Geoeconomia catecontica

Da Socrate a Zinc e oltre

wikipolis
38 min readSep 3, 2018

Premessa: L’ibrido che stai per leggere è diviso in due parti. La prima è una sorta di pastiche di riflessioni (orali) del prof. Massimo Cacciari. Non si tratta di una mera trascrizione. Non solo perché il contenuto è stato editato per esigenze di chiarezza ma anche perché, quando lo ritengo necessario, interrompo/integro il flusso della riflessione con domande e temi che verranno approfonditi nella seconda parte. Il grassetto indica le parti più feconde. Tipograficamente Cacciari parla in questa formattazione mentre …

i miei interventi si riconoscono perché rompono la continuità del testo.

Parte Prima

Il pensiero occidentale nasce con la “guerra” all’ethos tradizionale. Il fine? Razionalizzare. Ordinare il mondo secondo criteri suggeriti dagli “occhi della mente”. Scienza e Filosofia vedono il pianeta come una terra di missione. L’ideale a cui tendere è che la vita del pianeta sia informata a criteri di pura razionalità. La volontà di sapere (pratico) è inestricabilmente connessa ad una volontà di potere. La volontà di tutto sapere, di tutto dubitare (ciò che è pre-supposto, ciò che è pre-giudizio) sopravvive alla frattura del continuum temporale insita nell’annuncio della Passione, Morte e Resurrezione del figlio di Dio. L’incarnazione del Logos sancisce l’impossibilità di dare basi teologiche al divieto di indagare la Natura e assicura la continuità dell’originaria volontà di sapere dello spirito europeo.

L’epoca assiale inaugurata dalla rivoluzione francese è, per i grandi idealisti, un’epoca nella quale la scienza ha il potere. Ma come veniva concepita, questa scienza? Quale era il fine di questo processo? La realizzazione del Sistema della Libertà (System der Freiheit). La rivoluzione ha iniziato questa epoca ora si tratta(va) di compierla. Cosa significa? Che ogni objectum esiste come atto del soggetto, che l’intero mondo dell’oggettivo è prodotto dall’io e che, con la forza del pensare (produttivo, non contemplativo), noi ci forgiamo liberamente il possibile. Sappiamo ogni istante che il possibile sarà possibile soltanto per la potenza in atto del pensare. Pensare che fa, che agisce e che oggi è il lavoro produttivo per eccellenza, teoretico e pratico in uno.

Questa è l’idea regolativa, che non saremo più schiacciati dalle cose, che non saremo più in un rapporto subordinato con le cose perché queste non saranno che il nostro prodotto. Questa era la teleologia implicita nell’idea di scienza da cui nasce il contemporaneo. Prospettiva che si realizza, capovolgendosi. Goethe aveva compreso l’aporeticità della pretesa di governare lo scatenato io faustiano fino ad usare la sua energia per la realizzazione del Sistema della Libertà.

Lo spirito europeo è rivoluzione permanente. Il problema intrinseco all’inquietudine che lo domina è la mancanza di una misura. Serve un ordine. Come dare ordine? Quale Stato, dopo la Rivoluzione? Come riconciliare l’uomo faustiano e l’ordine politico? Questo è il vero problema dell’intellighenzia occidentale a cavallo del primo conflitto mondiale e di uno in particolare, che è il più grande di tutti: Max Weber.

Le grandi conferenze di Weber erano state concepite all’interno di un ciclo dedicato ai due aspetti fondamentali che hanno l’arché nel mondo contemporaneo. La vera forma di lavoro, quello scientifico, che innova e determina tutto, e il lavoro politico che è quello di frenare lo scatenamento, sempre possibile, dell’altra potenza. I due ambiti condividono lo stesso valore di base, il che è ciò che rende possibile la collaborazione, ma poi c’è una differenza di fondo perché il dovere del politico è di proporre gerarchie di valore mentre lo scienziato è indifferente (wertfrei) rispetto ad esse. Cosa permette la comunicazione tra due potenze governate da logiche interne così divergenti? Cosa ne costituisce il “protocollo di interoperabilità”? Per Weber è l’Etica della Responsabilità. La responsabilità del lavoro politico è dove questo più si avvicina alla razionalità scientifica.

Se il potere cessasse di avere qualsiasi rapporto con il sapere (il sapere della verità effettuale) e se il sapere moltiplicasse in sé stesso la propria potenza senza alcuna considerazione delle esigenze del lavoro politico, la forma democratica entrerebbe in una crisi irreversibile.

Dopo Weber, e in termini diversi, anche Husserl riprende lo stesso tema quando sostiene che il comportamento della razionalità scientifica si va sradicando dalla forme di vita, per dominarle, e diviene, con ciò stesso, religione. Religione tecnico-scientifica. Si ir-razionalizza. Nel momento stesso in cui non riconosce un limite cessa di essere scientifica perché ogni scienza si determina a partire dal riconoscimento trascendentale del proprio limite. Delegittima ogni altra potenza e non riconosce che il politeismo della moltitudine, indifferente ad ogni valore (e capace di accoglierli tutti) e quindi perfetto per produrre e riprodurre consumo.

Oggi i prodotti del lavoro intellettuale forse schiacciano ancora di più. Quanto più potente il cervello sociale che incarnano, quanto più misteriosi idoli diventano i suoi prodotti agli occhi della moltitudine. Il System der Freiheit si manifesta in realtà come sistema che libera si, ma libera da ogni vincolo il produrre tecnico-scientifico.

Due grandi momenti della tradizione dello spirito europeo contemporaneo:

  • Rapporto politica e sapere (distinti ma connessi)
  • Scienza fattore fondamentale del Sistema della Libertà. Politicamente sostenibile solo nella misura in cui “tutti gli io” vedessero nella cosa il proprio prodotto e non come qualcosa che li schiacciasse dall’esterno.

Non sono queste due formidabili promesse ed essere scomparse, oggi? E sono scomparse definitivamente o si può restituire loro vigenza (e cogenza)? Perché quel progetto è entrato in crisi? E’ una crisi di compimento?

Abbiamo inteso la missione razionalizzante dello spirito europeo come in sé stessa dotata di un valore politico che avrebbe portato alla repubblica universale kantiana. Il problema filosofico-politico era come relazionare quel progresso al dialogo tra le diverse culture e civiltà. Questo problema è stato totalmente rimosso. Per far dialogare le due dimensioni sarebbero servite sia la volontà di sapere che un progetto politico.

La filosofia (quella, minoritaria, che continua a “dire dove si colloca”) deve:

Viviamo in un momento che ha pregnanza apocalittica. Letteralmente. Si toglie un sipario. Si vede la crisi dello Stato. La problematicità delle idee di Impero che si sono succedute. Si vedono le potenze che, premendo da secoli, hanno finito per vincere. Si vede molto più chiaramente che quarant’anni fa.

Quella pregnanza apocalittica dovrebbe interrogarci.

In cosa può consistere la mia opera, in hoc saeculo, in questo tempo tra l’Evento e il Fine? Paolo parlava di “pazienza della speranza”, che può essere fondata solo sulla fede. Cosa dobbiamo fare se non possiamo pensare che il nostro fare, in hoc saeculo, possa valere come una forza che anticipa, che accelera? Nulla? La nostra pazienza è una pazienza totalmente disarmata?

No, direbbe Paolo, perché tu, in hoc saeculo, in ogni istante sei nell’ora. In ogni istante è il Giorno del Signore. Tutto è attualizzato. Vivilo così. Se anticipi, se acceleri è come se tutto fosse rimandato. Tu non devi attendere nulla. Ora devi cambiare mente o, per un credente, convertirti (cambiare rotta). L’attualità dell’apocalisse consiste in questo. Convertiti (cambia rotta), accetta le beatitudini e sarai beato. Ora. Il momento è ora.

