GETTIAMO VIA GLI ATTREZZI DEL PADRONE: LIBERARSI DAL PARADIGMA DELLA PATOLOGIA — Nick Walker, PhD

traduzioni dal basso
15 min readAug 10, 2023

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Articolo originale: https://neuroqueer.com/throw-away-the-masters-tools

Traduzione autorizzata dall’autrice.

Ho scritto la versione originale di “Throw Away the Master’s Tools” nel 2011, raccogliendo diverse riflessioni che avevo postato in forum privati di discussione online sull’autismo a partire dal 2004. La versione originale è stata pubblicata nel 2012 nell’antologia “Loud Hands: Autistic People, Speaking”. Quella che segue è una versione notevolmente rivista e migliorata che ho redatto nel 2013.

Questo saggio è stato scritto originariamente per un pubblico autistico, quindi si rivolge specificamente alle persone autistiche, illustrando il significato del passaggio dal paradigma della patologia al paradigma della neurodiversità nel contesto delle discussioni sull’autismo. Ciononostante, rappresenta una valida introduzione al paradigma della neurodiversità per chiunque; chi lo ha letto nel corso degli ultimi dieci anni ha potuto attingere con relativa facilità ai miei esempi legati all’autismo e applicare la mia analisi anche ad altri neurotipi patologizzati.

Anche se oggi mi sembra un testo terribilmente goffo, “Throw Away the Master’s Tools” rimane una delle cose più significative che abbia mai scritto per quanto riguarda l’impatto a lungo termine che ha esercitato nella discussione sull’autismo. Le concezioni del paradigma della patologia e del paradigma della neurodiversità originariamente articolate in questo saggio sono oggi parte integrante dei campi dei Neurodiversity Studies e dei Critical Autism Studies, ambiti di studio che non esistevano ancora al momento della sua stesura.

La versione definitiva e citabile di questo saggio, insieme a informazioni di base e commenti integrativi, si trova nel mio libro “Neuroqueer Heresies”.

Quando fate riferimento al mio lavoro, ricordate che i miei pronomi sono she/her (lei).

Quando si parla di neurodiversità umana, il paradigma dominante nella società attuale è quello che io definisco il paradigma della patologia. Il benessere a lungo termine e l’emancipazione delle persone autistiche, così come dei membri di altre minoranze neurocognitive, dipendono proprio dalla nostra capacità di operare un cambiamento di paradigma, passando da quello della patologia a quello della neurodiversità. Tale cambiamento deve avvenire innanzitutto internamente, nella coscienza degli individui, ma essere inoltre propagato nelle culture in cui viviamo.

Cos’è un paradigma e come si cambia?

Anche chi non ha mai incontrato il termine “paradigma” in un contesto accademico, probabilmente ne ha già sentito parlare, perché si tratta di una parola fastidiosamente inflazionata nel settore pubblicitario, con l’obiettivo di suscitare l’entusiasmo dei consumatori, per descrivere innovazioni di vario genere: Un nuovo paradigma nella tecnologia wireless! Un nuovo paradigma nel marketing iperbolico!

Come disse una volta il celebre Iñigo Montoya, non credo voglia dire quello che pensano loro.

Un paradigma non è solo un’idea o un metodo. Un paradigma è un insieme di assunti o principi fondamentali, una mentalità o un quadro di riferimento che definisce il modo in cui si pensa e si parla di un determinato argomento. Un paradigma plasma i modi in cui interpretiamo le informazioni, andando a determinare il tipo di domande che poniamo e come le poniamo. Un paradigma è una lente attraverso la quale osserviamo la realtà.

Probabilmente, l’esempio più semplice e noto di un cambiamento di paradigma proviene dalla storia dell’astronomia: il passaggio dal paradigma geocentrico (che presuppone che il Sole e i pianeti ruotino intorno alla Terra) al paradigma eliocentrico (la Terra e diversi altri pianeti ruotano intorno al Sole). Quando questo cambiamento ebbe inizio, molte generazioni di astronomi avevano già effettuato osservazioni approfondite dei moti planetari. Improvvisamente, però, tutte le loro misurazioni avevano un significato diverso e ogni informazione doveva essere reinterpretata da una prospettiva completamente nuova. Non solo c’erano nuove risposte alle loro domande, ma le domande stesse ora erano diverse. Quesiti un tempo rilevanti come “Qual è la traiettoria dell’orbita di Mercurio intorno alla Terra?” non avevano più senso, mentre altri che non erano mai stati posti, perché sarebbero sembrati insensati secondo il vecchio paradigma, divennero improvvisamente importanti.

