Debay, un giornalista franco-belga. Era il gennaio 2013. Il 17 un commando armato, non identificato, li rapisce: un cecchino colpisce il giornalista nella fuga. Jasem è salvo per miracolo. L’aver rischiato la vita gli vale un biglietto d’aereo per Parigi.

Anche Mohamed ci è arrivato per caso, a Parigi. È “figlio d’arte”: profugo di una famiglia profuga. Viveva a Yarmouk, ghetto palestinese al confine sud di Damasco. È stata la Maison des journalistes di Parigi a concedergli un visto per la Ville Lumiere. I primi mesi sono stati difficilissimi per Mohamed: ogni giorno un rosario di amici d’infanzia o parenti morti sotto le bombe. Ci risentiamo qualche settimana fa, un anno e mezzo dopo il primo incontro al Bistrot Syrien. Risponde via Facebook: “Ciao caro. Io sto bene e tu? Beh, sono ancora a Parigi. Scrivo per due giornali, uno di Londra e uno di Beirut. Sto anche facendo domanda per fare un master e sto finendo di preparare il mio primo libro. Fra due mesi dovrebbe essere pubblicato, se tutto va bene! Parlo un pochino di francese ma ora lo capisco e sto salendo di livello”.

Sono pochissimi i siriani che si sono fermati a Parigi come Mohamed. Nel 2014 hanno fatto domanda d’asilo in Francia in 3.150 siriani, 5 mila dal 2011.

COPENHAGEN

Una casa occupata e una caserma: i due volti dell’accoglienza in Danimarca. Una è la Trampolinhouset, la “casa trampolino” da cui i migranti sperano di poter spiccare il volo verso una nuova vita, fuori dal circuito dell’accoglienza. L’altra è la caserma di Sjaelsmark, a 20 minuti di autobus da Copenhagen.

Sjaelsmark, profughi all’ingresso. Senza un loro “invito” è imèossibile varcare i cancelli.

Il suo massiccio profilo svetta nella piatta campagna danese. Pesanti cancelli rinchiudono oltre 500 migranti in una prigione dorata, in gestione alla Croce Rossa. Uscire da quel circuito è complicato: a Sjalsmaek si trovano i richiedenti che attendono un verdetto alla loro domanda. Fino a quel momento, sono costretti a rimanere dentro la struttura. Gli stanzoni sono ampi, il cibo buono e le strade pulite. Ma non si vede il futuro, da Sjaelsmark. Abo, dall’Afghanistan, è arrivato qui colmo di speranze. “Da tre anni non riesco a lasciare la struttura -dice -. I pocket money che ricevo (2,5 euro, ndr) non sono nemmeno sufficienti a pagare il biglietto dell’autobus”. La sua domanda è sospesa perché al momento dell’identificazione le autorità afghane lo hanno accusato di omicidio.

In Danimarca ci sono rifugiati parcheggiati nei centri di accoglienza da dieci anni.

La Trampolinhuset, al contrario, all’esterno appare un edificio anonimo, nascosto nella penombra delle vie semibuie di Nørrebro, quartiere nord di Copenaghen. Varcata la soglia, il mondo che si schiude è tutto diverso: quattro operatori e circa 50 volontari animano la Trampolinhuset con workshop, incontri formativi sul tema dell’asilo, corsi di arabo, danese e inglese, partire di calcio e feste. Oltre a tre sportelli legali con cui aiutano nelle pratiche i richiedenti asilo. Nella casa di sono 200 rifugiati. All’ingresso c’è il bancone del caffè dove paga solo chi ha abbastanza soldi, per gli altri è tutto gratis. Sulla destra si allarga la sala principale, che il venerdì sera diventa una pista da ballo. Il corridoio tra i due ambienti ospita da una parte disegni e opere di alcuni dei richiedenti, mentre dall’altra parte una minuscola staccionata bianca ricava in qualche modo uno spazio giochi per i bambini. L’andirivieni continuo ha come sottofondo un vociare confuso, di lingue provenienti da ogni latitudine.