Per questa modalità di pensare il tempo apocalittico è il mio più prossimo perché ora si decide di me. La modalità propria del pensiero escatologio-apocalittico è quella della decisione. La decisione implica questo. Oggi mi decido. Non sono più quello di prima, mi converto ed è una decisione irrimediabile. Ciò che commetto ora non può più avere rimedio. Non c’è un tempo successivo nel quale aggiustare le cose. Ora ne va tutto di me. Questa è la decisione. Il continuum temporale viene spezzato. Modalità caratteristica del pensiero escatologico-apocalittico.

E ora? Questa modalità di pensiero ha ancora una funzione in questa civiltà? Determina ancora comportamenti, azioni, modalità di pensare, comunità? O noi siamo ad una perdita del senso dell’eschaton? Il fine nostro è diventato il non aver fine, il procedere all’indefinito? Se tutto diventa un procedere all’indefinito è chiaro che non c’è nessuna decisione-decisione, non c’è nessuna rottura del continuum, il che esclude, per principio, le categorie fondamentali del pensiero escatologico-apocalittico.

Un Katéchon post-apocalittico?

E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è gia in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. 2 Tessalonicesi 2:6–7

Scrive Alessandro Zaccuri: “Il katéchon è quel qualcosa, o qualcuno, che “contiene”, trattenendo e rallentando, la venuta dell’Anticristo. Questo framezzo, che si pone tra l’Evento dell’Incarnazione e la battaglia finale contro l’Avversario, è un tempo rilevantissimo. In esso, fa intendere Paolo, agisce un potere che non può essere identificato nell’Anticristo, di cui appunto “trattiene” l’avvento, ma che neppure coincide con la Chiesa, alla quale è affidato il compito di custodire la speranza nel prolungarsi dell’attesa”.

L’auctoritas di un katechon politico, non fondato sulla novitas dell’Evento, può fondarsi solo sulla capacità di porre un fine.

Lauctoritas presuppone (non solo che io “tenga in forma” determinati soggetti ma) che io ponga un fine per quei soggetti , che io sia mosso da un fine che trascende la rete dei rapporti tra il sovrano e quei soggetti

Un fine “superiore alla somma delle parti”? Ma soprattutto: porre un fine con auctoritas significa qualcosa di più di pro-porre? Direi di no perché se si trattasse di im-porre basterebbe la potestas e non ci si porrebbe il problema della legittimità che è invece è tutt’uno con l’auctoritas.

L’immagine hobbesiana è chiarificatrice. Non domina solo il paesaggio. Non solo contiene in sé tutte quelle figure. Ha in mano sia la spada che il simbolo del potere spirituale e quindi dell’auctoritas.

Fintanto che il katéchon, in qualsiasi accezione, (l’ordine politico), si collocava all’interno di un Evo il cui spirito era determinato da un Evento (l’Annuncio) e da un Fine (l’Apocalisse) il tema del novum, della novitas era immanente alla costituzione di questo periodo. E così la dimensione della trascendenza. Trascendenza, novitas, capacità di previsione, volontà di previsione, volontà di porre dei fini. Oggi il politico è l’indifferenza, la dimensione tecnico-amministrativa indifferente rispetto al fine. L’indifferenza al fine condanna il politico, necessariamente, ad un ruolo servile (fino alla liquidazione, rispetto alle potenze universalistiche).

La cristianità è in agonia dalla croce ma ora forse siamo all’agonia dell’agonia. All’indifferenza di un procedere che non ha fini. Del procedere del sempre uguale. Della religione (o superstizione) del procedere del sempre uguale. Ha ancora senso l’immagine-metafora dell’anti-Cristo? L’Anti-Cristo è contro-parte e contraddizione del Cristo e quindi tiene col Cristo una relazione essenziale. O forse l’anti-cristicità per eccellenza è l’epoca in cui non tieni più nemmeno questa relazione polemica con il Cristo ma ti è del tutto indifferente perché queste dimensioni appartengono ad un tuo morto passato.

Se fosse così, alla luce di Paolo, non sarebbe concepibile nessuna potenza catecontica. Non ci sarebbe più nessuna auctoritas. Ci sarebbe solo la religione dell’indifferente procedere ma non ci può essere alcun katéchon nell’indifferente procedere. Sarebbe impossibile dare ordine all’indifferente procedere. Potrebbe avere dei servomeccanismi, degli automatismi interni che lo fanno procedere ma, in sé, non richiede di nessun katéchon, di nessun genere. Né Chiesa, né politica.

Per chi, oggi, reges regnant? Re? Chi è re? I servomeccanismi? Gli automatismi? Sono questi che oggi reggono? Potranno svolgere il ruolo del katéchon? Non se lo prefiggono. Non è nel loro dna, come è invece nel dna della Chiesa e del Politico. Nel loro dna sta il procedere, la rete dei processi. Assumerà tutto ciò anche il ruolo del katéchon?

Viviamo in un’epoca in cui è chiarissimo che la possibilità di costruire un significato del politico che trascenda la linearità del processo e del progresso non può più esistere nella dimensione statuale e non abbiamo la più pallida idea di come si possa procedere verso una dimensione imperiale.

L’Auctoritas del Kathecon può essere propria soltanto di un organismo politico imperiale, meta-statuale.

Di fronte alla potenze (universalistiche) che dominano l’epoca (Wissenschaft), un katéchon senza auctoritas cessa di essere tale.
a) O queste potenze vincitrici hanno al loro interno una dimensione politica che ancora non è dato vedere ma che sicuramente democratica non sarà perché ricerca, impresa, banca, ecc. non possono funzionare democraticamente.
b) Oppure all’interno delle forme di vita emergono energie, prospettive …

O io riprendo un’idea di impero oppure l’unica speranza di tenere “in forma” l’Evo, in attesa del Giorno del Signore, è che le potenze (tecnico, economico, finanziarie, spirituali, scientifiche, culturali) che non hanno nulla a che fare con l’organizzazione statale abbiamo al loro interno degli automatismi che permettano l’emergere di una qualche forma di communitas”.

Chi salva? Colui che da forma ad un’intero, un tutto che è superiore alle parti.
La parti non fanno il tutto, è il tutto che da ruolo e quindi senso, alle parti.

La nostra difficoltà ad immaginare un’assetto istituzionale all’altezza della crisi che viviamo, all’altezza delle potenze che ci sembrano dominare l’epoca, un quadro istituzionale che stentiamo tutti drammaticamente ad immaginare. La crisi dell’Utopia, l’Utopia che è invece fondamentale nella storia e nella civiltà europea. Com’è possibile immaginare l’Europa senza questo spirito profetico e utopico (le due dimensioni si sono spesso confuse)?

Soggettività

Tutto si fonda su soggettività reali che però fatichiamo ad individuare.
Ora il nostro linguaggio dice gente, dice popolo. Società liquida. Come si fa a pensare utopicamente in questa società liquida? Manca il radicamento in qualsiasi soggettività. Il popolo non ha soggettività. Il nostro linguaggio è spia di questa drammatica situazione.

Le potenze attuali non sono governate. Serve un’immaginazione utopica. Quale Stato? Quale Governo? Quale Politica? Qualunque risposta ha come precondizione l’esistenza di un soggetto. Per potere occorre un soggetto, qualcuno che può. Tutti i progetti riformatori e rivoluzionari del novecento indicavano un soggetto. Un soggetto che possa, che renda potente il mio dovere.

La fabbrica moderna era una gabbia d’acciaio ma è stata anche una formidabile produttrice di soggettività. La gabbia non può essere intesa come un sistema chiuso. Può essere una legge parziale ma non ci può essere una legge che unifichi tutto perché cessa di essere una legge. Le leggi sono solo parziali. Se un sistema chiuso non esiste ne segue che nessuno può decretare la fine dell’Utopia. Weber ha formulato il concetto di gabbia d’acciaio ma poi ha scritto La politica come professione e li ti viene fuori un politico che, al limite, può essere anche un Eroe.