Questo è un vero e proprio cambio di paradigma: un ribaltamento dei nostri assunti fondamentali; uno spostamento radicale di prospettiva che ci costringe a ridefinire i nostri termini, ricalibrare il nostro linguaggio, riformulare le nostre domande, reinterpretare i nostri dati e ripensare completamente i nostri concetti e approcci di base.

Il paradigma della patologia

Un paradigma può spesso essere ridotto a pochi principi generali di base, anche se tali principi tendono ad avere implicazioni e conseguenze di vasta portata. I principi di un paradigma socioculturale largamente dominante, come quello della patologia, si presentano di solito sotto forma di assunti, sono cioè così comunemente dati per scontati che la maggior parte delle persone non ci riflette o non li esprime mai in modo consapevole (anzi, talvolta può essere una rivelazione sconvolgente sentirli articolare esplicitamente).

Il paradigma della patologia può essere ridotto in definitiva a due assunti fondamentali:

1. Esiste un solo modo “giusto”, “normale” o “sano” in cui i cervelli e le menti umane possono essere configurati o funzionare (o comunque un intervallo “normale” relativamente ristretto in cui tale configurazione e funzionamento dovrebbero rientrare).

2. Se la configurazione della tua mente e il tuo funzionamento neurologico (e, di conseguenza, il tuo modo di pensare e di comportarti) divergono in misura sostanziale dallo standard dominante di “normalità”, allora hai qualcosa che non va.

Sono questi due presupposti a definire il paradigma della patologia. Gruppi e individui diversi si basano su tali presupposti in modi molto differenti, con vari gradi di razionalità, assurdità, paura o compassione — ma finché condividono questi due assunti di base, continuano a operare all’interno del paradigma della patologia (proprio come gli antichi astronomi Maya e gli astronomi islamici del XIII secolo avevano concezioni molto diverse del cosmo, eppure entrambi operavano all’interno del paradigma geocentrico).

L’establishment psichiatrico che classifica l’autismo come un “disturbo”; le cosiddette “associazioni di beneficenza per l’autismo” che lo definiscono una “crisi sanitaria globale”; i ricercatori che continuano a proporre nuove teorie sulla sue “cause”; gli estremisti senza formazione scientifica che pensano che l’autismo sia una forma di “avvelenamento”; chiunque parli dell’autismo usando un linguaggio medicalizzato come “sintomi”, “trattamento” o “epidemia”; la madre che pensa che il modo migliore per aiutare il proprio figlio autistico sia sottoporlo a “interventi” di stampo behaviorista volti ad addestrarlo a comportarsi come un bambino “normale”; la celebrità autistica “ispiratrice” secondo cui il segreto del successo sta nell’impegnarsi di più per conformarsi alle richieste sociali delle persone non autistiche… Tutti questi gruppi e individui operano all’interno del paradigma della patologia, indipendentemente dalle loro intenzioni o da quanto possano essere in disaccordo tra loro su vari punti.

Il paradigma della neurodiversità

Ecco come articolerei i principi fondamentali del paradigma della neurodiversità:

1. La neurodiversità — la diversità dei cervelli e delle menti — è una forma naturale, salutare e preziosa della diversità umana.

2. Non esiste un modello “normale” o “giusto” di mente umana, così come non esistono un’etnia, un genere o una cultura “normali” o “giusti”.

3. Le dinamiche sociali legate alla neurodiversità sono simili alle dinamiche sociali legate ad altre forme di diversità umana (ad esempio, la diversità in termini di etnia, cultura, genere o orientamento sessuale). Queste includono le dinamiche relative alle relazioni sociali di potere — quelle che riguardano la disuguaglianza sociale, il privilegio e l’oppressione — così come le dinamiche in base alle quali la diversità, se accolta, funge da fonte di potenziale creativo all’interno di un gruppo o di una società.

