La verità, vi prego, sugli amori: un pensiero su Evgenij Onegin

Francesca Sabatini
4 min readApr 17, 2017

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Il’ja Repin dipinge il duello fra Lenskij e Onegin in un momento di grazia (scherzo, Repin è in un momento di grazia perenne)

Ieri sera mi sono messa a guardare in tv un vecchio adattamento cinematografico dell’Eugenio Onegin, il puškiniano romanzo-padre della letteratura russa. In realtà, ho sperimentato l’Onegin per la prima volta tramite la sua impeccabile versione operistica, musicata da un Čaikovskij tempestoso e meno languido del solito.

Mi sono avventurata in questa trasposizione per il semplice fatto che la trama dell’Onegin è, pur nella sua semplicità, così universale e così bella e così sfaccettata che nemmeno la sua patina un po’ preromantica è mai riuscita a farmelo venire a noia: lo consumerei in tutte le salse, persino in quella terribilmente stucchevole di un film di fine anni ‘90 con Liv Tyler nei panni di una Tatyana che non cambia espressione nemmeno una volta nel corso di tutti i 103 minuti di film e con Ralph Fiennes che distrugge Onegin e lo rende piatto e noioso.

Per farla breve: il film è piuttosto insalvabile e se non volete odiare a morte Puškin&Co. ve ne sconsiglio vivamente la visione; tuttavia è stato un prezioso pretesto per rimettermi a pensare un po’ a Onegin — non tanto al capostipite romanzesco di una bicentenaria storia di adattamenti, quanto piuttosto alla notevole opera che ha ispirato.

Perché l’Onegin in opera lo è davvero, notevole. Notevole nella sua unicità ( rispetto alle altre opere liriche) e nella sua pluralità (che è quello che lo rende, appunto, unico rispetto alle altre opere).

Spiegare nel dettaglio la trama sarebbe superfluo, e soprattutto non voglio farvi passare la voglia di vedere un’opera eccezionale sotto tutti i fronti; basti sapere che nell’Onegin l’omonimo eroe lascia Pietroburgo e giunge annoiato in campagna assieme all’amico Lenskij presso la tenuta dei Larin, la cui figlia Ol’ga, giovane vitale e forte, ama ed è riamata da Lenskij; la sorella di lei, Tat’jana, è una ragazza più ombrosa e solitaria.

Ora, è piuttosto evidente che il tema dell’opera è l’amore, e non proverò a far finta che non sia il tema del 99,99% delle opere nel mondo. Inoltre, non è certo raro vedere sulla scena lirica due coppie e quattro innamorati (ci sono, dalla Semiramide a Così fan tutte, diversi esempi validi).

Vi lascio formulare nella testa la domanda sul perché mai l’Onegin dovrebbe essere più interessante o più notevole di tutte le altre opere mentre cerco di fornirvi una risposta valida.

Facendo le dovute eccezioni, quasi ogni trama del repertorio operistico tradizionale può essere riassunta in un tenore che ama una soprano, e un baritono che cerca di ostacolare questo amore.

Ora, “questo amore” nell’opera è sempre lo stesso: semplicemente, è l’Amore, il grande ombrello lessicale sotto cui racchiudere il sentimento nell’accezione più universale del termine — è l’amore punto, si dà per assunto che il pubblico sappia cosa sia, i personaggi s’innamorano, e tanto basta. Anche quando in scena c’è più di una coppia, l’intreccio si complica, ma non così il sentimento amoroso, che rimane, nella sua forza e semplicità, Amore.

È qui che l’Onegin sorprende il pubblico d’opera con una domanda: “quale amore?”

Il sentimento principe del teatro lirico si sfaccetta e si declina nell’amore dei quattro personaggi; questi amori cozzano, si confrontano, si allontanano, ed è l’interazione della loro diversità a provocare il progredire dell’azione sulla scena.

L’amore è quello di Lenskij, poetico, incantato, limpido, improvvisamente geloso e infine deluso, paranoicamente creduto tradito; quello di Ol’ga, genuino e schietto come l’animo che lo ospita, a volte ingenuo; quello dell’ardente, eccentrica Tat’jana, impulsivamente appassionato, quasi infantile nel suo essere immediato e romantico — fino ad arrivare a quello di Onegin, assente sulla scena per lungo tempo, e che proprio per questo è quello più insondabile e più estraneo alla poetica operistica.

Infatti, la più forte novità del dramma risiede proprio in Evgenij Onegin: estraneo a quella sorta di imprinting immediato dell’amore che è proprio dei personaggi operistici, Onegin è l’unico personaggio (almeno che io mi ricordi) che torni sui propri passi — che solo dopo anni, solo dopo il proprio iniziale rifiuto, cambia idea.

Citando Auden (che mi ha ispirato il titolo per questo pezzo) in un suo saggio sull’opera lirica, “l’opera è imitazione dell’umana ostinazione; si basa sul fatto che noi non solo abbiamo dei sentimenti, ma persistiamo a volere che siano quelli ad ogni costo.”

Primo estraneo a questa ostinazione, Evgenij Onegin narra il brusco mutarsi di un sentimento e di una forma d’amore — meglio ancora, è la storia di un ripensamento, e delle sue conseguenze sui personaggi coinvolti. Forse per questo è un’opera più umana e meno convenzionale del solito.

Di certo, è un’opera terribilmente viva, di spessore, che più delle altre rispecchia tutti, con i suoi rifiutati, rifiutanti, disillusi, dubbiosi, variamente innamorati personaggi.

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