Un politico che è amministratore della gabbia d’acciaio? No. In nessun modo. Nemmeno in quanto politico della responsabilità. Ma non c’è nessun politico che sia solo politico della responsabilità. Perché per essere politico occorre anche, in qualche modo, contaminarsi con l’Etica della convinzione. E tenere le due dimensioni. E’ possibile tenere le due dimensioni? Si, se sei un’Eroe. Impossibile che ci sia un’Eroe? E chi lo dice che è impossibile che ci sia un’Eroe? L’immaginazione utopica obbliga a tenere “un’apertura al possibile”. Non puoi navigare con le mappe di un tempo, finalmente fai la Storia.

Le forze che l’utopia vuole portare al potere sono già presenti. Il sapere è già presente solo che non ha il potere pieno. E l’utopia ne rivendica la piena affermazione.

Qual è il soggetto della tecnica che contrast(erebbe) il capitalismo? Qual è la politica della (genitivo possessivo) tecnica che contrasta il capitalismo? Io so chi sono i capitalisti e a contrastarli c’erano dei soggetti con delle politiche. Qual’è la politica della tecnica? Chi contrasta il capitalismo? Gli scienziati? L’intelletto generale? Quello che produce, in modo emergente (senza porre il fine) e cosmopolita, tutti gli strumenti che abbiamo? Dove sono le statualità? Dove recuperi il livello della statualità, rispetto a questa potenza?

Quali sono i soggetti di questa utopia? Vogliamo partire da li?

Non esistono soggettività unite da evidenti valori e/o con interessi chiari seppur non facilmente componibili. Ne segue che siamo alla ricerca di soggettività che non sono ancora coscienti di loro stesse. Tra queste soggettività possiamo poi decidere se privilegiare quelle puramente politiche o se siamo disposti a cercare soggettività non politiche. Più coese ma apparentemente impotenti o, il che per molti è lo stesso, potenzialmente potenti solo in un orizzonte temporale pre-razionalmente ritenuto essere eternamente rimandabile. A chi attribuisco quel “giudizio” e come ne spiego la pre-razionalità? Alle classi dirigenti che hanno portato la nave nelle attuali secche e lo spiego con un senso di entitlement che porta loro a credere a) di non dover meritare il rango che occupano, b) di poter trasferire su altri soggetti i costi del crescente disordine, c) di non dover immaginare il nuovo ordine ma, allo stesso tempo, d) di dover godere in esso dello stesso status goduto nel precedente e di farlo e) senza dover assumere rischi. Il fil rouge che unisce tutti i rentiers è il disprezzo-terrore-rimozione dell’immaginazione utopica. Il disprezzo di sé proiettato sui nemici di classe (o sui traditori della propria), gli unici che potrebbero essere soggetti alla necessità di coltivare tale immaginazione. Il terrore provocato in loro da quanti, nutriti di conoscenza effettuale, sono capaci di immaginare un mondo nel quale vaghi ma ricorrenti incubi divengono realtà irreversibile. La rimozione che li acceca rispetto a ciò che più temono.

Probabilmente le cose non sono prima o dopo ma dev’essere tutt’uno.
L’individuazione e magari l’organizzazione politica di queste soggettività si accompagnerà per forza ad un’immaginazione utopica e un’immaginazione utopica degna di questo nome nascerà contestualmente al riconoscimento/individuazione di queste soggettività.

Soggettività collettive da individuare ma anche soggettività individuali che a) le “vedono” (con gli “occhi della mente”) dove nessun altro le vede (Schopenhauer: “il problema non è tanto vedere ciò che nessuno ha visto ma pensare ciò che nessuno ha ancora pensato riguardo a ciò che tutti hanno visto”) e b) le organizzano (a fronte di quella che sembra una crisi irreversibile della rappresentanza, minata da un endemico narcisismo di crescente virulenza).

Uno dei problemi principali, con il concetto di soggettività politica, è che assume sempre che esistano ambiti separati, che il politico sia sovrano indiscusso sul proprio e che possa sperare di opporsi alle potenze universalistiche dell’indefinito solo aumentando l’efficacia nel proprio ambito specifico. Non posso dire di più. Vi invito però a pensare al lavoro di Tiebout & Hirschman. Il loro potenziale aumenta di molto se si abbandonano certe implicite (inconsce?) premesse.

Parte Seconda

#1. Pensare il fine dall’interno dello Stato

Nessuna legge unifica, ogni legge ha potere esplicativo ad un dato “livello di zoom” . Ne segue che, oltre un certo livello, perde quel potere esplicativo e, quindi, che l’assenza di consenso sul livello di “zoom” attraverso il quale analizzare i problemi rende impossibile raggiungere un consenso sulle soluzioni. Come detto anche da Cacciari, non c’è ragione per cui a “porre il fine” e ad “organizzare soggettività per perseguirlo” debbano essere due soggetti distinti. Restano però attività molto diverse che richiedono skill sets che non si trovano mai sotto lo stesso tetto. Qualora sussistessero dubbi, i “policy-legitimation shops” comunemente conosciuti sotto il nome di think tank non fanno neanche lontanamente lo stesso mestiere.

Come tenere in forma l’Evo? Come pensare il fine? A cosa si pensa prima? A un Equilibrio? A un Ordine ? A un Nomos?

Direi che l’economia è l’ambito in cui meno basse sono le probabilità di successo. Se quel successo arrivasse, nuovi soggetti emergerebbero a creare istituzioni che si incaricherebbero di cristallizzare quell’equilibrio. Vista la disperata ricerca di soluzioni chiavi in mano che accomuna i politici, quelle istituzioni verrebbero imitate in altri paesi e questo avrebbe conseguenze sull’ordine e sul nomos. Ma andiamo per gradi.

Mariana Mazzucato cerca da anni, tra fortissime resistenze, di far passare l’idea che lo Stato fu e (potenzialmente) potrebbe tornare ad essere imprenditore o, almeno, investitore. Non si vede come possa sfuggire l’inconsistenza logica di soggetti che, non ponendo il fine, avochino anche a sé il (virtuale) monopolio della scelta di “vincitori, sconfitti (e ungeborenen, come sarebbe stato, ad esempio, Improbable)” a detrimento di entità (gli Stati) che esistono come manifestazione istituzionale di una precedente utopia. Ciò detto, se davvero ci poniamo il “problema del come”, non possiamo nasconderci che gli Stati tendono ad attrarre pochi missionari, qualche “infiltrato” e molte persone che non volevano/potevano cercare fortuna nel settore privato, dove pure ci sono gerarchie (Deepmind > Google > Lockheed Martin > ecc).

Il confine tra missionari e infiltrati tende a sfumare nei casi di “reclutamento di milizia”. Non un vero e proprio lateral entry, perché attraverso di esso non si accede alla burocrazia statale, propriamente detta, ma semmai ad agenzie mission-led, istituite ad hoc e che, oltre a rispondere direttamente alla leadership politica, hanno il beneficio aggiunto di bypassare le norme che tentano di proteggere l’integrità del processo di reclutamento delle normali burocrazie statali.

Questo approccio, apparentemente efficiente e “meritocratico”, potrebbe facilmente risultare in qualche forma di auto-sabotaggio, nel senso di costo di opportunità sostenuto perseguendo obiettivi palliativi ma non curativi. Spreco di tempo e risorse preziosi che, allocate diversamente, potrebbero piantare i semi di diverse utopie. L’equivalente funzionale di dare morfina ad organizzazioni inefficaci, espressione di istituzioni moribonde e di rendere ancora più difficile fare i conti con la realtà, quando l’effetto della morfina svanirà.

E’ il know-what come l’araba fenice: che vi sia un tal lo dice…

Perché lo Stato incorra in costi di opportunità non è necessario che il “miliziano” sia un infiltrato eterodiretto verso il dolo, basta un missionario a cui vengano assegnati obiettivi che eccedono la sua job description. Come può accadere? Basta assumere che, oltre un certo livello di seniority, dal know-how si giunga, con la stessa necessità di un passaggio di stato, al know-what.