Gli attrezzi del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone

Nel 1979, in occasione di una conferenza femminista internazionale, la poetessa Audre Lorde tenne un discorso intitolato “The Master’s Tools Will Never Dismantle the Master’s House”. In quel discorso, Lorde, lesbica nera proveniente da una famiglia di immigrati della classe operaia, rimproverò al suo pubblico, quasi interamente bianco e benestante, di continuare a propagare le dinamiche fondamentali del patriarcato a cui era ancora ancorato: gerarchia, esclusione, razzismo, classismo, omofobia, ignoranza del proprio privilegio, incapacità di abbracciare la diversità. Lorde riconobbe che il sessismo è parte di un paradigma più ampio e profondamente radicato, che fa fronte a tutte le forme di differenza stabilendo gerarchie di dominio, e comprese che una vera liberazione collettiva sarebbe stata impossibile finché le femministe avessero continuato a operare all’interno di questo paradigma.

“Cosa significa,” chiede Lorde, “quando gli attrezzi di un patriarcato razzista vengono usati per esaminare i frutti di quello stesso patriarcato? Significa che il cambiamento è possibile e ammissibile solo all’interno di un perimetro ristretto. […] Perché gli attrezzi del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone. Possono permetterci di batterlo temporaneamente al suo stesso gioco, ma non ci permetteranno mai di attuare un vero cambiamento.”

Gli attrezzi del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone. Operare all’interno di un sistema, seguendo le sue regole, va inevitabilmente a rafforzare quel sistema, che lo si voglia o meno. Non solo gli attrezzi del padrone non saranno mai in grado di smantellare la casa del padrone, ma ogni volta che si cerca di usare gli attrezzi del padrone per ottenere qualunque cosa, si finisce solo per costruire un’altra estensione di quella stessa dannata casa.

L’avvertimento di Lorde può essere applicato altrettanto bene, al giorno d’oggi, alla comunità autistica e alla nostra lotta per l’autodeterminazione. Il presupposto che ci sia qualcosa di sbagliato in noi è intrinsecamente invalidante e assolutamente essenziale al paradigma della patologia. Pertanto, gli “attrezzi” del paradigma della patologia (e con questo intendo tutte le strategie, gli obiettivi o i modi di parlare e di pensare che esplicitamente o implicitamente si rifanno agli assunti del paradigma della patologia) non potranno mai garantirci un’emancipazione a lungo termine. Un’emancipazione autentica, ampia e duratura delle persone autistiche può essere raggiunta solo attuando e diffondendo il passaggio dal paradigma della patologia al paradigma della neurodiversità. Dobbiamo gettare via gli attrezzi del padrone.

Il linguaggio della patologia vs. il linguaggio della diversità

Poiché il paradigma della patologia è ormai predominante da diverso tempo, molte persone, anche quelle che sostengono di essere a favore dell’emancipazione delle persone autistiche, usano ancora abitualmente un linguaggio basato sui presupposti di tale paradigma. Il passaggio dal paradigma della patologia a quello della neurodiversità richiede un cambiamento radicale nel linguaggio, perché il linguaggio appropriato per discutere di problemi medici è molto diverso da quello adatto a parlare di diversità. La questione del “person-first language” è un buon esempio da cui partire.

Se una persona è affetta da una patologia, potremmo dire che “ha il cancro”, o che “è una persona con allergie” o “soffre di ulcere”. Ma quando una persona fa parte di un gruppo storicamente emarginato, non parliamo della sua identità come se fosse una malattia. Diciamo invece “È nera” o “È lesbica”. Riconosciamo che sarebbe estremamente inappropriato — e probabilmente ci farebbe sembrare ignoranti o di mentalità chiusa — se ci riferissimo a una persona nera come “affetta da nerezza” o “persona con nerezza”, o se dicessimo che qualcuno “soffre di omosessualità”.

Quindi, se usiamo espressioni come “persona con autismo”, “lei ha l’autismo” o “famiglie colpite dall’autismo”, stiamo usando il linguaggio del paradigma della patologia, un linguaggio che implicitamente accetta e rafforza la nozione di autismo come un problema intrinseco, qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Nel linguaggio del paradigma della neurodiversità, invece, parliamo di neurodiversità nello stesso modo in cui parleremmo di diversità etnica o sessuale, e ci riferiamo alle persone autistiche nello stesso modo in cui ci riferiremmo a qualsiasi altro gruppo sociale minoritario: Io sono autisticə. Sono una persona autistica. Ci sono persone autistiche nella mia famiglia.

