Barcelona: Anything but the hype

Francesca Sabatini
3 min readMay 31, 2017

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(Sì, sto per avviare uno sproloquio sul colonialismo culturale nel mondo contemporaneo.)

Questa riflessione è nata dalle impressioni avute durante una gita a Barcellona che ho fatto questo mese, ma scaturisce in realtà da una più estesa considerazione sul mio quotidiano vivere in una città universitaria e sempre in crescita, quale è Bologna.

Premessa: sono una fanatica appassionata di cultura mediterranea. Amo questo bacino stratificato e caotico di culture meticce, che si sono scontrate e combinate e assorbite vicendevolmente in modi imprevedibili e bizzarri, producendo risultati sensazionali tutti diversi nei loro sviluppi storico-sociali. Amo il medievale mescolarsi di italici, arabi e normanni in Sicilia, amo la bizzarra miscellanea di lingue che compone il maltese, amo il caotico succedersi di popoli che hanno dato a una sola città i nomi di Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio.

Di queste culture amo il loro essere scombinate, disordinate,perché penso che la diversità culturale dei Paesi mediterranei, che nasce poi dalla comunanza culturale di questa oasi multicolore, sia una ricchezza incalcolabile che continuerò a difendere strenuamente in barba a qualsiasi débauche economica.

Ora, passeggiando per le strade di Barcellona, per la Rambla, per le sue avenue ampie e trafficate, percorrendo viuzze piene di smoothies, frappuccini, negozi che vendono canottierine minimal a tinte pastello da abbinare a piccoli ciondoli dalle forme geometriche, non ho potuto fare a meno di intristirmi. La diversità culturale è stata relegata nel frattempo a un angolo in cui farsi servire tapas standard e vino tinto, mentre un suonatore di chitarra classica produce l’atmosfera giusta per garantire ai turisti un’esperienza generic-spagnola il più raccontabile possibile.

Questo effetto della globalizzazione non è una novità e lo so. Ma solo dopo la mia visita a Barcellona ho iniziato a percepire più acuto che mai il fastidio per questo pregiudizio culturale per cui, la sola cosa veramente “cool” nel mondo sono questa specie di colonie di Brooklyn, inondate di Birkenstock e musica indie.

L‘impronta che sta assumendo a Bologna il centro storico coi suoi bar/locali/negozi. Quasi per partito preso da un po’ di tempo cerco di deviare tutti le colazioni e gli aperitivi con le persone che conosco in posti un po’ dimessi, un po’ sfigati, in cui possibilmente il barista non sia un bono tatuato coi rasta che prepara dei mojito da urlo. Nel bar di fronte a casa mia il cameriere è un signore di sessant’anni poco attraente, dall’aria intontita e allampanata, ma vi giuro che conosce tutti i nomi dei clienti della domenica.

A questo punto ci tengo a specificare: vorrei che tutti avessero il diritto di mangiare sushi e bagels in qualsiasi punto del mondo che non siano il Giappone e New York, e che sono una fan degli uramaki; semplicemente vorrei anche che non si dovesse ritenerlo “più figo” per forza, e che fosse bello anche mangiarsi un piatto di spaghetti in un normale ristorante a Tor Vergata e una croque monsieur in Alsazia.

Insomma, senza voler fare la morale a nessuno, per me il bello di viaggiare dovrebbe poter essere scoprire e provare, e di farlo nei modi meno convenzionali, ma soprattutto più autentici. Per dirla con Gaudì, e per omaggiare tutto quello che di Barcellona ho amato e che non vi racconto, “l’originalitat consisteix a tornar a l’origen”.

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