La Scatola Rossa

Yuri Abietti
4 min readAug 9, 2016

--

Nel 1983 la TSR pubblicò l’edizione riveduta e corretta del “Dungeons & Dragons” — contrapposto all’Advanced D&D — curata da Frank Mentzer. Poco dopo la mia avventura/disavventura con il diorama della morte di Boromir, vidi comparire nel negozio Strategiochi Wargames di via Lecco a Milano, la famosa “Scatola Rossa”, il set base di D&D che introduceva al gioco e permetteva di portare i propri personaggi dal primo al terzo livello. Vederlo e comprarlo fu praticamente un’azione unica. Ero profondamente incuriosito da questo nuovo concetto di gioco che non conoscevo, e ne avevo tutte le ragioni. Ora, magari sarà pleonastico e assurdo, in questa sede, cercare di spiegare che cos’è un gioco di ruolo, me ne rendo perfettamente conto… Ma lasciate che sottolinei alcuni punti per cui questa scoperta fu tanto straordinaria.

Una scatola con un’immagine che catturava la fantasia. Due manuali per il Master e per il Giocatore. Un set di sei dadi. Un’avventura introduttiva in un dungeon. Ho perso la Scatola Rossa che comprai da Strategiochi Wargames, purtroppo, prestata a qualcuno che non me la restituì mai. E a parte questo, perché “Fantasy” tra virgolette? Boh.

Fino ad allora, la cosa più vicina a un gioco da tavolo che avevo provato con una certa frequenza era Risiko. Ricordo nottate, da bambino, a Torino da mio padre, passate in partite interminabili in cui venivo inevitabilmente eliminato abbastanza presto senza che questo diminuisse di una virgola il mio divertimento. Mi piaceva anche guardare quello che facevano gli altri, le strategie, i colpi di fortuna o di sfiga. La cucina di casa dei miei nonni ha assistito a ore piccole con urla, contestazioni, bestemmie e dadi lanciati ovunque. Un po’ come la cucina della mamma del nostro amico Eugenio — a causa della Scatola Rossa — qualche anno dopo…

In generale, comunque, i “giochi” erano una cosa con caratteristiche ben precise. C’era un libretto delle regole, tendenzialmente piuttosto sottile, c’era una plancia di gioco (la “board” da cui deriva “board game”, ovviamente), dei dadi e delle pedine da spostare sulla suddetta. C’era uno scopo preciso, tutti i giocatori erano sullo stesso piano e si lottava sempre uno contro l’altro per raggiungere certi obiettivi che determinavano la vittoria di un contendente e la sconfitta di tutti gli altri. Questo valeva per Risiko così come per Monopoly o per i più complicati giochi di strategia napoleonici o sulla Seconda Guerra Mondiale. I boardgame più astratti e complessi, quelli cooperativi o “narrativi”, all’epoca non esistevano.

Giochi come questo, per dire. Che è divertentissimo. Ve lo assicuro. Come possono attestare le avventure di “Pipino Cazzocorto” raccontate con grande maestria dal nostro amico Giorgio.

Qui invece ci trovavamo di fronte a una vera e propria rivoluzione copernicana del concetto di gioco. Non c’era una plancia. Non c’erano pedine (sì ok, si disegnava la mappa su un foglio di carta e si potevano usare miniature, ma non era obbligatorio, poteva anche accadere tutto nella tua mente). I libri di regole erano giganteschi e sembravano più dei racconti fantasy, con inserti narrativi e tutte quelle meravigliose illustrazioni di Larry Elmore, Jeff Easley, Keith Parkinson e gli altri incredibili artisti su cui aveva messo le mani la TSR negli anni ottanta e novanta. Ma soprattutto non si giocava “uno contro l’altro”… E non tutti i giocatori erano sullo stesso piano! C’era un regista che presentava una scena ipotetica e degli attori che dovevano interpretare, per l’appunto, un ruolo. E il successo della missione non era necessariamente motivo di vittoria: la soddisfazione personale, il divertimento e la capacità di giocare coerentemente il proprio “player-character” erano di gran lunga la cosa più importante. Insomma, tutto era stato ribaltato. Tutto ciò che pensavamo di sapere dei “giochi” era stato buttato alle ortiche e reinventato di sana pianta.

I meravigliosi orchetti della Citadel, un look che verrà ripreso da Warhammer e dagli illustratori di White Dwarf.

Oggi diamo per scontate tutte queste cose ma in quel momento tutto ciò rappresentò davvero un approccio rivoluzionario, al punto che feci fatica a comprendere certi concetti. L’idea di poter fare sostanzialmente qualsiasi cosa con il proprio personaggio e non avere un set di azioni da compiere nel proprio turno prestabilito rigidamente dal regolamento era esilarante e inebriante.
“Mi arrampico sul muro e salto addosso all’Orchetto!” (Sì, all’epoca esistevano ancora gli Orchetti, non so che fine abbiano fatto ma a mio parere la loro scomparsa è una grande perdita per l’umanità).
“Tira questo dado e guarda se fai di più o di meno del numero che hai segnato sotto Destrezza”.
“Ho fatto 13 e ho Destrezza 15!”
“Ci sei riuscito, l’Orchetto cade a terra ed è disorientato. Hai un turno libero, cosa fai?”
Cosa fai. Una domanda che non eravamo abituati a sentirci fare giocando a un boardgame. Né, come Master, eravamo abituati a studiarci, praticamente, la trama di un film per intrattenere i nostri giocatori. Non credo di riuscire a sottolineare a sufficienza cosa questo completo cambio di paradigma abbia significato per il mondo del gioco nel suo complesso, quanto abbia cambiato… Tutto!

Inutile dire che le vere potenzialità di un role-playing le scoprii più avanti. All’inizio, il divertimento era disegnare dungeon complicati con dentro i mostri più assurdi, mettendoci trappole e tesori. E, in fondo, D&D derivava da un gioco di combattimenti individuali tra miniature (il famoso “Chainmail”) e anche nella scatola rossa se ne potevano percepire i residui. Ma sulle nottate ad accaparrare tesori e ammazzare qualsiasi cosa avesse una Classe Armatura sarà bene, forse, scrivere un articolo a parte…

--

--

Yuri Abietti

I write stories, songs and lyrics. I sing. I play games and guitars. I have been swimming upstream all my life.