Queste distinzioni linguistiche possono sembrare banali, ma il nostro linguaggio gioca un ruolo fondamentale nel plasmare i nostri pensieri, le nostre percezioni, le nostre culture e le nostre realtà. A lungo andare, il tipo di linguaggio usato per parlare delle persone autistiche ha un enorme impatto sul modo in cui la società ci tratta e sui messaggi che interiorizziamo su di noi. Descriverci con un linguaggio che rafforza il paradigma della patologia significa usare gli attrezzi del padrone, secondo la metafora di Audre Lorde, e quindi imprigionarci ancora più radicalmente nella sua casa.

Non credo nelle persone normali

Il concetto di “cervello normale” o di “persona normale” non ha una validità scientifica più oggettiva — né una finalità migliore — del concetto di “razza dominante”. Di tutti gli attrezzi del padrone (ovvero le dinamiche, il linguaggio e i quadri concettuali che creano e mantengono le disuguaglianze sociali), il più potente e insidioso è proprio il concetto di “persone normali”. Nel contesto della diversità umana (etnica, culturale, sessuale, neurologica o di qualsiasi altro tipo), trattare un gruppo particolare come gruppo “normale” o standard serve inevitabilmente a privilegiare quel gruppo e a emarginare coloro che non ne fanno parte.

L’ipotesi discutibile che esista una “persona normale” è alla base del paradigma della patologia. Il paradigma della neurodiversità, invece, non riconosce la “normalità” come un concetto valido quando si parla di diversità umana.

Al giorno d’oggi, la maggior parte delle persone con un buon livello di istruzione riconosce ormai che il concetto di “normalità” nel contesto della diversità razziale, etnica o culturale è assurdo e privo di significato. I cinesi Han costituiscono il gruppo etnico più numeroso al mondo, ma sarebbe ridicolo affermare che questo renda i cinesi Han l’etnia umana “naturale” o “standard”. Il fatto che un essere umano scelto a caso abbia statisticamente molte più probabilità di essere cinese Han che irlandese non rende un cinese Han più “normale” (qualunque sia il significato del termine) di un irlandese.

Il tipo di disuguaglianza sociale più insidioso, il tipo di privilegio più difficile da contestare, si verifica quando un gruppo dominante è così profondamente radicato come gruppo “normale” o “standard” da non avere un nome specifico, un’etichetta. I membri di tale gruppo sono semplicemente considerati “persone normali”, “persone sane” o semplicemente “persone”, lasciando intendere che coloro che non fanno parte di quel gruppo rappresentano deviazioni da ciò che è normale e naturale, piuttosto che manifestazioni altrettanto naturali e legittime della diversità umana.

Consideriamo, a titolo di esempio, la connotazione della frase “Le persone gay vogliono gli stessi diritti delle persone eterosessuali” rispetto a quella della frase “Le persone gay vogliono gli stessi diritti delle persone normali”. Semplicemente sostituendo la parola normale a eterosessuale, la seconda affermazione riconosce e rafforza implicitamente il privilegio eterosessuale, relegando le persone gay a uno status inferiore, quello di “anormale”.

Immaginate ora se termini come eterosessuale o etero non esistessero affatto. Questo metterebbe gli attivisti per i diritti delle persone queer nella posizione di dover dire cose come “Vogliamo gli stessi diritti delle persone normali” — un linguaggio che rafforzerebbe il loro status marginale e “anormale” e quindi minerebbe la loro lotta. Sarebbero costretti a usare gli attrezzi del padrone. Se termini come eterosessuale ed etero non esistessero, gli attivisti per i diritti gay dovrebbero inventarli.

Ecco perché un primo passo fondamentale del movimento per la neurodiversità è stato il conio del termine neurotipico. Neurotipico sta ad autistico come etero sta a gay. L’esistenza del termine neurotipico rende possibili conversazioni su argomenti come il privilegio neurotipico. Neurotipico è una parola che ci permette di parlare dei membri del gruppo neurologico dominante senza rafforzare implicitamente la posizione privilegiata di quel gruppo (e la nostra stessa emarginazione) riferendoci a loro come “normali”. La parola normale, usata per privilegiare un tipo di umano rispetto ad altri, è uno degli attrezzi del padrone, ma la parola neurotipico è uno dei nostri attrezzi — un attrezzo che possiamo usare al posto dell’attrezzo del padrone; un attrezzo che può aiutarci a smantellare la casa del padrone.

