Lo scrittore euroamericano
Due chiacchiere con Jonathan Lethem
Il giardino dei dissidenti è il nono romanzo di Jonathan Lethem, autore newyorchese conosciuto dalle nostre parti per il successo de La fortezza della solitudine, Chronic City, Non mi ami ancora, Brooklyn senza madre. Ebreo di Brooklyn, figlio di un pittore e di un’attivista politica di sinistra, Lethem ha scritto un romanzo che, con intimità e calore, racconta la storia di una famiglia ebrea del Queens e del suo rapporto con il Partito Comunista Americano, fino a giungere ai giorni nostri e al movimento di Occupy Wall Street. È un romanzo appassionante, divertente, come tutti i romanzi di Lethem, uno scrittore praticamente incapace di mettere su carta una scena noiosa. È anche un romanzo molto poco “americano”, rispetto ai temi che Lethem ha affrontato in passato, come le avventure di un supereroe del ghetto o di un gruppo rock. Questo è un romanzo sul fallimento, sui sogni che non vengono avverati, due argomenti molto più europei e disfattisti che non i soliti temi della vittoria e del trionfo dello spirito umano sulle avversità, cose che associamo più all’America; forse sbagliandoci, forse no. È, infine, anche un romanzo che parla di New York, della sua evoluzione, o forse, per dirla meglio, della sua involuzione.
TS: La prima cosa che ho pensato leggendo questo libro è che, a differenza degli altri tuoi lavori, questo è un romanzo molto più europeo che americano.
JL: Sì, mi stai togliendo le parole di bocca. Ne parlavo settimana scorsa, in Germania. I critici lì mi dicevano tutti la stessa cosa: hai scritto un libro europeo. Guarda, è stato ricevuto bene in America, non me ne posso lamentare, ma è un libro più… comprensibile in Europa, come se avesse più senso qui. Ed è stato ricevuto molto meglio qui.
Beh, è la storia di una famiglia di intellettuali di sinistra, e della loro evoluzione dagli anni ‘30 ad oggi, ed è in parte anche la storia della sinistra e dei moti rivoluzionari, del Partito Comunista. E di come gli individui si scontrano con la Storia. Sono tematiche molto europee, e molto tipiche del grande romanzo europeo.
Esatto. Ma anche la semplice esistenza dell’intellettuale di sinistra, ma anche della “sinistra” in sè, è una cosa europea. In America è in discussione proprio se esista una “tradizione di sinistra”, mentre qui, almeno, non lo si mette ancora in discussione. In America non si può usare la parola “comunista” come la si usa qui. Però, alla fine, questo è un libro pieno di paradossi, e ci sono state persone che l’hanno visto come un attacco alla sinistra, e se lo vuoi vedere così, ti è possibile farlo. Anche se io non lo intendo in quel modo.
Io l’ho trovato ovvio che tu non fossi ipercritico della sinistra in sé. Si legge molto amore per questi rivoluzionari. Quello che mi sembra che tu abbia fatto è stato abbassare tutti i discorsi socio-politici a una dimensione umana, familiare, personale. Ma non per questo mi pare che tu stia accusando i tuoi personaggi di essere dei falliti.
È un problema molto americano, perché la cultura americana è ossessionata dai vincitori e dai perdenti, e la sinistra, in America, è ormai stata confinata all’area dei perdenti. E questo libro tiene in conto un sacco di umiliazioni, e di sconfitte, subite da questi personaggi “di sinistra”. Io personalmente non la vedo così, non tengo un punteggio di quante battaglie siano state vinte e quante perse. C’è solo la vita, e l’esperienza, la bellezza, l’assurdità del sognare un mondo migliore. È una cosa che amo molto di questi personaggi.
I personaggi sono ispirati a persone vere? Alla tua famiglia, per caso? So che c’era molto attivismo politico in casa Lethem.