Cosa fa la politica a difendersi da simili rischi?

Temo non possa.

I timori di Weber si sono avverati. La politica, che non scala, ha un know-how auto-referenziale, è sempre meno esposta al know-how tecnico-scientifico e non ha nessun know-what. Quest’ultimo non è neppure acquisibile da parte dei governi che invece comprano know-how senior autorizzandolo a reclutare versioni junior di sé stesso. In questo tipo di processo si annidano ingenti costi di opportunità che non esisterebbero se il know-how junior avesse la capacità di distinguere tra know-what (la cui leadership vale la pena di seguire) e mero know-how senior. Questo è uno dei problemi più difficili da risolvere.

a) Cos’è il know-what? e b) in che senso non è acquisibile dagli Stati?

La risposta semplice alla prima domanda è questa:

scelta : decisione = decisione : know-what

La scelta è quella interna ad un menu di opzioni da adattare ad una fattispecie. La decisione è open-ended e bi-dimensionale (dato un punto su un piano individuare il secondo punto che permette di risolvere un problema nel modo più efficace). Il know-what è open-ended ma tri-dimensionale, e la sua qualità si giudica dalla capacità di “risolvere” vari piani simultaneamente, producendo un equilibrio superiore.

Se definiamo il know-how come la conoscenza tecno-scientifica (wertfrei), allora è chiaro che il know-what, al suo meglio, non è solo la capacità di porre obiettivi (tattici e/o strategici) ma di farlo in vista di un fine consistente con un equilibrio, un ordine e, eventualmente, un nomos superiori. Cacciari ha ragione quando dice che, storicamente, chi pensa in grande, erra in grande. Disaccoppiare ambizione e rischio, tuttavia, è la principale promessa del know-what.

La risposta semplice alla seconda domanda è che nemmeno il Capitale, che pure compra know-how (a prezzi che possono decuplicare quelli storici), può comprare il know-what.

Mia variazione sul diagramma di Nicolas Colin.

Il massimo che può fare, attraverso un processo di staged financing, è comprare parte di ciò che esso crea ma non può possedere in anticipo tutto il frutto del suo lavoro. Infatti, se la crescita di valore della startup guidata dal know-what eccede la crescita delle sue esigenze di capitale, allora il know-what avrà il potere di negoziare termini che gli permettano di mantenere, oltre a una significativa quota delle valore creato, anche un ferreo controllo sul CdA.

Lo Stato, tale come lo conosciamo, non può comprare equity in imprese create per risolvere, in modi molto più efficienti, problemi la cui soluzione lo Stato ha avocato a sé. Per una ragione strutturale. Lo Stato (o qualunque entità politica che derivi la sua legittimità dal fornire stabilità), non può alterare lo status quo ragionando in termini di zero-based budgeting. Cosa è cambiato da quando Vespasiano rifiutava innovazioni tecnologiche, nel trasporto delle colonne di marmo, per timore che la maggiore produttività avesse solo conseguenze negative su quella che oggi noi chiamiamo domanda aggregata?

Noi sappiamo che è possibile ragionare in termini di zero-based budgeting a patto di proporre un nuovo equilibrio nel quale i fattori (stakeholders) accettano di riorganizzarsi ad un livello più alto di produttività.

Qualcuno ha idea di come questo possa essere fatto per decreto?

Quod erat demonstrandum. Va fatto, nessuno sa come fare ma (quasi) tutti sembrano sapere come non si possa/debba fare (anatema, signora mia!).

Naturalmente se si sbaglia la diagnosi qualunque prognosi è sbagliata. Data l’incertezza nella quale siamo immersi, assegnare un monopolio (de facto) ad una qualunque prognosi (per di più top-down) è una ricetta per il disastro. Saggezza ci suggerisce, dove possibile, una prognosi riservata e la ricerca di soluzioni tecnologiche per testare in vivo e ad una scala crescente, le nostre eventuali cure, prima di somministrarle all’intero corpo, tanto umano quanto sociale.

Allo stesso tempo, illudersi che ogni istituzione e organizzazione deputata, nel vecchio paradigma, alla soluzione di un problema sia, oggi, l’unica legittimata a pensare a quel problema significa non capire che istituzioni e organizzazioni sono mezzi in vista di un fine. Il fine è la fitness della polity. Ovviamente il problema non è certo di “capire” ma di accettare la propria, sopravvenuta, irrilevanza. E nessuno status quo è più facile da accettare che quello al quale non esistono (più) i mezzi per opporsi. Il difficile non è scegliere quali rane bollire e quali salvare. Il difficile è capire come bollirle.

Anche assumendo che possano accedere a know-how adeguato, dove reperirebbero, i Sovrani, un know-what che abbia alle spalle anni e anni investiti (“a fondo perduto”) nella riflessione sul re-design di cui lo Stato necessiterebbe? Riflessione, badate bene, non parziale come di chi divenga esperto al soldo dello Sovrano, tramando, nelle sue viscere, contro altri organi. No, una riflessione super partes. Non è dato sapere se simili missionari esistano ma, posto che esistano e posto che li potesse identificare, non esisterebbe una forma legittima per interagirvi. Non ci possono essere concorsi ad evidenza pubblica, per il know-what. Mentre la potenza del know-how è misurabile a priori e, quindi, “commerciabile”, quella del know-what non lo è che nell’atto. Ergo, a posteriori (e anche li solo in modo approssimativo).
Nessuno si sorprenderà di sapere che la maggior parte del know-what esistente lo si trova nell’annacquata versione “commerciale”.
E’ chiaro che se vi fosse una chiara domanda di know-what “statale” e se le proposte fossero adeguate, l’offerta di know-what aumenterebbe considerevolmente, cosa che presenterebbe un problema paradossale. Se volessimo che quello del know-what “statale” fosse un profilo aristocratico (nel senso platonico) pubblicizzarlo come una job opening qualsiasi sarebbe il modo più sicuro di contaminare il pool dei potenziali candidati, disperdendo i pochi missionari tra torme di mercenari.

Ne segue che è preferibile avere pochi missionari (o nessuno) piuttosto che creare una casta di bramini innalzati ad un rango che nella maggior parte dei casi sarebbe usurpato perché non può fondarsi solo su conoscenza e capacità di pensiero astratto.

Quante persone accetterebbero una vita di lavoro monacale senza alcuna garanzia che quel lavoro potrebbe essere riconosciuto e valorizzato? Quale dovrebbe essere il premio per sapere cose che nessuno sa e averle scoperte facendo quello che nessuno era disposto a fare?

Si sentono echi della dialettica Vincitore/Vinto di Hegel ma sono illusori. L’autorità del know-what è diversa da (e superiore a) quella del Vincitore. Quest’ultimo avrà pure mostrato di essere pronto a perdere la propria vita ma lo ha fatto solo nell’istante in cui ha “incrociato lo sguardo” del rivale e questo lo ha abbassato. Fine. Non solo non ha sostenuto nel tempo quella disponibilità ma, da quell’istante, ha derivato uno status quo nella quale il Vincitore non ha necessità di acquisire altre competenze che quelle utili a mantenere detto status quo, rimanendo, per tutto il resto, completamente dipendente dalle competenze del Vinto. Questo spiega come la relazione possa, se non rovesciarsi in un predominio del secondo rispetto al primo (assurdo logico) di certo rimanere per sempre alla ricerca di una impossibile stabilità.

Per restare in metafora, il know-what non “incrocia lo sguardo” del know-how. Ciascuno fa il suo percorso, l’uno indipendente dall’altro.

L‘autorità del know-what non è soggetta a rovesciamento perché i “segreti” che ha scoperto sono quelli che permettono al know-how di esprimere appieno la sua potenza. Al contrario di quel che accade nella relazione a somma-zero tra Vincitore e Vinto, quella tra know-how e know-what è una relazione cooperativa e a somma positiva.