“Siamo nati perché la politica per 15 anni ha usato i rifugiati come capro espiatorio per convincere i danesi che erano loro la causa della disoccupazione -spiega Morten Goll, di mestiere videoartista devoto alla causa dei migranti tanto da fondare questo spazio sociale-. Non possiamo accettare che ci siano persone nel nostro Paese parcheggiate in mega strutture di accoglienza, ma abbandonati a se stessi”.

La mente corre all’emergenza nord Africa italiana, al modo con cui il governo Berlusconi ha gestito nel 2011 l’arrivo dei profughi in fuga dalle bombe in Libia. Ma questa è la Danimarca, uno dei Paesi che nell’immaginario di chi sta a sud delle Alpi dovrebbe accogliere meglio chi scappa da guerre e persecuzioni. Invece Mortgen Goll racconta che il governo di Copenaghen spende 20 milioni di euro l’anno per un sistema d’accoglienza inutile: “I profughi sono liberi di lasciare i centri, ma sono a decine di chilometri dalla città e non hanno i soldi per farlo”.

Il documento che la polizia rilascia agli ospiti delle strutture, gestite dalla Croce rossa danese, non permette di cercare un impiego.

Si deve attendere la risposta dalle autorità e il limbo può durare anche dieci anni, sostiene Goll. “Priviamo queste persone della possibilità di avere uno scopo nella vita. È disumano, per quanto le condizioni di vita all’interno dei campi siano più che dignitose”, conclude il fondatore di Trampolinuhset.

Didascalia da scrivere

Lo conferma anche Tatouz, 24 anni, da Aleppo. Da tre anni è senza lavoro. Dovrebbe vivere in un campo, ma grazie alla Trampolinhuset è riuscito a farsi degli amici e a fidanzarsi con una ragazza danese. “È una sofferenza sentirsi inutili per così tanto tempo”, racconta. La sua richiesta d’asilo è stata rispedita al mittente con la motivazione che in Siria non c’era alcun conflitto nel 2010, quando è arrivato in Danimarca. I primi a scappare dalla Siria sono stati i curdi, ma hanno trovato la porta dell’asilo chiusa. “Mi hanno rifiutato la domanda perché pensano che sia del Pkk (partito dei lavoratori curdi iscritto dal Dipartimento di Stato americano tra le organizzazioni terroristiche mondiali). Non è colpa mia se dei parenti ne fanno parte. Io non ci ho mai avuto nulla a che spartire”, si difende. La polizia danese vorrebbe riportarlo in Siria, ma non può per via della guerra. Così Tatouz resta sospeso: non più siriano e nemmeno danese, non appartiene più a Damasco e non ancora a Copenaghen. «Il 99 per cento dei siriani ora ottiene l’asilo in tempi rapidissimi», dice con un po’ di fastidio. Paradossale: Tatouz avrebbe gli stessi diritti degli altri ma l’essere arrivato troppo presto lo condanna ad essere sopravanzato nella scala delle priorità dagli ultimi, ormai conclamate vittime di guerra. Lui, invece, è ancora ostaggio della burocrazia.

Fino al 2014, per coprire le spese e gli stipendi dei quattro assunti, Trampolinuset ha ricevuto un finanziamento di circa 500mila euro dalla Oak foundation, ente benefico di base in Gran Bretagna. Oggi la Oak ha finanziato un programma specifico sulle richiedenti asilo donne, mentre il programma di accoglienza del 2015 è coperto dai fondi del Danish immigration service.

Secondo il Danish refugee service nei primi quattro mesi del 2015 la Danimarca ha concesso lo status di rifugiato a 4.595 persone (erano state 6.110 l’anno precedente), accettando oltre il 90% delle richieste, un record tra i Paesi dell’Unione europea.

MALMO

Malmö è la porta d’ingresso della Svezia. Ma il motivo per cui la città è più famosa è l’aver dato i natali al calciatore di origine bosniaca Zlatan Ibrahimovic. Malmö è una città meticcia e concentra il suo mix culturale in uno dei suoi sobborghi: Rosengrad. Sorto tra gli anni Sessanta e Settanta, Rosengrad è una tundra di condomini, accanto ai quali spuntano, a tratti, impensabili cupole arabeggianti. Un cortocircuito architettonico che fa sentire a casa le decine di migliaia di profughi che raggiungono la stazione di Malmö. Solo una volta toccata la sua banchina l’odissea può dirsi conclusa.