Beh, sì, ma fatico molto con la parola “ispirazione”, perché comunque nel libro ci sono stati degli spunti iniziali tratti da mia madre, da mia nonna, sì, ma non è un libro autobiografico. Per come lavoro io, tu parti da quello spunto, ma poi, appena il libro inizia a prendere forma, il libro si muove nella sua direzione, come se avesse mente propria. Certo, iniziando, ho pensato che c’era qualcosa, nel mondo della rivoluzione, della protesta, dell’andare alle marce da bambino con la mia famiglia, c’era qualcosa, lì, da raccontare, da esplorare, qualcosa che forse mi era tornato in mente con il movimento Occupy. Quel primo spunto è nato dalla mia vita, ma quasi tutti gli spunti iniziali partono da una dimensione personale. Ma quando inizio a scrivere poi non so mai cosa succederà.
La tua reazione iniziale al movimento di Occupy, è stata una reazione, diciamo… ambivalente?
Inizialmente, no, anzi, ero euforico! Ero entusiasta! L’ambivalenza è arrivata dopo. Certo, tornando all’americanissima maniera di dividere tutto in vincitori e perdenti, ora il movimento Occupy è chiaramente stato confinato ai perdenti della storia. È uno scherzo. Nessuno può prenderlo sul serio.
Eppure lo stesso moto rivoluzionario grass-roots, a destra, non fa ridere, non è visto come uno scherzo. Un sacco di americani hanno una grande paura del Tea Party. E anche in Europa s’è vista la crescita notevole di movimenti rivoluzionari di destra, e quando dico rivoluzionari, intendo dire extra-parlamentari, anti-politici, anti-establishment.
È complicato. Osservo con una certa paura la crescita del neo-nazismo nei paesi più colpiti dalla crisi europea. Ma l’America è proprio in sè un paese rivoluzionario, un paese che nasce proprio con una rivoluzione, è un paese il cui spirito rivoluzionario è l’unico mito esistente, l’unica storia che tiene tutti uniti, che fa da collante socio-politico. Non c’è molto che ci accomuni negli States, siamo talmente grandi, talmente eterogenei, talmente senza un centro, che a parte questo mito della Rivoluzione e della Costituzione, questo mito che condividiamo dalla California a New York, beh, non c’è altro che ci leghi. C’è solo il mito, il sogno, la rivoluzione.
Il romanzo è anche molto newyorchese, che è da sempre il centro della sinistra americana. Mi ricordo, parlando con dei miei amici di NYC, la tesi secondo cui New York City non è una città americana, ma la più grande città europea al mondo. Il fatto che si trovi al largo della costa degli Stati Uniti non importa.
Certo, in un certo senso New York è il culmine della cultura europea. La prima volta che sono venuto in Europa mi sono subito reso conto che mi sentivo molto a casa. New York è a metà tra l’America e l’Europa, anche geograficamente, ed è costruita da persone che venivano in larga parte dall’Europa e che rifiutavano di assimilarsi completamente alla cultura americana. Gli assimilati andavano almeno nel New Jersey, se non ancora più a Ovest, come a Cleveland o addirittura nel West. New York è sempre stata una “via di mezzo” tra i due continenti. Ed è questo che la rende magnifica.
In che senso ti senti a casa in Europa?
Non lo so, ma ad Amsterdam, a Roma, a Parigi, mi sento sicuro di chi sono. La capitale cosmopolita europea è molto più simile a New York di quanto non lo siano altre città americane. Per dire: mi sento molto più a casa a Berlino che non a Los Angeles.
Ma di New York tu ne scrivi ossessivamente.
Hai ragione, sì. Però ora sono qui, in Europa, da mesi, e mi chiedo anche perché. Perché non sono ancora tornato? In parte penso che sia perché non mi riconosco più in New York. È cambiata troppo.
È abbastanza tragico cos’è successo a quella città.
Tragico. Davvero. È diventata un parco giochi per miliardari: non milionari, ma miliardari. È una città conservatrice, fondata sulla finanza, e sui soldi. Giuliani prima e Bloomberg poi, hanno militarizzato la città, hanno tolto servizi di base per i meno abbienti, le hanno dipinto sopra una nuova facciata. È triste, ma è anche parte di un trend nazionale. L’America ha ormai militarizzato la polizia, ha privatizzato le sue prigioni, ha dato tutto in mano alle corporazioni.
Detto tutto questo, però, rimane la città che ami di più?
Sì. Penso di sì. Ma è un amore irrazionale. Come spesso accade in amore.
Il giardino dei dissidenti è edito da Bompiani. Potete acquistarlo qui.