Accettando il rischio concreto di sprecare la propria vita, il know-what guadagna un’autorità basata sia sul rischio corso che sull’importanza dei “segreti” scoperti nel lungo periodo nel quale accumulava conoscenza non monetizzabile.

L’autorità di assegnare una priorità ai fini e di conseguenza, ai know-how necessari per perseguirli. Così facendo ottiene imperitura gratitudine perché l’unica cosa che non si può comprare è il tempo e il know-how, lasciato a sé stesso, incorre spesso altissimi costi di opportunità investendo preziosissimo tempo in attività che non gli permettono di mettere a frutto tutto il suo potenziale. Il know-what, assumendo su di sé il supremo costo di opportunità (una vita intera) acquisisce autorità su un numero asimmetricamente alto di persone.

Dove ci lascia questa lunga digressione su know-how e know-what? Siamo partiti da Mariana Mazzucato, lo Stato imprenditore e tutti problemi strutturali che rendono difficile, per uno Stato liberal-democratico, di porre il fine in modo insieme legittimo ed efficace.

E’ possibile evitare che il ruolo dello Stato si riduca a quello di istitutore (via governi) di agenzie mission-lead, affidate a know-how? Purtroppo, per evitare questa coazione a ripetere servirebbero persone dotate di carisma personale che abbiano l’autorità per prendere rischi in nome e per conto di un soggetto collettivo (lo Stato) sapendo che ogni loro decisione sarà analizzata da persone che non sono state formate per capire le logiche sulla base delle quali quelle decisioni sono state prese. Senza contare che alcune di quelle decisioni potrebbero (anatema!) non potere essere supportate da dati quantitativi.

E’ un problema strutturale. I processi interni allo Stato segnalano alle persone con il potenziale per fornire aiuto che non c’è posto per loro e questo, a meno di sforzi di volontà quasi soprannaturali, retroagisce e diventa una profezia auto-avverante.

All’interno delle istituzioni liberal-democratiche i servitori dello stato hanno responsabilità, non poteri. E quelle responsabilità sono legate, in una regressione infinita nella quale ciascuno, con tempi e modi diversi, dipende all’approvazione di qualcun altro. Come questo si possa conciliare con il know-what, in una qualunque delle sue possibili manifestazione è un mistero. Ecco perché, istituzionalmente, non può esistere il ruolo del “fondatore”. Lo Stato preesiste ciascuno e a ciascuno sopravvive. Nessuno fonda alcunché. Non è una caso che sia rimasta in uso la dizione “servitore dello stato”. Ai servitori non è richiesta iniziativa che all’interno delle mansioni assegnate loro. Il compito della politica sarà pure quello di porre il fine ma porre il fine è impossibile se nessuno ha l’auctoritas di fondare alcunché.

Nel vigente design istituzionale dello Stato di Diritto si privilegia l’equilibrio all’efficacia, secondo una logica di per sé giusta ma fondata su premesse parzialmente erronee.

La premessa implicita (inconscia?) è che il potere politico “può tutto”, non fosse che all’interno dei confini entro i quali esercita la sua sovranità, e che, quindi, bisogna limitarlo. Intendiamoci, non fatico ad ammettere che un partito possa, almeno teoricamente e data una transizione sufficientemente lunga, trasformare una repubblica (con pochi anticorpi) in un’autocrazia, poco importa se periodicamente legittimata da plebisciti elettorali. Siccome quell’evento è nell’orizzonte del possibile è necessario che esistano ogni sorta di meccanismi per impedirlo, dai limiti al numero di mandati fino ai più esoterici aspetti procedurali.

Siamo sicuri che il potere politico possa davvero tutto ciò che la logica implicita nel disegno istituzionale sembra paventare? E’ probabilmente impossibile dimostrare che la performance economica causi la stabilità politica. Quello che sappiamo è che, storicamente, la cattiva performance dell’economia causa instabilità politica.

Il potere, in ambito economico, è principalmente un potere di distruttivo (privilegiare un’élite compradora, aumentare il debito in valuta estera, privatizzare assets strategici, ecc.) e questo lo si può fare anche in uno Stato di Diritto. Quello che non esiste, è il potere costruttivo. Chi vuole auto-distruggersi trova sempre amici, chi vuole rafforzarsi trova solo concorrenti. Se il potere fosse onnipotente gli basterebbe schioccare le dita per avere una maggiore complessità economica o una maggiore produttività. Se tale potere esistesse, quale governo se ne priverebbe? Tanto più che non esiste design istituzionale che possa dare legittimità alle istituzioni di un paese la cui economia non tenga fede alle aspettative delle popolazione.

Se il know-what non va dal Sovrano, il Sovrano va dal know-what?

La risposta di default, per ogni performance sub-ottimale dello Stato, è sempre “riforme istituzionali”. Le istituzioni sono la risposta che uno Stato o un “concerto” di Stati utilizzano, compatibilmente con etica (più o meno aspirazionale, più o meno dichiarata) e morale dei popoli, per perseguire il tipo di equilibrio desiderato tra performance economica, stabilità politica e libertà civili.

Non dubito che, ai margini, un’efficace riforma dello Stato sarebbe positiva ma non vedo come tale riforma possa rispondere alle obiezioni strutturali che ho presentato. Non solo, anche assumendo che tali riforme possano essere efficaci, non è affatto detto che lo rimarrebbero per un tempo abbastanza lungo da permettere il pieno ammortamento del loro costo politico.

Nella misura in cui è vero che “se si sbaglia la diagnosi qualunque prognosi è sbagliata” le conseguenze sono tanto più gravi quanto più a lungo la prognosi è supposta rimanere vigente per poter ammortizzare i suoi “costi di produzione”.

Pensate alla diagnosi sottesa alla scrittura di una semplice legge. Quale può essere l’investimento di un Parlamento, nella scrittura di una legge? La quota pro-rata di costo di funzionamento è ovviamente il modo sbagliato di misurare il costo di una legge. Il modo giusto sarebbe di misurare il costo di opportunità sotto forma di gap tra quanto prodotto e quanto sarebbe stato possibile produrre, a parità di risorse. Nello specifico, le ore/uomo che i parlamentari avranno allocato perseguendo una legge non prioritaria (anche se ben scritta) o, Dio non voglia, poco utile e mal scritta, il che produrrebbe ulteriori costi di interpretazione e implementazione, a carico degli agenti economici.

Per quanto accurata sia la diagnosi che porta ad una legge (la prognosi) nel corso dell’iter parlamentare il “territorio” al quale l’approssimativa “mappa” diagnostica si riferisce potrebbe mutare, in modi anche drammatici. Basti pensare che la Singularity University cambia il venti per cento dei suoi programmi ogni tre mesi. Senza contare che, per ragioni ideologiche, può accadere che il testo originale della legge (la prognosi) debba deviare dalla diagnosi sulla quale era basata.

Ora, provate a stimare il cambio di scala che separa la redazione di un’umile legge ordinaria, tra tante, e la legge fondamentale di uno Stato, che non fornisce “solo” il contesto nel quale tutte le future leggi ordinarie verranno scritte ma che determina anche gli equilibri tra istituzioni e organi dello stato. Pensate alle tensioni che un sistema politico deve sopportare nei lunghi anni di riscrittura delle sue regole. Pensate a quei costi politici, certi e immediati, e pensate ai benefici, incerti e, anche quando effettivi, di durata imprevedibile.

Adattando le istituzioni al mondo, tale come lo si esperisce durante il processo costituente, si corre il rischio che il mondo cambi e che, nel giro di qualche lustro, ci si ritrovi daccapo. Se è vero che istituzioni immobili nella loro statuaria dignità ricevono l’oltraggio dell’irrilevanza è altrettanto vero che istituzioni che rincorrano la realtà hanno l’autorevolezza del piazzista.