Ibrahim è appena arrivato. Ha il viso scavato dalla stanchezza: la sua casa è nell’unica valigia che si porta appresso. È il primo a riconoscermi: “Ehi, italiani?”, chiama. Non sa nessun altra parola: per comunicare serve la traduzione di Tarif, tunisino giramondo che ora vive della mance che riceve dai migranti arrivati a Malmö che chiedono un aiuto o un passaggio in macchina. Ibrahim sarà il suo prossimo cliente: il ragazzo era uno dei tanti siriani in attesa di mettere insieme qualche risparmio per intraprendere l’ultimo tratto di viaggio, dal centro di accoglienza milanese di via Aldini (dove ci siamo conosciuti) fino alla Svezia.

Ibrahim, dopo aver lasciato la sua Aleppo, è stato in Turchia e da lì è partito per l’Italia.

Qualche giorno a Milano, poi Ventimiglia, Parigi, Liegi, Copenhagen e Malmö. Ha attraversato ogni frontiera a piedi, di notte, quando i controlli sono più radi. Il primo luogo che conoscerà a Malmö sarà il Migrationsverket, l’ufficio immigrazione del ministero dell’Interno svedese.

Alaa ci è andato sei mesi fa e ormai si sente uno svedese. Tra cinque anni spera che il suo sentimento si trasformi in un passaporto dell’Unione europea. Sul suo viso punteggiato da una barba cortissima, bianca e grigia, si legge la serenità di chi sa di essere scampato alla morte. E non ha più paura a raccontare la sua storia.

“Vivo in un sobborgo di Malmö, ho degli amici qui. Ho tutti i documenti validi per cercare un lavoro, mi hanno insegnato lo svedese e l’inglese. Ora posso ricostruirmi una vita”, racconta.

Il suo viaggio, per quattro persone, è costato 9.500 euro. Finiti nelle tasche dei trafficanti che smerciano uomini in tutta Europa. Sono originari di Aleppo, bella città diventata ora una prigione, da cui fuggire è difficile. Almeno fino a quando non si corrompono i secondini alle frontiere. L’odissea comincia con 500 euro pagati al confine con la Turchia. C’è poi il passaggio fino ad Alessandria d’Egitto, da dove partono le carrette del mare a Lampedusa. Al conto si aggiungono altri 500 euro. Da Alessandria il “biglietto” per salpare costa circa 2.500 euro. Alaa e la sua famiglia naufragano e scampano d’un soffio l’appuntamento con la morte. Erano su una delle barche affondate in ottobre. Risalgono l’Italia in treno, perché sanno che Milano è la porta d’Europa. E qui il viaggio di Alaa ha avuto la sua svolta. Arriva in Stazione centrale, come tutti: “Ti avvicinano tante persone per proporti le traversate dell’Europa. Dipende da quanto sei disposto a pagare”. Fino a seimila euro, per Alaa, si può fare. Tanta è la richiesta di un gruppo di falsari che a Milano gli procura quattro documenti falsi. Quei pezzi di carta, secondo cui Alaa è di nazionalità greca, gli hanno risparmiato la fatica di risalire l’Europa, le palpitazioni ad ogni frontiera, la paura di non farcela. In fondo ne è valsa la pena. “Siamo partiti da Malpensa, volo diretto per Stoccolma: nessuno ci ha detto niente”.

La risalita del corridoio Nord finisce quando Alaa spegne la sigaretta sul marciapiede di fronte al Migrationsverket e scandisce:

“Ho tutto qui. Qui sanno cosa sono i diritti umani, mi trattano come una persona e non come una pietra”.

È questo il sogno che spinge tanti verso Nord. La memoria corre ai due momenti più tragici del suo viaggio. In Egitto, quando ha assistito ai pestaggi dei trafficanti di Alessandria, che volevano incutere il terrore in chi ancora doveva prendere il mare. E in mare, quando pensava di non farcela, quand’era certo che quel legno infossato dal peso delle 250 persone a bordo sarebbe diventata la sua bara in fondo al Mediterraneo. Scaccia quelle immagini dagli occhi con un battito di palpebre. Apre il viso olivastro in un sorriso cordiale e porge la mano per salutare. “In bocca al lupo”, dice. Un augurio a tutti coloro che nonostante le sventure già subite, le sofferenze, la paura, la mancanza di denaro, il timore di finire in carcere o essere rispediti indietro, risaliranno lungo il corridoio Nord, in cerca di quella pace che Alaa ha trovato in un sobborgo di Malmö.