Il vocabolario della neurodiversità

La parola neurotipico è un elemento essenziale del nuovo vocabolario della neurodiversità che sta iniziando a emergere — che deve emergere, se vogliamo liberarci dal linguaggio invalidante del paradigma della patologia e se vogliamo propagare con successo il paradigma della neurodiversità nel nostro pensiero e nella sfera pubblica.

La stessa parola neurodiversità è ovviamente la parte più importante di questo nuovo vocabolario. L’essenza di tutto il paradigma — la comprensione della variazione neurologica come forma naturale di diversità umana, soggetta alle stesse dinamiche sociali di altre forme di diversità — è racchiusa in questa parola.

Un’altra parola utile è neurominoranza. Le persone neurotipiche sono la maggioranza; le persone autistiche e dislessiche sono esempi di neurominoranza. Mi piacerebbe che il termine neurominoranza diventasse di uso più diffuso, perché ce n’è bisogno; ci sono diversi argomenti nel discorso sulla neurodiversità che possiamo affrontare molto più facilmente se abbiamo a nostra disposizione una parola valida e non patologizzante per riferirci ai vari gruppi di persone che non sono neurotipiche.

Termini come neurodiversità, neurotipico e neurominoranza ci permettono di parlare e pensare alla neurodiversità in modi che non patologizzino implicitamente gli individui che appartengono a una neurominoranza. Man mano che coltiviamo la nostra comunità autistica e interagiamo con altre comunità neurominoritarie, continuando a produrre testi e discussioni sulle questioni che ci riguardano, emergerà un nuovo linguaggio. Abbiamo già creato termini come stim e loud hands per descrivere aspetti importanti dell’esperienza autistica. E nel mio lavoro accademico, grazie ai miei studi sulle competenze interculturali (la capacità di interagire e comunicare abilmente con persone di culture diverse), ho iniziato a usare il termine neurocosmopolitismo, che spero si diffonda.

Spero anche che i termini paradigma della neurodiversità e paradigma della patologia prendano piede e diventino di uso comune. A fini di chiarezza, è utile fare una distinzione tra la neurodiversità (il fenomeno della diversità neurologica umana) e il paradigma della neurodiversità (la comprensione della neurodiversità come forma naturale di diversità umana, soggetta alle stesse dinamiche sociali di altre forme di diversità). E avere un nome per il paradigma della patologia lo rende molto più facile da trattare, riconoscere, sfidare e decostruire — e infine smantellare.

Le parole sono strumenti. E nel momento in cui riconosciamo che gli attrezzi del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone iniziamo a crearne di nostri; questi possono aiutarci non solo a demolire la casa del padrone, ma a costruirne una nuova in cui vivere una vita migliore e con più potere.

Avamposti nella testa

Mi si spezza il cuore quando molte delle persone autistiche che incontro parlano e pensano a sé stesse con il linguaggio del paradigma della patologia, e quando vedo come questo le privi del loro potere, portandole ad avere una cattiva opinione di sé. Per tutta la vita hanno ascoltato i messaggi tossici di chi sostiene il paradigma della patologia, accettandoli e interiorizzandoli, e ora li ripetono all’infinito nella loro testa.

Quando riconosciamo che le lotte delle neurominoranze seguono in gran parte le stesse dinamiche delle lotte di altri tipi di gruppi minoritari, possiamo identificare queste auto-patologizzazioni come manifestazioni di un problema che ha sempre afflitto i membri di molte minoranze: un fenomeno chiamato oppressione interiorizzata.

Una contemporanea di Audre Lorde, la giornalista e femminista Sally Kempton, ha detto questo sull’oppressione interiorizzata: “È difficile combattere un nemico che ha degli avamposti nella nostra testa”.

Il compito di liberarci dalla casa del padrone inizia con lo smantellamento delle parti di quella casa che sono state costruite nella nostra testa. E questo processo inizia con il gettare via gli attrezzi del padrone, in modo da smettere di costruire involontariamente proprio ciò che stiamo cercando di smantellare.