Non solo. Le istituzioni sono derivate da valori, principi fondamentali che, specie se inseriti in una legge fondamentale, impegnano per il futuro. Anche assumendo che si voglia correre il rischio di verificare quale genere di consenso esista sui valori che tengono assieme (si fa per dire) una comunità nazionale, dovrebbe essere chiaro che la coerenza interna tra principi fondamentali, rapporti (economici, politici, ecc.) ed istituzioni verrà attentamente scrutinata.

C’è di peggio. Il lavoro della Costituente non accade nel vuoto ma si inserisce in un continuum storico. Per ogni diritto, per ogni rapporto sociale c’è una curva che ne misura il progresso o il regresso rispetto alle precedenti esperienze costituzionali. Segnali di questa forza hanno profonde conseguenze sulla percezione esterna che a sua volta retroagisce sugli equilibri sociali e politici di quel paese.

Un conto è scrivere una costituzione in un mondo pacificato dall’impossibilità di combattere oltre, con un’occidente monolitico e ancora dominante in un ordine internazionale rigido ma chiaro, un terzo della popolazione (2.4 vs. 7.2mld), un quarto delle emissioni (in un’atmosfera con centinaia di kt di CO2 in meno), senza entitlements (culturali e finanziari), con una demografia sana e senza le attuali differenze di reddito. Sia intra-nazionali e inter-nazionali. Un mondo con mezzi di comunicazione capital intensive e, quindi, con il tipo di controllo sulla mappa cognitiva tipicamente associato ad un modello top-down. E potrei continuare.

Ben altra storia sarebbe scrivere una costituzione oggi.

E’ possibile (e se si desiderabile) modificare le istituzioni senza cambiare il sostrato costituzionale? Se si, in quali circostanze sarebbe desiderabile ricorrere a quell‘approccio? Non sta a me stabilire se sia vero che la durata della costituzione si paga con il progressivo svuotamento del suo significato. La domanda che mi faccio è un’altra. Posto che sia reale, in che misura si può usare quello svuotamento come profondità strategica giuridica? Posto che fosse auspicabile, cosa dovrebbe succedere perché si creasse un consenso costituzionale non-scritto ma comunque enforceable?

Chi ricorda il dibattito dei costituenti circa il diritto di resistenza (che, sia detto en passant, credo abbiano fatto la scelta giusta) può forse intuire come la penso perché molti degli argomenti che supportarono quella decisione sono estendibili a questo ambito.

Il numero di coloro che sentono di vivere vite inferiori al loro potenziale è molto cresciuto negli ultimi cinque lustri. Ed è probabilmente cresciuto in modo non lineare rispetto al deterioramento delle condizioni economiche. Nessun sistema sarà mai stabile se non si affronterà (e inizierà a ridurre) il divario tra ciò che ciascun individuo pensa di poter valere e il valore che il mercato, lasciato a sé stesso, gli permette di dimostrare.

Per coloro che, anche a fronte degli argomenti qui proposti, mantenessero inalterata la loro fiducia nei soggetti statuali e nella loro capacità pratica di porre il fine, penso sia legittimo coniare un sostantivo che partecipi del campo semantico di hybris e che veicoli un eccesso di ottimismo della volontà.

#2. Pensare il fine dall’interno del capitalismo

Cosa dovrebbe accadere perché fosse pensabile di “porre il fine” (del Sistema della Libertà), non come soggetto giuridico virtualmente eterno (che può morire solo attraverso conquista militare e annientamento culturale), ma come soggetto giuridico la cui sopravvivenza dipenda da una rilevanza che deve sempre essere riguadagnata? Cosa dovrebbe accadere, in altre parole, perché fosse possibile porre il fine come un puro agente di mercato, soggetto alla logica del capitalismo?

Come si potrebbe usare il principio ordinatore del mercato nel perseguimento di un fine? E qual’è, questo principio ordinatore? Siamo davvero sicuri che sia il profitto? Si e no. Il margine di profitto è il principale (ma non l’unico) fattore che determina la quantità e qualità di opzioni a disposizione di un agente nel suo processo di accumulazione.

Accumulazione di cosa? Di potere. Il profitto è un mezzo (generale) in vista di fini (particolari) che ciascun agente, sulla base delle informazioni in suo possesso (e del senso che è capace di estrarvi), decide di perseguire con il proprio potere. Ogni margine di profitto, nella sua essenza più pura, non è che l’espressione finanziaria di una lunga catena di decisioni che unisce il passato al presente. La manifestazione esterna di quelle decisioni è un prodotto/servizio, creato in un luogo specifico, con una specifica catena di valore e venduto in specifici mercati d’accordo ad una specifica strategia di prezzo.

Questa catena di decisioni è in costante evoluzione. Ogni decisione (sempre relativa, conseguenza delle opzioni disponibili) può costituire un detour che incammini l’agente verso una maggiore/minore fitness. Chiamiamo innovazione l’insieme delle decisioni presenti e future che hanno come obiettivo il creare/mantenere/migliorare il margine di profitto di un agente.

Il know-what commerciale (che le startups di successo hanno in comune) è quello che, avendo compreso meglio di altri una o più di quelle catene di decisioni, riesce ad estrapolarle meglio di altri nel futuro.

Chi voglia andare all’origine dell’auctoritas, nei processi di innovazione, deve considerare che l’innovazione la fanno sempre individui inseriti in organizzazioni. Il che presuppone sia l’accesso a talenti che la qualità dei processi organizzativi (a sua volta frutto della riflessione di persone di talento). Quei talenti dovranno essere scelti da altre persone (scelte da chi?). Altre persone dovranno indicare loro a cosa applicare il loro know-how, in vista di quali obiettivi, con quale ordine di priorità e quale livello di discrezionalità operativa. E così via.

Una persona abituata a ragionare per “concetti primitivi” non avrà mancato di notare un regressus ad infinitum. Cosa ferma, quel regressus? Cosa fonda la catena di causalità? Il fondatore, letteralmente. Il soggetto di quella scelta e l’auctoritas sulla quale essa si fonda, è il cuore del problema. Criptico? Certe verità possono essere rivelate solo quando le discontinuità che devono produrre non siano più reversibili.

Chiunque voglia mantenere “un’apertura al possibile” (il Sistema della Libertà) deve motivare i demotivati, impensabile se non si risponde in modo convincente a domande come quelle che seguono.

C’è davvero qualcosa (e cosa?) che rende impensabile “porre il fine” in assenza di una soggettività politica e di istituzioni pubbliche? Cosa, nel principio ordinatore del capitalismo (profitto), rende così impensabile costruire soggettività e, facendo leva su quelle, proporre istituzioni più adatte al mondo nel quale viviamo e meglio capaci di aiutarci ad evolvere verso quello nel quale vogliamo vivere?

La mia risposta, lo avrete capito, è: nulla, a parte un deficit di immaginazione. Perché, allora, il consenso sembra essere che sia ridicolo anche solo pensare che si possa porre il fine dall’interno del mercato? Non saprei. Forse dipende dal fatto che, dietro il sostantivo capitalismo, si nasconde un multiforme e proteiforme organismo del quale sembriamo condannati ad indagare solo singole parti (come nella celebre parabola di Rumi), il che finisce per produrre un surplus di erudita learned helplessness e un drammatico deficit di fondata ambizione e effettuale progettualità.

Il capitalismo, visto nel suo principio ordinatore, “non è altro che” un margine di profitto, ottenuto attraverso una catena di decisioni (in un numero più o meno grande di ambiti del sapere, ciascuno più o meno vasto) e finalizzato all’accumulo di potere (di mercato).

L’innovazione, intesa come “catena di decisioni che portano ad un profitto”, è l’ambito nel quale porre il fine per costruire alternative allo status quo. La Storia è piena di opportunità la conoscenza delle quali, come il futuro di William Gibson, non è equamente distribuita (e non parliamo della capacità di estrarre know-what, da quella conoscenza). Quante persone sono pagate per studiare storia utopica e scrivere controfattuali? Quante persone sono pagate per analizzare, nel modo più granulare possibile, le vulnerabilità ricorrenti nei movimenti riformatori? Quante per immaginare movimenti riformatori che facciano tesoro degli errori del passato? Ecco, appunto.