STOCCOLMA

Tra l’inferno e il paradiso ci sono 4.800 chilometri. La distanza che separa Damasco da Stoccolma. Il percorso per completarli però è tortuoso, tanto che la strada alla fine può diventare di oltre 10 mila chilometri. 81 mila profughi (soprattutto siriani) lo scorso anno hanno intrapreso le rotte dirette alla capitale svedese. Il Migrationsverket, il dipartimento dell’immigrazione svedese, a febbraio stimava per il 2015 da un minimo di 80 mila domande fino ad un massimo di 108 mila. Una situazione simile si è avuta solo negli anni della guerra in Jugoslavia. In continuo incremento, in particolare, la presenza di minori non accompagnati: a maggio erano 7.049 (in Germania 4.400, in Italia 2.505). “Gli immigrati sono una risorsa che contribuisce a tenere costante la popolazione”, spiega Lara Olivetti, avvocato di Asgi (Associazione studi giuridici dell’immigrazione) e consulente di Save the children in Svezia.

Abbad, seduto sugli scalini di un ingresso secondario alla Chiesa di Santa Clara.

Centralstation è l’approdo alla terra promessa. È la meta finale di autobus, treni e automobili che trasportano i profughi siriani nella capitale svedese. Quando un profugo arriva a Stoccolma deve recarsi ad una stazione di polizia per cominciare la procedura di asilo. Il richiedente viene trasferito in uno dei centri di accoglienza temporanea nei dintorni di Stoccolma e nel giro di 60 giorni, termine stabilito dalle direttive europee sull’asilo, mai rispettate nel resto del continente, l’ufficio immigrazione valuta la sua richiesta e gli offre un posto dove andare, più 1.800 corone svedesi al mese (circa 200 euro al mese), di cui 800 per le spese dell’affitto e le altre per trasporti e cibo. “Il modello svedese prevede un’immediata indipendenza economica, con un primo aiuto anche dello Stato”, commenta Olivetti.

Anche in Svezia c’è chi resta fuori dal sistema. Per esempio, quelli a cui le autorità italiane hanno preso le impronte. In questi casi devo chiedere asilo all’Italia. In realtà potrebbero arrivare nel Paese scandinavo senza spendere migliaia di euro per poi essere rispediti indietro. In Svezia, infatti, non ci sono limiti alla concessione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro. A chi sono state prese le impronte in Italia conviene allora restare nel Belpaese e attendere la concessione dello status di rifugiato e solo dopo andare in Svezia e cercare un lavoro.

Otterrà poi il permesso di soggiorno dalle autorità svedesi senza alcun problema. Ma quasi nessuno ha queste informazioni.

E così chi non ha le carte in regola finisce in un centro apposito, a Solna. È una specie di limbo. Abbad, palestinese di Yarmouk, sud di Damasco, è uno di questi. In cerca di un aiuto, dopo aver appreso la notizia del rifiuto, Abbad ha seguito la guglia verdognola della chiesa di Santa Clara, 5 minuti a piedi dalla stazione. Nei momenti di massimo flusso dormono anche 200 persone nelle navate dell’edificio, soprattutto eritrei che temono di essere segnalati alle autorità del regime se si mostrano nei canali ufficiali dell’immigrazione. Abbad attende il suo ritorno forzato in Italia, dove gli hanno preso le impronte: “La polizia svedese sta aspettando che quella italiana si prenda carico del mio caso -racconta -. Al momento è difficile capire il futuro: non riesco ad immaginarmi nemmeno cosa accadrà domani”. Il paradiso non è stato esattamente come lo aspettava: da otto mesi vaga alla ricerca di un senso del suo viaggio, della fatica e dei sacrifici. Silenzioso, a fine intervista, si acquatta sui gradoni della chiesa e fuma un po’ d’erba, guardando l’orizzonte.

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