Gettare via gli attrezzi del padrone

Una volta compreso che la base del paradigma della patologia — il concetto fittizio di “persone normali” — è un elemento fondamentale nella cassetta degli attrezzi del padrone, diventa molto più facile identificare questi ultimi e liberarsene. Basta fare un attento bilancio delle nostre parole, dei nostri concetti, dei nostri pensieri, delle nostre convinzioni e delle nostre preoccupazioni, e chiederci se hanno ancora senso quando eliminiamo il concetto di “normalità”, l’idea che esista un modo “giusto” in cui funzionano i cervelli e le menti umane.

Eliminando il concetto di “normalità”, le persone neurotipiche sono solo membri di una maggioranza — non più sane o più “giuste” del resto di noi, solo più comuni. Le persone autistiche sono quindi un gruppo minoritario, non più intrinsecamente “disturbato” di qualsiasi minoranza etnica. Quando ci rendiamo conto che la “normalità” è solo una cosa inventata da un gruppo di persone, quando la riconosciamo come uno degli attrezzi del padrone e la buttiamo fuori dalla finestra, l’idea dell’autismo come “disturbo” vola fuori dalla finestra insieme ad essa. “Disturbo” rispetto a cosa, esattamente, se ci rifiutiamo di credere all’idea che esista un particolare ordine “normale” a cui tutte le menti dovrebbero conformarsi?

Senza il punto di riferimento fittizio della “normalità”, anche le etichette di funzionamento — “autismo ad alto funzionamento” e “autismo a basso funzionamento” — si rivelano assurde finzioni. “Alto funzionamento” o “basso funzionamento” rispetto a cosa? Chi decide quale dovrebbe essere il “funzionamento” appropriato del singolo individuo?

Nel paradigma della patologia, la mente neurotipica si erge a ideale “normale” rispetto al quale si misurano tutti gli altri tipi di mente. “Basso funzionamento” significa in realtà “lontano dal passare per neurotipico, lontano dall’essere in grado di fare le cose che i neurotipici ritengono necessarie e lontano dall’essere in grado di affermarsi in una società creata da e per le persone neurotipiche”. “Alto funzionamento” significa “più vicino a passare per neurotipico”. Descrivere sé stessi come “ad alto funzionamento” significa usare gli attrezzi del padrone, murarsi nella casa del padrone — una casa in cui le persone neurotipiche sono lo standard ideale rispetto al quale ci si deve misurare, una casa in cui le persone neurotipiche sono sempre al vertice e in cui “più in alto” significa “più simile a loro”.

Partendo dal presupposto che le persone neurotipiche sono “normali” e le persone autistiche hanno un “disturbo”, le difficoltà di comunicazione tra le persone neurotipiche e le persone autistiche vengono inevitabilmente ascritte a qualche “difetto” o “deficit” degli individui autistici. Se, ad esempio, una persona autistica non riesce a capire una persona neurotipica, è perché le persone autistiche hanno un’empatia troppo bassa e scarse capacità di comunicazione; se una persona neurotipica non riesce a capire una persona autistica, è perché le persone autistiche hanno un’empatia troppo bassa e scarse capacità di comunicazione. Tutti gli attriti e i fallimenti nella comunicazione tra questi due gruppi, tutte le difficoltà che le persone autistiche incontrano in una società neurotipica, è tutto imputato all’autismo. Ma una volta che la nostra visione non è più offuscata dall’illusione della “normalità”, possiamo riconoscere questo doppio standard per quello che è, identificandolo come un’altra manifestazione del tipo di privilegio e potere che le maggioranze dominanti esercitano così spesso sulle minoranze di qualsiasi tipo.

La vita oltre il paradigma della patologia

Per un cambio di paradigma, come ricorderete, è necessario reinterpretare tutti i dati attraverso la lente del nuovo paradigma. Rifiutando le premesse fondamentali del paradigma della patologia e accettando quelle del paradigma della neurodiversità, scoprirete di non avere un disturbo. Scoprirete che forse funzionate esattamente come dovreste funzionare e che semplicemente vivete in una società ancora troppo poco illuminata per accogliere e integrare adeguatamente le persone che funzionano come voi. Che forse i problemi che incontrate nella vostra vita non sono il risultato di un vostro difetto intrinseco. Che il vostro vero potenziale è sconosciuto e sta a voi esplorarlo. E che forse siete, in realtà, qualcosa di meraviglioso.

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