Nessuno dovrebbe sorprendersi che molte persone, anche intelligenti, assumano che, siccome secoli di interazioni tra agenti di mercato non orientati ad un fine hanno prodotto un paradigma sinteticamente definibile come “ evoluzione in-definita”, allora, necessariamente, quello dev’essere avvenuto a causa di una qualche legge, più o meno ferrea, e che quella stessa legge vigerà nel futuro come vigette nel passato.

Né è sorprendente che ogni flebile residua speranza di affrancamento dall’imperio dalle potenze dell’indefinito procedere sia fondata su quello che è il loro opposto speculare: la deliberazione. O che il dibattito sulle dimensioni ottimali dell’entità che sarebbe deputata a porre il fine, e che tutti assumono dovrebbe essere politica, si concentri su due sole opzioni: nazionale e sovranazionale.

E’ comprensibile ma non condivisibile. Se accettiamo la premessa che non esista una legge ferrea che assegna un vantaggio strutturale agli agenti di mercato che non pongono il fine non c’è ragione di chiamare in causa soggetti extra-mercato (gli Stati) che, oltre alle difficoltà precedentemente elencate, introdurrebbero un surplus di identità che potrebbe generare dinamiche disgregatrici in quella che altrimenti si prefigura come una competizione tra agenti di un mercato di tipo nuovo.

Facciamo un gioco

Pensate ad un’industria (composta da tante imprese, ciascuna con una diversa quota di mercato) e chiedetevi cosa dovrebbe succedere perché quell’industria diventasse inutile. Il mondo nel quale quell’industria non è più necessario è un diverso paradigma. Le imprese possono non avere un fine ma sono necessarie o meno solo all’interno di determinati paradigmi.

Non pensate che la competizione tra paradigmi sarebbe bella e desiderabile? Non pensate che, se il prezzo, per poter partecipare a quella competizione, fosse la capacità di porre un fine desiderabile e di agire di conseguenza, sarebbe facile migrare da un Paradigma ad un’altro? Non pensate che questa doppia “nazionalità” (politica e paradigmatica) sarebbe desiderabile sotto molteplici aspetti?

Sebbene nulla ci assicuri che l’equilibrio che risulterebbe dalla competizione tra Paradigmi sarebbe superiore all’equilibrio che risulterebbe dall’indefinito procedere, questo è uno dei casi in cui vale la pena di correre il rischio. Non fosse che per il fatto che quella competizione aumenterebbe esponenzialmente il numero di esseri umani dotati di agency.

Siamo davvero sicuri che non si possa essere deliberati nella direzione generale (il Paradigma) ma evolutivi nei dettagli di tale evoluzione?

Questa è la differenza fondamentale. C’è un livello intermedio tra la singola impresa e la società nel suo complesso. Quel livello non è adeguatamente formalizzato ma dovrebbe esistere ed è, come avrete capito, il Paradigma.

Intendiamoci. A livello di singolo agente, ogni innovazione è sempre deliberata ma la risultante, a livello di società, non lo è. Gli agenti economici, tali come li conosciamo, non possono porsi il problema di come la loro deliberata innovazione interagirà con le deliberate innovazioni di tutti gli altri agenti in termini diversi da: “aumenterà o ridurrà la mia fitness relativa?”.

A meno che…

A meno che la loro ragion d’essere, fin dalla loro fondazione, non sia di innovare in vista di un fine, un Paradigma, e di farlo attraverso un agente di mercato. Evolvendo (tatticamente) assieme al mercato ma senza abbandona il fine. Attraendo le persone giuste, organizzandole nel modo giusto e ottenendo accesso alla quantità necessaria di capitali, ad un prezzo coerente con la sostenibilità di imprese che cercano di massimizzare la loro fitness in rapporto ad uno specifico Paradigma.

Fattori di produzione e Continuums

L’innovazione, intesa come “catena di decisioni che portano ad un profitto”, dovrebbe essere l’orizzonte di chi accetta di porre il fine come agente di mercato.

Se uno indaga i fattori di produzione dell’innovazione (capitale, know-how e know-what) scopre che ciascuno di essi è situabile lungo diversi continuum compresi tra due polarità. Operativo-strategico, finanziario-commerciale, precoce- tardivo, passivo-attivo, tra gli altri.

In questa sede mi interessa solo un continuum (passivo-attivo) di un solo fattore di produzione (il capitale).

Dopo l’età dell’oro, le civiltà stanziali iniziano ad esistere a partire dalla scarsità assoluta e il dominio assoluto di qualunque capitale permetta di limitare le conseguenze di tale scarsità. Quel dominio assoluto non necessita di nessuna attività. Nella misura in cui l’uomo crea una Natura parallela (mezzi di produzione, conoscenza, ecc.) il dominio di quel capitale inizia a relativizzarsi. Deve attivarsi per ottenere i mezzi necessari ad aumentare la propria fitness, l’evoluzione di quei mezzi permette nuove combinazioni e richiede nuove sfumature di attività.

Se estrapolate questa dinamica arriviamo al presente nel quale, come detto, il capitale può comprare know-how ma non può comprare know-what.

I capitali (profitti) delle imprese mature non sono ovviamente gli unici a poter essere investiti in innovazione ma sono certamente quelli che necessitano di meno intermediazione e, quindi, presentano un costo più basso. Almeno in teoria, perché le imprese esistenti hanno difficoltà ad attrarre allocatori e imprenditori di talento e il minor costo di capitale è più che compensato (in negativo) da un minor IRR degli investimenti effettuati (quando non, Dio non voglia, da una peggior performance di borsa, causata dalla mancata “restituizione” dei profitti agli azionisti).

In poco più di un minuto, Clayton Christensen spiega come tecnicamente, si è arrivati, alla situazione attuale.

A dispetto di quanto dice Christensen, non tutti i profitti vengono reinvestiti in efficienza. Una parte, (il 5% circa) vengono re-investiti in nuove imprese, a diversi stadi di sviluppo.

Perché mettere quel capitali nelle mani di startups invece che di team interni a grandi corporations?

Precisamente perché si assume che i dipendenti di grandi corporations abbiano (senior) know-how ma manchino di know-what.

La path dependence insita in ogni organizzazione rende inevitabile che ogni discontinuità necessiti di un nuovo agente di cambiamento, di una nuova organizzazione. Questo è vero a livello individuale (vedi Max Planck) figuriamoci a livello aggregato.

L’immortalità (potenziale) delle imprese frena il potenziale evolutivo di un società intrappolando know-how avverso al rischio all’interno di organizzazioni indifferenti al fine e impossibilitate a attrarre know-what.

L’aspettativa del mercato è che le public companies che hanno più capitale che (realistici) progetti debbano restituirlo agli azionisti. Come detto, parte di quel capitale (il 5% circa), finisce ai capitalisti di ventura. Questo processo non esiste da sempre. Al contrario. Esiste, in modo strutturale, solo dal 1974.

Così come esistono eserciti regolari composti da soldati più o meno leali alla bandiera (sovrana o corporativa) esiste anche l’equivalente capitalistico dei soldati di ventura. I capitalisti di ventura non agiscono per conto di un Sovrano ma di “Signori della Guerra” (commerciale: “business is war, with rules”) chiamati Limited Partners.

Un’euristica molto efficace per stimare la maturità di un ecosistema è paragonare il potere che un capitale indifferenziato può esercitarvi a quella che può esercitare nell’ecosistema di riferimento (Silicon Valley).

In un ecosistema maturo, se il fattore di produzione capitale non ha che denaro da offrire, non ha nulla da offrire. Non è difficile da capire. Pensate all’epoca delle esplorazioni. Cos’era che valeva? Il bene di capitale materiale (la nave) o quello immateriale (informazioni su rotte, politica locale, usi & costumi delle popolazioni, ecc?) Lo stesso è vero oggi. Accettare un finanziamento da uno che può “comprare una nave” e “mantenere un equipaggio” per un tempo “x” ma che non può aiutarti a riportare un vascello carico di tesori implica un enorme costo di opportunità. Certe cose non cambiano.

