Migranti, come cambia il “codice di condotta” e perché alcune ONG hanno sospeso i salvataggi

Valigia Blu
4 min readAug 14, 2017

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Francesco Malavolta/MOAS via AP Photo

Sono cinque le ONG che hanno aderito finora al codice di condotta voluto dal governo Gentiloni. Il 31 luglio scorso hanno firmato Moas e Save The Children, pochi giorni dopo Sea Eye si è impegnata a firmare il documento, l’8 agosto è stato il turno di Proactiva Open Arms e infine l’11 agosto Sos Mediterranée ha certificato durante un incontro al Ministero dell’Interno la propria adesione.

Durante una conferenza stampa, Sophie Beau, fondatrice dell’ONG Sos Mediterranée, ha spiegato che la firma è arrivata dopo che il Ministero ha aggiunto un “addendum” alle linee guida già previste dal codice che chiarisce in particolare due questioni criticate dalla stessa ONG in precedenza: i trasbordi dei migranti salvati da una nave all’altra e la presenza a bordo sulla propria imbarcazione di ufficiali di polizia armati.

Le precisazioni ottenute dalla ONG chiariscono che i trasbordi continueranno a essere possibili quando gestiti dalla Guardia Costiera. Mentre, uomini di polizia, spiega Radio Popolare, saliranno “sulle imbarcazioni su mandato dei magistrati. Non automaticamente, quindi. E non interferiranno con la missione umanitaria”. L’ONG ha inoltre specificato che il codice di condotta “non è legalmente vincolante (ndr non si tratta di un legge) e prevalgono le regolamentazioni e le leggi nazionali ed internazionali”.

Medici senza Frontiere, Sea Watch e la tedesca Jugend Rettet (la cui nave “Iuventa” è sotto sequestro per l’inchiesta della Procura di Trapani) sono invece le tre Organizzazioni non governative che hanno deciso di non aderire al codice di condotta (qui avevamo spiegato perché).

Perché alcune ONG hanno sospeso la loro azioni di salvataggio

Save the Children, Medici senza frontiere e Sea Eye hanno comunicato che sospenderanno temporaneamente la loro attività di soccorso nel Mediterraneo Centrale.

La decisione è arrivata dopo la notizia che la Marina libica, fedele al governo del premier del governo di unità nazionale di Tripoli di Fayez al Sarraj, ha comunicato di voler istituire la propria zona di Search and Rescue (SAR, ricerca e soccorso) oltre le 12 miglia marine (non è ancora stato chiarito quale sarà l’effettiva dimensione) che delimitano le acque territoriali libiche, zona nella quale “nessuna nave straniera avrà il diritto di accedere salvo una richiesta espressa alle autorità libiche”.

Scrive il Post che “impedire il transito di navi civili nella propria SAR non è consentito dal diritto internazionale: la circolazione delle navi in mare è libera. Di fatto, quindi, la Libia ha stabilito unilateralmente di proibire l’accesso alle navi delle ong in un vasto tratto di acque internazionali”. L’iter di approvazione è comunque ancora aperto, perché l’International Maritime Organization (IMO, agenzia dell’ONU per la cooperazione marittima tra i paesi membri e la sicurezza della navigazione), prima di rendere ufficiale la Sar di un Paese, deve avere l’ok dei Paesi vicini, spiega Repubblica.

Nel frattempo, però, le ONG hanno comunicato di aver preso questa decisione per varie ragioni.

Medici senza frontiere ha spiegato che “il Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo (MRCC) di Roma ha allertato Medici Senza Frontiere di un rischio sicurezza legato alle minacce pronunciate pubblicamente dalla Guardia Costiera Libica contro le navi di ricerca e soccorso umanitarie impegnate in acque internazionali”. Ad esempio, l’8 agosto scorso, una nave della guardia costiera libica ha sparato colpi di avvertimento alla nave della Proactiva Open Arms. Loris De Filippi, presidente di Medici senza frontiere Italia ha dichiarato che: «Se le navi umanitarie vengono spinte fuori dal Mediterraneo, ci saranno meno navi pronte a soccorrere le persone prima che anneghino. Chi non annegherà verrà intercettato e riportato in Libia, che sappiamo essere un luogo di assenza di legalità, detenzione arbitraria e violenza estrema».

Situazioni che la giornalista Francesca Mannocchi ha raccolto in un suo reportage in Libia per l’Unicef e illustrate durante In Onda Estate, programma di La7: «Queste immagini provengono da centri di detenzione ufficiali riconosciuti dal governo libico, che è nostro interlocutore. Ma ci sono decine di centri di detenzione non ufficiali, gestiti dalle milizie e inaccessibili anche al ministero dell’Interno libico. E lì le condizioni sono ancora peggiori. Solo a Tripoli ci sono 13 centri di detenzione non ufficiali».

Stefano Argenziano, coordinatore dei progetti migrazione di Medici Senza Frontiere, ha voluto precisare che la decisione è anche una critica alle priorità della politica europea: “Mettere gli interessi di contenimento di respingimento al di sopra dei doveri e delle responsabilità di assistenza e di protezione di persone in fuga da situazioni di violenza estrema, tortura e guerra, e sopravvissute a viaggi molto pericolosi”.

Save the Children ha comunicato che “la nostra nave Vos Hestia resta ferma a Malta in attesa di capire se ci sono le condizioni di sicurezza per riprendere le operazioni”.

Anche la ONG Sea Eye ha spiegato che la decisione è dovuta “alla mutata situazione di sicurezza nel Mediterraneo”.

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