Nel tempo, anche per queste ragioni, il “capitale di ventura” ha evoluto (senza altro fine che la propria fitness) e, in alcuni casi, ha abbandonato il tradizionale algoritmo:

[se qualcosa funziona (d’accordo a parametri abc) allora inondatela di capitali (d’accordo a parametri xyz)].

Verso quale modus operandi ha evoluto?

Quando, come oggi, ci sono più capitali che vere idee, le idee (il know-what) esigono dal capitale qualcosa in più che denaro per comprare tempo di esecuzione (runway) tra una diluizione e la successiva.

Cosa? Garanzie.

Di cosa?

Che il proprio tempo non sarà sprecato.

E come si può garantire questo?

Non si può, ma si può abbassare il rischio.

Come?

Segreti. Di alcuni segreti è relativamente facile stimare il valore (segreti di know-how) di altri non è così facile (segreti di know-what).

Il nome del responsabile dell’ufficio acquisti di un’importante impresa non è un segreto. Un segreto (di know-how) con un valore facilmente definibile è l’accesso a quella persona attraverso un comune conoscente. Questo (e molto altro) è ciò che ci si aspetta da soci di capitale. Se si deve diluire la propria quota, cedendo parte della propria impresa, i nuovi soci devono contribuire a minimizzare future diluizioni.

Così come il luogo migliore per cercare una nuova miniera è nell’area topograficamente contigua ad una vecchia miniera, così il “luogo” ideale per cercare fattori di produzione (capitale, know-how, know-what) è l’area topologicamente contigua ad imprese di successo in una determinata industria. Quanto più remota è l’epoca di accumulazione di un capitale e/o basso il contenuto di conoscenza necessario a quella accumulazione, quanto più bassa sarà, per quei capitalisti, la probabilità di riconoscere il valore di fattori di produzione oggi necessari per produrre nuova accumulazione. Questo spiega molto del gap di innovazione che esiste tra Europa, da un lato, e USA e Cina dall’altro.

Come accennato, il continuum passivo/attivo è applicabile anche ad altri fattori di produzione, oltre al capitale. Da tempo, ad esempio, si cerca attivamente di provocare la nascita di startups favorendo l’incontro di know-how complementari. Alcuni hanno segnalato la desiderabilità di estendere quel’approccio all’incontro tra know-what (commerciale) e know-how, ma nessuno ha dimostrato di saperlo fare. Men che meno ponendo fini che trascendano l’ambito commerciale.

Se incrociamo, simultaneamente, due continuum e i tre fattori di produzione il gioco si fa molto più interessante. Se, oltre alla polarità attiva (del continuum passivo-attivo), consideriamo la polarità precoce (del continuum tardivo-precoce) incontriamo un modus operandi nel quale, invece di investire in una “forma di vita capitalistica” solo dopo che il mercato abbia validato la tesi sulla quale è costruita, è lo stesso soggetto investitore a generare le sue tesi e a portarle sul mercato. Questo soggetto riunisce, sotto un’unico tetto, tutti i fattori di produzione ma nessuno di loro si pone fini che trascendano la loro nicchia commerciale. Almeno in linea di principio, tuttavia, nulla vieta di portare sul mercato tesi utopiche. Nulla eccetto forse la disponibilità finanziaria, espressa in runway/run rate.

Non fatico ad ammettere che il gap tra finalità commerciali e Fine, come Sistema delle Libertà, possa, almeno in astratto, apparire grande. Quel gap si riduce di molto se trasportiamo certi processi in ambiti non commerciali. Nulla vieta, ad esempio, di applicare un approccio simile ad obiettivi politici.

E’ stato fatto e il coinvolgimento della LSE dovrebbe fugare gli eventuali dubbi sulla serietà del tentativo di Zinc (vedi titolo post) che combina le intuizioni delle scienze sociali con i migliori talenti imprenditoriali e il “capitale di ventura” per costruire nuove imprese scalabili e “mission-led”. Ogni programma dura nove mesi e ha un’unica missione, risolvere un problema sociale che riguarda almeno 100 milioni di persone. Personalmente penso che l’approccio di Zinc abbia un limite strutturale. Per ragioni pratiche, che capisco bene, è costretto a segmentare il mondo in tanti silos invece che affrontare i problemi come un’unità, seppure ad una scala minore.

Penso altresì che il vero obiettivo, di lungo termine, sia di dare al know-what un accesso indipendente al capitale. Nonostante la crescente abbondanza di capitale, infatti, il know-what non ha ancora trovato il modo giusto per accedere ad abbastanza capitale da poter competere nel reclutamento di know-how. Nessuna persona dotata di know-what ha (ancora) trovato i mezzi per abilitare tutte le altre. Non possiamo assumere che qualcuno ci riuscirà ma neanche l’opposto.

Un piccolo segnale in questo senso è recentemente arrivato dal fenomeno delle ICO. Anche se la SEC ha segnalato che le ICO sono legittime solo per un ridotto sottoinsieme di progetti, le dimensioni del fenomeno mostrano l’appetito di piccoli investitori, pronti a mettersi in gioco, non fosse che per i motivi sbagliati, speculativi. E’ fin troppo facile riconoscere i segni della disperazione di classi sociali che hanno perso ogni percorso legittimo e sicuro verso la stabilità economica. Proprio perché indifferenti rispetto al fine, tuttavia, tendono ad associare ambizione (definita in termini poco rigorosi) e appetibilità. Il genio è uscito dalla bottiglia e solo un nuovo equilibrio e un nuovo ordine metterà fine a questa follia. Nel frattempo, il massimo che possiamo fare è canalizzare quei fondi verso progetti legittimi. L’unico limite è quello dell’immaginazione (di nuovo, know-what).

Conclusione: Il katéchon laico

Supponiamo che noi, in hoc saeculo, ci decidessimo. Che riconoscessimo che la nostra vita non è più indeterminata ma, dopo una lunga e solitaria traversata del deserto dell’anomia, riconoscessimo che la nostra vita ha un fine, che per la prima volta riconosciamo. Non un fine specifico, più o meno contingente. Un Fine che trascendesse ogni contingenza e che questo fine fosse l’Altro. Che il fine fosse relazionale. Che l’altro ci definisse. Che quel che facessimo per aumentare la vitalità e la potenza del nostro prossimo aumentasse la nostra vitalità e potenza. La nostra beatitudine.

In che modo questa accettazione irreversibile si concilierebbe con l’idea di un Paradigma, livello intermedio tra agenti e società, dotato di soggettività e capace di pone il fine come agente di mercato?

E tale Paradigma potrebbe avere una valenza catecontica? Il katéchon ecclesiastico frenerebbe l’Antikeimenos per lasciare il tempo alla conversione. Quale sarebbe il fine del Paradigma? Perché dovrebbe frenare l’Antikeimenos? Per lasciare il tempo alla conversione. Non necessariamente alla fede che Gesù è il figlio di Dio, incarnato e risorto, padrone della vita e della morte ma, almeno, alla fede che possiamo essere homo homini deus. Che accettando quella verità, noi ci comprometteremmo ad un interdipendenza nella quale saremmo, insieme, soggetto e oggetto di beatitudine, parte dell’infinito intelletto divino.

Può il Paradigma supplire lo Stato nel consentire l’espressione piena del conatus alla letitia e alla voluptas. Può educare al riconoscimento che per compiere questo fine, dettato dalla mia stessa natura dovrei muovermi, nei confronti di tutti gli altri miei simili, esattamente come vorrei che essi si comportasse nei miei confronti? Non possiamo affermarlo ma, per ora, neppure negarlo.

--

--

wikipolis

Corporate Nationhood (TPP/TTIP/TISA) means (among other things) that Product & OS designers/builders are the new Statesmen